Recensione dello spettacolo ISMENE/ANTIGONE, La sorella minore – da “Pale Sister” di Cold Tóibín – adattamento e regia di Carlo Emilio Lerici –

TREND – NuoveFrontiere dalla Scena Britannica

– Rassegna ideata da Rodolfo di Giammarco –

dal 3 Ottobre al 17 Novembre 2024

TEATRO BELLI, dal 3 al 6 Ottobre 2024

Carlo Emilio Lerici sceglie di immergere il testo di Colm Tóibín in un ambiente abitato da sonorità oniriche: il luogo di un altro linguaggio, di un linguaggio di là dei principi della logica, che dà la parola al silenzio delle ombre.

E’ il luogo di Ismene: la figlia nell’ombra, che sta dietro la fulgente Antigone, la figlia nell’angolo e che percepisci solo con l’angolo dell’occhio: per la quale non ti volti. Perché lei è la figlia “opaca”; dall’altro canto c’è Antigone: la figlia che brilla, che brucia, che accieca.

Colm Tóibín – che nel 2018 si appresta a riscrivere la tragedia sofoclea sulla scorta di recenti casi di cronaca legati a «questioni di genere, di abuso di potere, di silenzio e comunicazione», temi a lui cari e trasversali alla sua produzione – sente una speciale attrazione per le figure del mito oscuramente chiare, a cui si è trovata una casella e un’etichetta nelle quali confinarle per metterle poi a tacere in un canto, in un angolo.  Ma lui da queste figure si sente come chiamato: ascolta il loro grido di richiesta d’attenzione e le fa rivivere togliendole dagli impropri confini in cui sono state asfissiate. Riattivando così la luminosità delle loro ombre, perché sono ombre che plasmano – o possono plasmare – ogni essere umano. E che quindi è utile conoscere: per conoscerci meglio e per riuscire a farne un buon uso.  Un uso creativo.

Carlo Emilio Lerici, regista solleticato dalle scelte difficili e dalle sfide drammaturgiche che richiedono un‘inclinazione a misurarsi con orizzonti culturalmente ambiziosi, sceglie il testo di Tóibín, lo adatta e lo mette in scena calibrandolo al suo sentire.

E fa di Ismene prima ancora che un personaggio, l’espressione di un luogo della nostra psiche. Un luogo dove sopravvivono resti, rovine, traumi che, sapientemente illuminati dal basso e resi più prossimi, parlano di noi più di mille parole. Perché il silenzio di ciò che è andato dimenticato, sotterrato, rimosso, parla. Ci parla.

Lerici fin da subito evidenzia come proprio attraverso quel luogo in cui è immersa Ismene – un sottosuolo da cui sta riemergendo come sul confine tra il sogno e la veglia –  le arrivino quegli indizi, quei resti mnemonici andati persi e attraverso i quali lei – solo dopo aver attentamente osservato in silenzio – riuscirà a condurre un efficace mutamento. 

Perché è proprio di chi si sa mantenere sul confine – ovvero sul margine inteso come luogo d’incontro e non solo di separazione con l’altro – riuscire a cogliere la preziosità della vita. 

L’Ismene di Lerici diventa “la sorella minore” anche perché minore ha tra i suoi significati quello di “marginale” appunto, al quale noi siamo tentati però di dare esclusivamente il significato di trascurabile, di irrilevante, di inferiore. E’ nella nostra natura cadere in questo terreno paludoso, perché il primo istinto che ci viene dato a corredo al momento in cui veniamo gettati nella vita è l’istinto alla sopraffazione. Per poter sopravvivere. Poi, per vivere, si impara ad amare e quindi ad entrare in relazione. Resta sempre però la tentazione a non mantenersi in dialogo con l’altro sul margine che ci separa, quanto piuttosto a scavalcarlo. 

Antigone è in questa visione colei che ha scelto di allontanarsi da quel luogo fisico e psichico che è la camera dove le sorelle dormivano, scegliendo di andare ad abitare un’area mortifera della psiche: quella della grotta. Quella di un eccesso di giustizia insensibile a mediazioni, al dialogo, alla relazione. 

Ismene non è solo preoccupata, lei “sente”  l’avvicinarsi del pericolo in cui sta per affidarsi la sorella. Lei, Ismene – come è mirabilmente evidenziato dall’interpretazione di Francesca Bianco – è una donna che acutamente trova risposte – più che nelle parole – nella prossemica, nella postura, nelle espressioni non verbali del viso dell’altro. Nei silenzi. E proprio perché interessata a “fare amicizia con il proprio peggio” – per citare il titolo di un saggio di Massimo Recalcati sull’inconscio – proprio perché ascolta le sue ombre, riesce a leggere e a decifrare quelle dell’altro.

Quelle ombre così incantevolmente rese in tutte le loro variazioni dal canto di Eleonora Tosto: un canto opportunamente enigmatico eppure pungentemente chiaro, risuonante, perturbante. Così come il contrappunto della chitarra elettrica di Matteo Bottini.

Carlo Emilio Lerici ha trovato una modalità raffinata e umbratile per mandare in scena il teatro del nostro inconscio mettendolo in dialogo con il teatro della luce diurna del conscio. Una luce apparente, ma che è così facile far diventare certa, netta, tagliente e quindi mortifera per gli altri e per se stessi. Perché non è possibile fare del bene senza calarsi ogni volta nella situazione specifica, senza incontrarsi con l’altro sul margine che vorrebbe dividerci.

Per riuscire a dire “io non ho paura di te”: come fa Ismene, anche su consiglio dello stella spettrale di Antigone, che come le stelle morte del cielo continua a essere luminosa anche se ormai morta. Luminosa di una luce diversa ora, meno eccessiva, meno accecante perché intrecciata e in dialogo alla luce delle ombre di sua sorella Ismene.

Una dichiarazione “io non ho paura di te” che impropriamente siamo tentati di cogliere come un atto di sfida (come fa Creonte) ma che invece può diventare la base di un possibile dialogo. Possibile appunto solo a patto che si deponga a terra, sul confine, l’arma della paura.

Un testo necessario, tradotto da Lerici in una messa in scena che riesce a farci tornare a casa con delle domande, necessarie per “fare amicizia” con nuove prospettive.

In scena al Teatro Belli fino al 6 Ottobre 2024


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CLITENNESTRA regia di Roberto Andò

da “La casa dei nomi” di Colm Toíbín

TEATRO ARGENTINA, dal 10 al 21 Gennaio 2024 –

Il suo sguardo è prigioniero di una visibilità opalescente. La Clitennestra di Colm Toíbín, a cui si ispira il regista Roberto Andò, è ossessionata dal tormento di non aver intuito l’intento omicida di suo marito Agamennone, nei confronti dell’adorata figlia Ifigenia.

Roberto Andò

Proprio lei, così ricca in dimestichezza con l’odore del sangue, si è lasciata sedurre dal riporre fiducia in Agamennone. “Ti ho creduto”: un imperdonabile errore.

Colm Toíbín

La partecipe commozione di Andò per lo sguardo sui fatti della Clitennestra di Toíbín fa sì che immagini la regina di Micene nell’atto di rievocare, con follia lucida e opalescente, i fatti che precedettero e seguirono la morte di Ifigenia.

Lo spazio scenico è la rappresentazione di un disvelamento della mente della donna, generalmente considerata tra le più spietatate del mito. Andò, come Toíbín, non è interessato a processarla per condannarla, quanto piuttosto a prendersi cura di svelarne le dinamiche relazionali e psicologiche. Come una donna estrapolata dal mito e immersa nelle incertezze della quotidianità. 

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Cosa succede allora nella mente di una donna, di una madre e di una moglie tradita dalla fiducia riposta nel marito che, pur di proseguire con successo la guerra è disposto a sacrificare la vita di una figlia ? E pretende subdolamente la complicità della moglie, facendole credere che è un matrimonio quello a cui lei sta preparando la figlia ? Un marito che anche successivamente giustifica il suo atto come il male minore ? Meglio la morte di una persona, piuttosto che la morte di un esercito di persone.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

Nell’opalescenza della sua psiche, conseguenza di un inarginabile dolore, la Clitennestra di Andò cerca un varco. Può farlo solo procedendo con l’aiuto delle mani, come cieca: accecata dal dolore. Trova il varco: ci trova. 

Le sue palpebre, sipari scenici, faticano a sostenere il peso della luce. Vince la tentazione a chiuderle: così si affida alla voce, al racconto, a quello che resta del suo rievocare. Allucinato e ossessivo. Sono ombre che si allungano, l’odore della morte che permane, gradito come la visita di un grande amico. Lui sì, compagno fedele. Le palpebre riescono a risollevarsi: rivelano scenari di vuoto squallore, come dopo aver ripulito una mattanza. 

Una lacerata e lacerante Isabella Ragonese tormentata dalle viscere e preda dell’incanto del dolore subìto e oramai ingovernabile – “sarò lasciata così, per gli anni che mi saranno riservati. Non di più ” – si dona a noi padri, madri. E figli: perche la condizione di figli tutti ci accomuna. E lei si danna per aver ricevuto un dna, un’eredità genetica, così luttuoso. Non se la prende con gli dei, o con il dio di Abramo ed Isacco. Qui, dallo scenario esistenziale, gli dei dono assenti. È la natura umana ad essere indagata in purezza da Toíbín, e quindi da Andò. 

I personaggi in scena (Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Bacheroni, Denis Fasolo, Katia Gargano, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini e il coro Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini e Antonio Turco) non sono quelli della tragedia greca: sono uomini e donne del primo Novecento, attraversati dalle guerre mondiali e immersi in una sorta di nichilismo nietzschiano. Sono gli anni della diffusione della psicoanalisi, di una nuova attenzione per la malattia mentale. Abita la scena – e i costumi di Elettra e di Ifigenia – un’atmosfera anche da ospedale psichiatrico.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

Il coro perde la solennità della postura: è seduto, spesso a terra, come se la forza gravitazionale diventasse più difficile da sfidare. È il richiamo della terra a dominare, degli instinti alla sopraffazione: così connaturati in noi. Innati. Non è solo il dna di Clitennestra ad essere luttuoso.

I meandri della natura umana sono misteriosi. A volte irriducibili. E ci accomunano tutti. Sempre. Non solo nel mondo greco del V secolo a.C.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

La regia di Roberto Andò porta in scena una condizione esistenziale così credibile da essere di una bellezza agghiacciante. Ha l’audacia di proporre un diverso punto di vista su questa donna, madre e moglie, che ci è vicina più di quanto immaginiamo.

Così vicina da risultare quasi irresistibile correre sul palco a donarle solidarietà: quando la Ragonese si apre in quel filamento di urlo metallico, che fatica, come un cigolio, a farsi suono nella gola. 

Arianna Bacheroni (Ifigenia) e Ivan Alovisio (Agamennone)

in “Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Così come strazia, fino a lasciarci quasi in brandelli, la dolcezza disarmata di Ifigenia: figlia che si scopre asciutta di lacrime e senza la persuasione necessaria per convincere il padre a non ucciderla. A preferirla alla guerra. Tanto risulta innaturale chiederlo. Tanto ci si aspetterebbe fosse innato, scontato. E invece no. Siamo anche così. 

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Accattivante la coralità tragica e seduttiva della danza degli intrighi, delle ambiguità e delle macchinazioni proprie della psiche umana. In un crescendo parossistico. E disperato.

Umano.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli



Recensione di Sonia Remoli