Recensione dello spettacolo CHICCHIGNOLA di Ettore Petrolini – regia Massimo Venturiello –

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Il 10 Novembre 2025, nella solenne cornice della Sala della Regina – Camera dei Deputati

Massimo Venturiello riceve il Premio Petrolini

TEATRO SALA UMBERTO

dal 19 al 22 Settembre 2024

Un luccichio di sorrisi, di flash e di molteplici eccitazioni ha illuminato ieri la serata di inaugurazione della Nuova Stagione Teatrale alla Sala Umberto di via della Mercede, 50.

In scena la celebre commedia di Ettore Petrolini “Chicchignola”’ per la regia di Massimo Venturiello, con Maria Letizia Gorga e con (in o.a.) Franco Mannella, Claudia Portale, Carlotta Proietti e lo stesso Massimo Venturiello nelle vesti di un multiforme Chicchignola.

Lo sguardo registico di Venturiello sceglie di aprire lo spettacolo con l’ironico struggimento del “Tango romano” – brano musicale scritto a quattro mani da Ettore Petrolini e dal Maestro Angelo Burli. 

Il Maestro Burli e Petrolini

Nella seducente malinconia del ritmo binario è racchiuso un sogno che Chicchignola fa suo: vivere una nuova primavera, stagione della vita e dell’animo che dura sempre troppo poco – “un friccico” – ma che fa così bene “ar core”. Riviverla, sarebbe “un sogno d’oro”.

Con questo “prologo” – rivisitazione petroliniana del cliché erotico-sentimentale proprio del teatro di rivista – il regista Venturiello inizia a seminare tracce del filo conduttore che attraverserà tutta la commedia. 

La vita come l’amore è una danza, un tango, che si balla in coppia e dove – dicono i milongheros di Buenos Aires – “l’uomo conduce e la donna dispone e seduce”. 

Siamo intrecciati cioè, come i ballerini di tango, in un “dialogo” dove – anche senza condurre – si comunica all’altro con i propri spostamenti ( di peso ed emotivi ) il proprio respiro. Insieme a tutta una serie di informazioni, che diventano di ispirazione per i passi successivi dell’altro.

Massimo Venturiello

Così, la sagacia del Venturiello regista, ci invita a guardare la splendida commedia di Petrolini, che non a caso ebbe così tanto successo al tempo e ancora oggi non smette di intrigarci. Perché la sua drammaturgia ci legge, parla di noi, di come sia difficile entrare in relazione con noi stessi attraverso l’altro. Ma anche di come non possiamo farne a meno. 

Il sipario si apre infatti su un altro sogno, quello di Eugenia, compagna di Chicchignola: anche il suo sogno – come quello del suo compagno – parla di “oro”.  Ma le sue sono monete e non la fulgente inafferrabilità di un rinnovato sentimento amoroso. 

Massimo Venturiello

Lei si sente furba perché cerca, e crede di aver trovato, la sicurezza economica e reputa invece Chicchignola un fallito perché non la segue nel suo egoismo concreto.

Lui introduce allora un altro passo: non quello della furbizia ma quello dell’ “ingegnosità”, del talento a saper creare e, con perspicacia, saper superare sfide.

Ma lei, Eugenia, non lo segue nel respiro del suo passo “ingegnoso”, né se ne lascia ispirare per proporre qualcosa di diverso. No: apparentemente lo asseconda ma solo per poter intrecciare di nascosto un’altra danza con un nuovo ballerino. 

Perché alla fine – pensa lei – che valore ha un uomo che ama dare vita ad un gioco? Che senso ha produrre e aspirare a vendere qualcosa di immateriale, che non si mangia e che non dà granché da mangiare?

E così Chicchignola, in un mondo di presuntuosi furbetti, diventa ridicolo. 

Ma niente è solo come appare, perché le più disparate personalità vivono dentro di noi. E quella che appare è, spesso, solo quella che abbiamo scelto di far vedere: quella che riteniamo “più presentabile”, più furba, più efficace per essere accettati dai più. 

Sono i “sogni” a mettere in scena ciò che noi siamo davvero.

E Chicchignola sceglie di restare fedele, nonostante tutto e tutti, al suo sogno di una nuova primavera. E si diverte (amaramente) a portare alla luce con il potere delle sue arti – ovvero quella dell’ingegno, quella dell’analisi psicologica, quella della maieutica socratica nonché quella del relativismo pirandelliano – le nascoste identità di tutti.

Un po’ come sollevando le coperte, sotto le quali ciascuno nasconde le sue vere identità. Coperte che l’estro di Alessandro Chiti sceglie di utilizzare  per vestire la scena, realizzando piani diversi di uno stesso patchwork di conformismo.

Maria Letizia Gorga, Carlotta Proietti, Massimo Venturiello, Claudia Portale, Franco Mannella

In scena gli attori Maria Letizia Gorga (una penetrante Eugenia), Franco Mannella (un esplosivo Egisto), Claudia Portale (una dolcemente ambigua Lalletta), Carlotta Proietti (un’enigmatica Marcella) e Massimo Venturiello (un Chicchignola davvero ricco in carisma) volano con il ritmo, ci seducono attraverso il riso e così facendo rendono disponibili noi del pubblico a seguirli nel respiro dei loro passi. Restando loro, sempre in ascolto di ogni nostra reazione. 

Una danza, un tango, davvero irresistibile.

Un modo di fare teatro – allegro, selvaggio, guitto – e di continuare a difenderlo, nella sua essenza irrinunciabile di “dialogo”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA STRADA ALL’ ALTEZZA DEGLI OCCHI di Donatella Diamanti – regia Luca Gaeta

TEATRO MARCONI, dal 18 al 28 Gennaio 2024 –

Nel seminterrato di una strada che ricorda “Via del Campo”, la strada di coloro che abitano gli orli della società , vive Pina: “la graziosa dai grandi occhi color di foglia” .

Un luogo che è anche uno stato della mente e una condizione psichica: quella di chi tenta di evitare il fuoco dell’inferno e insieme la monotonia del paradiso. 

Tiziana Sensi (Pina) e Mariano Gallo (Principessa)

È il mondo cantato da De André: un mondo definito malfamato dall’ipocrisia borghese ma permeato da pura autenticità. È il mondo a cui allude l’appassionata drammaturgia di Donatella Diamanti.

Pina (una Tiziana Sensi di malinconica ed ingenua bellezza) abita, ed e abitata, da un monolocale seminterrato, dove quel che resta della visibilità – consentita dal muro che occupa gran parte della vetrata – permette di vedere la strada all’altezza degli occhi. 

Un’ottica, e quindi uno sguardo, che ai più sfugge ma che rivela come si vive strisciando a terra e rischiando ad ogni istante di essere schiacciati. Metafora di un’umanità che vive ai margini della società. 

Tiziana Sensi (Pina)

Il pericolo di schiacciamento viene amplificato dalla sensazione provocata dal particolare posizionamento obliquo, anziché perpendicolare, della vetrata-tetto del seminterrato. Sensazione percepita e ritratta da Guido, il figlio di Pina, nei suoi disegni. 

La scena, così centrale in questo spettacolo diretto con profonda sensibilità dal regista Luca Gaeta, è magnificamente realizzata da Alessandro Chiti, che vi crea un habitat vitale di decadente poesia. 

Tiziana Sensi (Pina)

Pina sta scrivendo una lettera: la sua ultima lettera. Fatica a terminarla perchè il desiderio di vita riaffiora in lei prepotentemente, nonostante tutto: è il desiderio di prendersi cura degli altri ad “innaffiare” la sua densa malinconia. E poi ci sono i ricordi: quelli belli. Quelli che la legano a Guido, il suo amato bambino. 

Pina solo apparentemente sembra accontentarsi di un’esistenza “a mezza bocca” : di quelle che capisci e non capisci. Il suo autentico desiderio è quello di non rendere totalmente incomprensibile ciò che in realtà lei vuole “si legga” di se stessa.

Tiziana Sensi (Pina)

Il suo avvicinarsi sul confine dove la vita si incontra con la morte non denota la volontà di ‘decidere’, cioè di “tagliare” e quindi di separare la vita dalla morte. Non a caso il suo commiato termina con un “arrivederci” e non con un “addio”. È piuttosto invece come se desiderasse ancora una possibilità: quella capace di regalare una nuova “forma” (non più semi-oscurata e schiacciata) alla sua esistenza, grazie alla forza trasformativa che solo certi incontri sanno “accendere”.

Mariano Gallo (Principessa)

Ecco allora il manifestarsi di Principessa (un Mariano Gallo “dal sorriso tenero di verdefoglia” che non teme di correre verso “l’incanto dei desideri”) : una creatura così diversa da lei, eppure così capace di sintonizzarsi sulle sue frequenze. Così effervescente, eppure con un allure da pierrot liricamente struggente.

Quando si ritrova al cospetto di Pina ne è frastornata perchè: 

“lei ti guarda con un sorriso

non credevi che il paradiso

fosse solo lì al primo piano”

Mariano Gallo (Principessa ) e Tiziana Sensi (Pina)

Ma Pina è anche una donna che si affida ad una logica primitiva, infantile, che va al di là dei principi della logica. Per lei non esistono etichette per incasellare le cose e le persone in maniera definitiva (come invece tende a fare Principessa): lei va oltre il principio di identità e di non contraddizione. Le cose, i fatti, le persone, possono essere letti secondo diverse modalità. E lei ogni volta le fa esistere tutte, nominandole. E solo dopo, ne sceglie una. Guidata dal suo istinto. E così finisce per avvolgere Principessa in una selvaggia e tenera confusione gioiosa. 

Tiziana Sensi (Pina)

Principessa al contrario, per difesa, ha scelto di sorreggersi proprio grazie all’univocità delle definizioni della logica: vere e proprie etichette che lasciano Pina piuttosto stordita. 

Ma pur percorrendo strade esistenziali diverse, queste due “anime all’orlo” riescono a trovare quel sentiero che le fa incontrare e stare bene insieme. Fertilmente. Saranno proprio le loro ferite più o meno nascoste ad avvicinarle, ad incuriosirle a vedere le cose del mondo anche con lo sguardo dell’altra.

Mariano Gallo (Principessa)

Principessa ad esempio ha difficoltà con l’olfatto: il nostro cervello ancestrale. Dietro il suo altezzoso “schifarsi” si cela la difficoltà ad entrare in contatto con la natura più primitiva di sé. Non meno di Pina, anche lei chissà quante volte avrà pensato di farla finita. Ma poi di tutte le lettere di commiato ha finito per decidere di farne balze del suo “habitus”.

Efficacemente estrosa risulta allora la scelta della costumista Ilaria Ceccotti di ri-coprire Principessa con una sorta di vestaglia-soprabito sulla quale sembrano cucite, e insieme lasciate libere di balzare, le sue passate lettere di “arrivederci”. 

Tiziana Sensi si cala generosamente dentro il personaggio di Pina, dotata di una psiche così semplice eppure così straordinariamente ricca di contraddizioni, tessendo con questo complesso personaggio una trama di potente complicità. E lo spettatore ne avverte tutta la drammatica e primitiva bellezza. 

Mariano Gallo, proprio nell’andare “a correggere la fortuna”, trova il modo più adatto per farci dono di una preziosa possibilità: quella di poter avvertire epidermicamente, e quindi intimamente, quanto possa essere bella anche una natura così esuberantemente fragile, così ricca di femminile ma anche di maschile. Che si dà senza sbavature: in purezza. Limpida, proprio perché consapevolmente torbida. 

Uno spettacolo intimo: tragicamente comico. Uno spettacolo umano e divino: un viaggio interiore alla ricerca della nostra identità, del nostro sogno. Che attraversa “ingorghi di desideri” per poi godere del loro incanto.

Uno spettacolo che ci parla del nostro realizzarci come “anime salve”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LO STATO DELLE COSE – scritto diretto e interpretato da Massimiliano Bruno –

TEATRO PARIOLI, dal 3 al 21 Maggio 2023 –

Vivace fermento ieri sera al Teatro Parioli per la prima dello spettacolo di e con Massimiliano Bruno “Lo Stato delle cose”.

Uno spettacolo di narrazione, costruito e cucito per 33 talentuosi interpreti, suddivisi in tre diverse distribuzioni, che si alterneranno per le tre settimane di scena.

Questa settimana in scena, oltre all’onnipresente Massimiliano Bruno, gli 11 allievi del suo Laboratorio di Arti Sceniche: Giulia Napoli, Lara Balbo, Matteo Milani, Anna Malvaso, Giorgia Remediani, Daniele Locci, Francesco Mastroianni, Giulia Cavallo, Daniele Di Martino, Filippo Macchiusi, Cristina Chinaglia.

Lo spettacolo è imperniato intorno al tema della “creazione” come atto di vitalità, artistico e civile.

Alcuni degli 11 interpreti in scena dal 3 al 7 Maggio al Teatro Parioli

L’occasione che dà avvio alla narrazione è la crisi d’ispirazione di un regista (un istrionico Massimiliano Bruno) che per sfuggire all’attanagliamento del terrore della pagina bianca passa in rassegna, con la complicità della sua solerte assistente, alcuni dei testi precedentemente scritti e archiviati nella propria mente.

L’autore e regista dello spettacolo “Lo stato delle cose” Massimiliano Bruno

La scena, infatti, una elegante e insieme fantasmagorica libreria, è anche luogo della mente del regista. L’estro di Alessandro Chiti, che ne ha curato la realizzazione, fa sì che dai più insospettabili meandri della stessa facciano capolino o s’impongano, quasi pirandelliani personaggi in cerca d’autore, storie lì custodite.

Ed è così che, mentre il regista cerca l’anelata nuova idea, accattivanti monologhi o dialoghi prendono forma e carne attraverso il corpo degli 11 ragazzi (allievi del Laboratorio di Arti Sceniche di Massimiliano Bruno) tutti, nella loro preziosa diversità, ricchi in valore.


Massimiliano Bruno e gli allievi del suo Laboratorio di Arti Sceniche

Per produrre idee e trovarne una buona, si sa, occorre avere ben presente l’obiettivo da raggiungere e nell’attesa che prenda forma, muovere la mente intorno ad altro. E, scongiurata la paralisi da ansia da prestazione, l’idea arriva. Così come accade, un attimo prima della chiusura del sipario, al regista sulla scena. 

Nelle intenzioni di Massimiliano Bruno, celate nella duplice lettura del titolo dello spettacolo, lo stato delle cose allude non solo ad una situazione propria del mondo dello spettacolo ma anche dello Stato, che noi tutti andiamo a costituire e nel quale, come cittadini, abbiamo la responsabilità di far valere le nostre “storie”.

Il valore di una storia, infatti, tanto che riguardi fatti umani realmente accaduti oppure invenzioni di fantasia, è ciò che più ci caratterizza come esseri umani. Significa saper custodire una memoria e apprendere da ciò che i nostri simili hanno fatto in passato. Ma una storia è anche ricerca, indagine. Continua.

Anche nei momenti di “crisi”, perché la crisi è sì un momento di forte turbamento ma soprattutto è un momento in cui si verifica l’urgenza di una scelta. Come “la narrazione” così anche “la crisi” infatti è una delle cifre della vita, che racchiude il fascino di un pericolo che può diventare una preziosa opportunità. Al di là di un: “Basta che famo i soldi !”.

Massimiliano Bruno

La scrittura e la narrazione di Massimiliano Bruno brillano in chiarezza per immagini: è sua la capacità di raccontare rendendo “visibili” i concetti, riuscendo a coniugare la profondità di un delfico appassionarsi a conoscere se stessi ad una rara leggerezza. Quella calvinianamente intesa.


Qui, le diverse distribuzioni dello spettacolo:


3 – 7 Maggio Massimiliano Bruno, Giulia Napoli, Lara Balbo, Matteo Milani, Anna Malvaso, Giorgia Remediani, Daniele Locci, Francesco Mastroianni, Giulia Cavallo, Daniele Di Martino, Filippo Macchiusi, Cristina Chinaglia


8 – 14 Maggio Massimiliano Bruno, Malvina Ruggiano, Martina Zuccarello, Alessia Capua, Niccolò Felici, Federico Capponi, Francesco Mastroianni, Kabir Tavani, Francesca De Cupis, Sofia Ferrero, Giorgio Petrotta, Giulia Fiume


15 – 21 Maggio Massimiliano Bruno, Sara Baccarini, Tiziano Caputo, Agnese Fallongo, Giuseppe Ragone, Rosario Petix, Chiara Tron, Daniele Trombetti, Germana Cifani, Federico Galante, Clarissa Curulli, Liliana Fiorelli.

Lo spettacolo sarà diverso ogni settimana ma i tre allestimenti non saranno propedeutici l’uno all’altro.


Luci: Salvatore Faraso

Costumi: Valentina Stefani

Scenografia: Alessandro Chiti

Coordinatrice Susan El Sawi

Aiuto Regia: Sara Baccarini 

Assistenti alla regia: Lorenza Molina, Roberta Pompili, Paolo Sebastiani

Produttore esecutivo: Enzo Gentile

Produzione Il Parioli


Recensione di Sonia Remoli

Gli amici di Peter

TEATRO VITTORIA, dal 5 al 15 Maggio 2022 –

“La verità non è facile da dire”.

Che cosa “ci accade” veramente? Che cosa vogliamo davvero?

Queste le domande sulle quali Stefano Messina, regista di una profonda e brillante commedia, sceglie di farci riflettere. Così come con elegante coerenza Alessandro Chiti, che ne cura la scenografia, riesce ad alludere con efficacia.

Ciò che ci appare chiaro e nitido in realtà non lo è. La verità, come sosteneva Arthur Schopenhauer, è ricoperta da un velo, difficile da attraversare. “Ci vuole arguzia” – sembra volerci suggerire il regista: ecco allora che in apertura dello spettacolo, a mo’ di prologo, la testa di un attore riesce ad individuare una feritoia e da lì sbuca, penetrando il velo del sipario. E così riusciranno a fare anche i suoi amici: acrobaticamente in verticale, sfruttandone morfologicamente l’opportunità.

Perché è con profonda leggerezza, complicità ed altruismo che possiamo riemergere da situazioni disperate, da “stagnaro ignaro”. C’è sempre un modo per “far benzina”, anche quando la macchina si arresta nel bosco: questo è il segreto nascosto nell’allegro e spensierato jungle da avanspettacolo che apre e chiude l’interessante adattamento proposto dal regista.

E dove i suoi attori, come “vecchi guitti”, sanno farsi coinvolgenti interpreti, calandosi nei diversi ruoli nei quali siamo chiamati “a giocare” ogni giorno. Tutti i giorni. Per tutta la vita.

La classe

TEATRO QUIRINO, dal 19 al 24 Aprile 2022 –

Società per Attori   Accademia Perduta Romagna Teatri   Goldenart Production
presentano


LA CLASSE


di Vincenzo Manna
regia GIUSEPPE MARINI

con
CLAUDIO CASADIO  ANDREA PAOLOTTI  BRENNO PLACIDO
EDOARDO FRULLINI  VALENTINA CARLI  ANDREA MONNO
CECILIA D’AMICO  GIULIA PAOLETTI

scene Alessandro Chiti

costumi Laura Fantuzzo
musiche Paolo Coletta
light designer Javier Delle Monache

regia GIUSEPPE MARINI

Siamo davvero così al sicuro in “una classe” ? A che prezzo ?

Un giovane insegnante di Storia (un ardente in entusiasmo Andrea Paolotti) si trova in aula quelli che sono risultati i peggiori della “classe” (gli esplosivi Brenno Placido, Edoardo Frullini, Valentina Carli, Andrea Monno, Cecilia d’Amico, Giulia Paoletti), i più in-disciplinati, gli in-classificabili e, come tali, relegati “fuori dalle mura” di una convenzionale nomenclatura scolastica. Microcosmo di un più ampio macrocosmo: quello che coinvolge la città, tesa prepotentemente a “separare” quello zoo di umanità diversa che non è più sufficiente relegare vicino al fiume e che si sta confinando dentro alte mura.

Ma “classificare” significa davvero mettere ordine?

All’apertura del sipario, il regista Giuseppe Marini ci presenta una duplice situazione: uno spazio chiaro e definito, quello del proscenio, e poi uno spazio retrostante (delimitato da un velatino) nebuloso, oscuro, confuso.

Dal proscenio avanza il Coro (un intenso Claudio Casadio), a dare avvio allo spettacolo con un insolito e arguto Proemio, incentrato su una metafora zootecnica: quella del comportamento delle galline, una “classe” così insospettatamente simile a noi uomini. Appartengono le galline al genere dei volatili ma non sanno volare: non solo a causa delle loro ali troppo piccole ma anche perché vivono nel “sospetto”. Cercano una vita tranquilla e per questo vivono in gruppo, organizzate in ruoli ben definiti. Appena qualcosa esce fuori dai confini di quella che loro hanno individuato come “normalità”, il gruppo diventa crudelmente razzista. Ad esempio, se una gallina si ammala si inizia a bullizzarla: beccandola. Continuamente. Fino a condurla verso la morte. A quel punto, se riescono, la portano definitivamente “fuori”; altrimenti è il gruppo delle “sane” a spostarsi. Lo fanno per “proteggere” il gruppo della malattia.

Il velatino se ne va e ci si rivela un’aula dallo stile architettonico razionalista, al cui interno regna il caos. Le pareti imbrattate e ingiallite di ombre e di polvere ricordano le “Delocazioni” di Claudio Parmiggiani; fogli di carta e libri, ormai stracciati, perdono il loro posto sui banchi per finire a terra, a costituire un nuovo pavimento, calpestato con noncuranza. Mutano le funzioni dei banchi, sui quali ci si siede, e delle sedie divenute poggia-piedi. Entrambi pronti ad essere ripetutamente cavopolti, rovesciati.

Una scenografia, quella di Alessandro Chiti, che sa rendere con efficacia, anche estetica, il taglio che il regista Claudio Marini ha scelto di dare allo spettacolo e che può essere racchiuso nello scambio di battute tra l’insegnante e un’allieva: -“Hai visto gli altri?” -“Chi sono gli altri?”

Uno spettacolo attualissimo, profondo, elegantemente crudo, accattivante. 

Interessante la struttura narrativa: una successione di quadri temporali ed iconografici, costruiti quasi come capitoli di un libro. Salvato dall’essere stracciato e buttato a terra. Un libro che ci invita a liberarci dai sospetti, “aperto” alle diversità e quindi alla libera espressione del nostro desiderio. Il solo che ci rende divinamente umani: capaci di “volare” .