GRAN TEATRO BERNINI – drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso

TEATRO NUOVO ATENEO

12 e 13 Giugno 2025






“Di cosa resterà memoria?” – si chiede, in un profondo momento di crisi, il poliedrico artista Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) nella lettura che ne fa il drammaturgo e regista Francesco d’Alfonso – “Resterà memoria di sogni o di concrete realtà?”. 

“La vita non è meno bella di un sogno – dirà poi – anche se può riuscire ad abbatterci”.  

Bernini, infatti, riuscì a sollevarsi dal suo stato di profonda prostrazione grazie al fertile scompiglio di un particolare incontro, che lo portò a sublimare il trauma di essere stato allontanato dagli occhi e dal cuore di Papa Innocenzo X Panphilj, che si ostinava a considerarlo responsabile di un errore – ovvero delle conseguenze della costruzione dei campanili sulla facciata della Basilica di San Pietro – nonostante indagini e perizie dimostrassero il contrario. 

Gian Lorenzo Bernini, “Autoritratto” , Galleria Borghese

Un’acuta sensibilità drammaturgica – basata sulle fonti dell’epoca, vagliate con la consulenza scientifica dello storico dell’arte Antonio Soldi della Sapienza Università di Roma – conduce Francesco d’Alfonso sulle tracce di un Bernini poco conosciuto, spingendolo a realizzare una regia, la cui avvincente messa in scena ha debuttato giovedì al Nuovo Teatro Ateneo della Sapienza Università di Roma.

Ciò di cui “resterà memoria” – ed è questo il messaggio che la regia di Francesco d’Alfonso veicola seducentemente nello spettatore – è ciò che nasce dal dialogo, e non dalla contrapposizione, tra sogno e realtà. 

Francesco d’Alfonso

Ad esempio, l’incanto di uno sguardo: quello a cui ci abbandoniamo, lasciandoci contattare da quelle tracce di bellezza, che si danno solo attraversando la vita nei suoi frangenti più oscuri.  E che ci permettono di scorgere “il tutto” attraverso “un frammento”.

In un magnifico montaggio di rifrangenze simboliche, lo sguardo “mortificato” del Bernini rifiutato da Papa Innocenzo X Panphilj viene contattato dall’incanto di quello del suo nuovo committente: il Cardinale Federico Cornaro, qui un carismatico Francesco Cotroneo. La cui sincera attenzione lascerà un fertile strascico sulla vita dell’artista, come enfatizzato con estro anche dall’abito di scena, la cui cura è affidata a  Evelina Maria Vaakanainen. Sarà proprio lo sguardo del Cardinale Cornaro infatti, a indirizzare quello di Bernini verso l’incanto di quello di Santa Teresa D’Avila, mediante la lettura della sua biografia: libro che Bernini legge, ma dal quale è soprattutto letto, guardato dentro, nel profondo. 

Federico Gatti (Bernini) – Enrico Torre (controtenore) – Francesco Cotroneo (Cardinale Federico Cornaro) – Lorenzo Sabene (liuto, tiorba, chitarra barocca)

Ed è così che lo sguardo “mortificato” di Bernini, declinato in queste sue rifrangenze, arriva ad attraversare anche l’incanto dello sguardo dell’autore e regista Francesco d’Alfonso, spingendolo verso la realizzazione di una messa in scena, che a sua volta provoca l’incanto di uno stupefacente contagio nello sguardo dello spettatore. 

Il sipario si apre su una scena – anche simbolico luogo della mente dell’artista – dove, nonostante l’entusiasmo affettuoso di Giovannino (il devoto assistente di Bernini, qui interpretato da un efficace Domenico Pincerno), tutto appare avviato ma poi bloccato.

In verità circolano energie, ma di un diverso linguaggio emotivo. Un linguaggio che, intraducibile mediante i principi della logica, si dà invece attraverso forme più raffinatamente enigmatiche, quali quelle della musica e del canto.

Domenico Pincerno (Giovannino) – Federico Gatti (Bernini)

Ecco allora che si fa strada, tra le ferme aree psichiche del linguaggio creativo, la serpeggiante eleganza delle note ammalianti del canto del controtenore Enrico Torre – accompagnato al liuto, alla tiorba e alla chitarra barocca dall’afflato di Lorenzo Sabene. Fertile disposizione emotiva attraverso la quale il regista d’Alfonso inizia a veicolare uno dei temi portanti del suo testo: la morte come condizione di ogni nuovo inizio.

Con acuto sguardo registico, d’Alfonso amplifica il valore della metafora concettuale incentrando le coordinate temporali della narrazione nel lasso di tempo che va dal tramonto all’alba e sconfinando le coordinate spaziali nella cappella funebre in Santa Maria della Vittoria: luogo in cui il corpo mortale del committente sarà sepolto, restando però immortale l’incanto dello sguardo di Bernini – e quindi dello spettatore – su di lui. Questo grazie alla rifrangenza dello sguardo umano sull’eternità di quello artistico, magnificamente veicolata da quell’Estasi di Santa Teresa D’Avila  – prima opera frutto del periodo di profonda crisi del Bernini – così capace di rendere carne vibrante il freddo marmo; incondizionata fede ogni insinuante dubbio. 

Cappella Cornaro, Estasi di Santa Teresa d’Avila di Gian Lorenzo Bernini – Chiesa Santa Maria della Vittoria

Ed è di prodigiosa bellezza assistere al processo creativo attraverso il quale nelle mani di Bernini (un demiurgico Federico Gatti) la durezza informe del marmo si lascia liberare in uno spumeggiante panneggio di tensioni, che fanno da habitus all’estasi della Santa (qui interpretata da un’accogliente quanto seducentemente inafferrabile Irene Ciani). Un dolore così spirituale, il suo, – ma anche quello di chiunque posi gli occhi e il cuore su di lei – da divenire tocco di incantevole piacere dolce-amaro.

In un rimando di sguardi arriva così allo spettatore come, in taluni frangenti di profonda difficoltà esistenziale, insistere attraverso l’auto-controllo razionale dell’io sulla situazione di aridità emozionale non sia affatto efficace per poter rinascere a nuova creatività vitale. Sperimentare invece un dialogo di questa egemonia egoica con un’energia dal carattere inconscio, lasciandosi così travolgere da un terrore erotico, risulta un’esperienza incomparabilmente più ricca in bellezza.

Domenico Pincerno (angelo serafino) – Irene Ciani (Santa Teresa d’Avila) – Federico Gatti (Bernini)

Anche per questo motivo, a qualche livello, Bernini avvertiva come il suo irresistibile trasporto per il Teatro gli risultasse funzionale ad un’indagine più intima tra le dinamiche della natura umana e quella divina.

E non a caso il fido assistente Giovannino per aiutare il suo maestro a ricollegarsi ad un’energia creativa più dionisiaca, attinge dal baule di scena – quale crogiolo di vitalità alchemica – le energie più tempestosamente selvagge, mettendo in scena alcuni scatenamenti emotivi che furono il successo delle sue precedenti commedie (molto interessante qui il lavoro sulle scene e sulle maschere curato da Gaia Caponi, Camilla Martini, Rocco Papia).

Perché la vitalità creatività, e quindi esistenziale, non si nutre tanto di “sforzo” intellettivo e volitivo, quanto piuttosto della disponibilità d’ “ascolto” del mistero, spesso ferito, che siamo. 

Domenico Pincerno (Giovannino)

La compenetrazione di sguardi, resa possibile attraverso l’incontro con la testimonianza di vita di Santa Teresa d’Avila, scuote e rinvigorisce Bernini. Fino a scatenare l’irrompere nella sua vita della fulgente presenza immaginifica della Santa Teresa d’Avila di Irene Ciani.

Suo, un iniziale incedere furtivo che poi si libera nella sinuosità tortuosa propria del riemergere del desiderio vocazionale, che intende riappropriarsi del suo habitat. Coinvolgendo, in una danza di torsioni, la rigidità marmorea in cui si era trasformato lo stesso Bernini. C’è timore e c’è slancio, ora in lui. C’è cortesia cavalleresca e arte della fuga, nella Santa Teresa della Ciani. Tensione emotiva necessaria affinché in scena, e nella psiche dell’artista, torni ad abitare la vita viva: in dialogo tra sogno e concreta realtà. 

Federico Gatti (Bernini) – Irene Ciani (Santa Teresa d’Avila)

Lo spettatore avverte, con partecipe commozione, come l’insorgere di questa vitalità passi nel Bernini di Federico Gatti fino ad attraversargli la gola. Dalla quale scaturisce una vocalità liquida, capace di accogliere ingorghi che, non respinti, salgono per andarsi a sciogliere nei suoi occhi.

Federico Gatti (Bernini)

Domenico Pincerno (angelo serafino) – Irene Ciani (Santa Teresa d’Avila)

Occhi che, con sapiente circolarità, rimandano l’attenzione dello spettatore a quella capacità di “sostenere lo sguardo” anziché abbassarlo – e quindi di sostenere l’errore e la propria fragilità, anziché restarne sommersi – di cui prima dell’apertura del sipario aveva parlato Don Gabriele Vecchione, Presidente della “Comunità San Filippo Neri- E poi?”. Descrivendoci quella “Generazione Z” di cui la Comunità San Filippo Neri – E poi? – ama prendersi cura.  

Don Gabriele Vecchione

Un’Associazione, la loro, impegnata in progetti di guida e sostegno motivazionale verso i giovani e le loro famiglie, che ha scelto di autofinanziarsi attraverso il ricavato degli spettacoli organizzati in sinergia con L’Ufficio per l’Università del Vicariato di Roma, l’Accademia di Belle Arti di Roma, Pensieri Meridiani, Associazione Più Comunicazione e con il contributo dell’8xMille della Chiesa Cattolica.

————————-

Lorenzo Sabene, Domenico Pincerno, Irene Ciani, Federico Gatti, Francesco d’Alfonso, Francesco Cotroneo, Enrico Torre


Rassegna eventi a sostegno delll’Associazione “Comunità San Filippo Neri – E poi ?”:

12 Aprile 2025 – Teatro Palladium

Oltre quello che c’è, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso liberamente ispirata agli scritti di Byung-Chul Han e T.S. Eliot, con Roberta Azzarone, Irene Ciani, Matteo Santinelli, Marco Tè e con la partecipazione straordinaria dell’ Ètoile del Teatro dell’Opera di Roma Rebecca Bianchi e di Alessandro Rende, accompagnati dal pianoforte di Dario Callà e dal violoncello di Mattia Geracitano

16 Maggio 2025 – Basilica di Sant’Anastasia al Palatino

Finché luce sarà per sempre, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso ispirata alla Passione di Sant’Anastasia romana, un monologo per attrice e violoncello con Irene Ciani e Mattia Geracitano

12-13 Giugno 2025 – Teatro Nuovo Ateneo Sapienza Università di Roma

Gran Teatro Bernini, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso, con Irene Ciani, Francesco Cotroneo, Federico Gatti, Domenico Pincerno, Enrico Torre, Lorenzo Sabane


Recensione di Sonia Remoli

LA LENTE SCURA – di Anna Maria Ortese – regia Lucia Rocco

Racconti romani: un ciclo di opere letterarie di ambientazione romana per un viaggio indimenticabile nella letteratura italiana


TEATRO TORLONIA

dal 5 all’8 Giugno 2025

In uno spazio densamente simbolico – il cui progetto scenico è curato da Marta Crisolini Malatesta – tre aperture fanno da confine al passaggio tra ciò che è interno e ciò che è esterno, tra il sopra e il sotto. Tra il sogno e la veglia. Tra il guardare e l’essere guardati. 

Un passaggio che allude non solo al viaggio in treno della Ortese verso la Capitale ma ad un viaggio interiore. Costellato di aperture che solo apparentemente fanno da confine tra ciò che è più chiaro e ciò che è più oscuro. Una fluidità insolente e  malinconica, a cui alludono le sonorità di Ran Bagno. Così come i contributi video di Alessandro Papa.

E’ un viaggio dove occorre mettersi in ascolto, in silenzio. E guardare dentro di sé. E poi fuori. E ancora dentro. Ancora. Limitando i movimenti, “senza sprecarsi”. 

E’ un viaggio che chiede di essere visto e di lasciarsi vedere attraverso una “lente scura”: un ossimoro. 

Anna Maria Ortese

Anna Maria Ortese sceglie la figura retorica dell’ossimoro per accogliere suggestivamente questa sua raccolta di resoconti di viaggio in giro per l’Italia, e non solo, originariamente usciti su varie testate fra il 1939 e il 1964.

Lo fa per attirare la nostra attenzione: l’inatteso accostamento di termini opposti tende a sorprendere il lettore, invitandolo a riflettere sul significato che si cela dietro la contraddizione. 

Lo fa per aiutare il nostro sguardo a perdersi dietro al suo. Ci vuole infatti qualcosa che faccia arrivare subito la sensazione di un contrasto, di un’opposizione che, pur sembrando paradossale, riveli però una verità più profonda, o una sfumatura di significato nascosta. 

E l’ossimoro, come una lente scura, può essere utilizzato per indagare sugli aspetti contraddittori dell’esperienza umana. Perché è proprio l’accostamento di termini opposti a permetterci di esplorare le complessità della realtà, avvicinandoci alla possibilità di esprimere concetti, che sarebbero difficili da comunicare in un modo più convenzionale. 

Federica Piccolo

Il termine “lente”, infatti, è per eccellenza simbolo di ricerca, di indagine e di comprensione completa della realtà. La lente aiuta a veder meglio, più in profondità, con più chiarezza, evidenziando dettagli che altrimenti sarebbero sfuggiti.

Qui, invece, la Ortese associando al termine “lente” l’aggettivo “scura” raggiunge l’effetto di fermare per un attimo la nostra attenzione. “Ma come?” – ci viene da pensare.

Al di là di ogni facile pessimismo, quello della Ortese è un invito programmatico ultra realistico: il mondo chiede di essere inseguito – e non catalogato – per essere riconosciuto. Occorre leggerlo, anzi “sentirlo”, e tentare di scriverlo come si farebbe con un mistero: nel suo darsi come “oscuro”. Come suggestivamente suggerisce la drammaturgia del disegno luci di questa mise en scène di Lucia Rocco.

Un’oscurità che non è tanto una condanna, né solo una privazione. Ma anche fascino: incanto per ciò che non può essere posseduto appieno. E che quindi va continuamente ricercato. E che se si mostra, non è semplice da descrivere.

Lucia Rocco

E lo spazio scenico immaginato dalla regia di Lucia Rocco ne è una fascinosa visualizzazione. Che aiuta lo spettatore, fin dall’entrata in sala, a liberarsi del superfluo e a rendersi disponibile a guardare il mondo e a lasciarsene guardare, seguendo la “lente scura” della scrittura della Ortese. Di cui Francesca Piccolo si fa interprete, con la complicità di Federico Gariglio.

Riuscire a “cogliere e fissare… il meraviglioso fenomeno del vivere e del sentire” (da Corpo Celeste) è “la legge del desiderio” della Ortese. 

Perché il mondo per lei “è una cosa fatta di vento e voci, fatta di attese e rimpianto di apparizioni, fatta di cose che non sono il mondo» (da In Sonno e In Veglia). Un mondo che si dà come viva relazione fra tutte le creature viventi, da cui non è esclusa la pietra. Così come la farfalla che, posatasi a curiosare sul finestrino del treno, viene salvata dalla Ortese dall’insensibilità del suo vicino di posto, disposto a sopprimerla.

Urgenza della scrittura della Ortese è, infatti, tentare di restituire questa relazione “cosmica”, assecondandone il movimento: per somiglianze, per spostamenti, per metafore.

Francesca Piccolo – Federico Gariglio

In Corpo celeste, la Ortese insiste sulla necessità di restituire al reale «il significato di appartenenza a un’altra realtà, con la quale sembrerebbe necessario, per rinnovarsi, confrontarsi ogni tanto». E anche lo stesso Pietro Citati nella post fazione a “L’iguana” parla di lei come posseduta da “un ardore, un fuoco incontenibile, a cui la letteratura non sembra bastare”.

Anche il particolare scrivere di luoghi della Ortese sembra rispondere ad una sua intima esigenza dispecchiarsi in essi, come in un viaggio dentro se stessa. Quasi, il suo, un “conosci te stesso” alla volta di un luogo che si possa dire “casa”. Sebbene la Ortese intuisca, a qualche livello, come ogni luogo parli di una parte di se stessa; come ogni luogo celi un condominio di sé, pronti a farsi sentire.

Francesca Piccolo – Federico Gariglio

E quando, qui in “Lente scura“, scrive: “Non auguro a nessuna persona giovane e vagamente dissociata come io ero… di attraversare l’Italia in un dopoguerra subito privo di unità e memoria, come io l’attraversai. C’è da uscirne spezzati. Tutto sembra estraneo, meraviglioso e spietato insieme: siete in casa d’altri!” – non si può non andare con il pensiero a quell “io che non è padrone in casa propria” di cui parlava Freud.

Acutamente la stessa interpretazione di Francesca Piccolo sa muoversi su un registro molto vicino al registro della poesia. Dove un sottile e sublime piacere nasce dallo smarrimento e dalla paura per qualcosa di magico, di sacro. Anche quando parla di considerazioni politiche o filosofiche.

La scrittrice mai rinuncerà a posizioni critiche nei confronti dell’ingiustizia sociale: un tenace impegno etico pervade le pagine dei suoi romanzi e dei suoi racconti, così come ben proposto in scena dal sincero appassionarsi di Francesca Piccolo. Né mancherà di essere critica verso quel mondo letterario, dal quale si sente ingiustamente respinta e a cui sente di appartenere. 

E così la Ortese, guidata da una curiosa e mai soddisfatta irrequietezza, lasciandosi trasportare dagli oscuri vagoni di un treno o dai piccoli sedili di una Topolino, ci porta a fare esperienza di come il dopoguerra abbia trasformato l’anima di città straordinarie, avvolgendola in uno spirito triste d’inevitabile decadenza, al di là delle splendide apparenze.

Roma, ad esempio, che ad un primo sguardo ammalia e sembra preannunciare una libertà da capogiro, in realtà risulta immersa nella disattenzione. Che la porta a non generare una borghesia vitale ma solo “un grumo di sangue benestante”; così come senza alcuna tensione è lo spirito del  popolo che, non essendo affamato di cultura, non può pensare di esercitare alcun potere. 

Federico Gariglio – Federica Piccolo

Anche i caffè letterari di Piazza del popolo sono abitati da “gente straziata senza saperlo”. Una città mutilata, “governata chissà da chi”, che riporta alla memoria della Ortese alcuni versi di Eugenio Montale, da “La casa dei doganieri”:

Tu non ricordi la casa dei doganieri

sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:

desolata t’attende dalla sera

in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri

e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura

e il suono del tuo riso non è più lieto:

la bussola va impazzita all’avventura

e il calcolo dei dadi più non torna.

Tu non ricordi; altro tempo frastorna

la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana

la casa e in cima al tetto la banderuola

affumicata gira senza pietà.

Ne tengo un capo; ma tu resti sola

né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende

rara la luce della petroliera!

Il varco è qui? (Ripullula il frangente

ancora sulla balza che scoscende…)

Tu non ricordi la casa di questa

mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

Federica Piccolo

Una poesia che descrive con sublime realismo la condizione dell’animo di una Roma che ha sperso il valore simbolico proprio di una dogana: la sua funzione di confine, capace di regolamentare relazioni. A differenza della Napoli di questo stesso periodo storico, dove la Ortese ha potuto contemplare il perfetto co-abitare del disordine e della bellezza del mondo, fatta di costante attrazione e repulsione. 

Se il mondo è attraversato da contraddizioni che sfidano la sensibilità umana, allora – sembra invitarci a considerare Anna Maria Ortese, con la sua scrittura e con la sua poetica – occorre attenersi a questa realtà, facendosi carico di tale complessità. Senza cercare di  semplificare quello che è complesso e che per significarsi ha bisogno di contraddirsi.

Invito della Ortese che questa mise en scène di Lucia Rocco è riuscita a far entrare nei nostri occhi. Lasciandolo sedimentare, fertilmente.

Si conclude così, ci auguriamo solo momentaneamente, il ciclo di allestimenti della Rassegna Racconti romani: un ciclo di opere letterarie di ambientazione romana, per un viaggio indimenticabile nella letteratura italiana. 

Evento di straordinario interesse per gli appassionati di letteratura, teatro e storia romana. 

Un affascinante viaggio all’interno della magia della parola, primo incanto dell’uomo, curato nella scelta dei testi dal raffinato sguardo di scrittori quali Emanuele Trevi ed Elena Stancanelli. A firmarne le regie sono stati Danilo Capezzani, Maddalena Maggi, Lucia Rocco. 

Sontuoso luogo d’accoglienza, il Teatro di Villa Torlonia che, come auspicato dal Direttore del Teatro di Roma Luca De Fusco, si rivela davvero un congeniale “tempio della letteratura, dove far rivivere il rapporto tra parola detta e parola scritta. Un luogo in cui sperimentare una nuova relazione tra teatro e letteratura”.

Federico Gariglio – Lucia Rocco – Federica Piccolo


Recensione di Sonia Remoli

PIU’ DELLA MIA VITA – regia Gabriella Praticò

Rassegna MAGNIFICHE PRESENZE – Teatro Le Maschere – dal 14 Maggio al 27 Giugno 2025


TEATRO LE MASCHERE

dal 4 al 6 Giugno 2025

Vale più “il come” o “il quanto”, in amore ?

Due interpreti – due “magnifiche presenze” – si raccontano e ci donano la loro appassionante ed estrosa testimonianza d’amore. 

Un racconto, il loro, che dalla vita passa sulla scena. O meglio, che dal palco della mente entra nella vita. 

Siamo nella Roma degli anni ‘50, più precisamente nel quartiere di Testaccio, un autentico “rione de Roma”, tale è lo spirito di romanità che vi si respira. 
Anna e Maria si ritrovano a convivere all’interno dello stesso condominio di Piazza Santa Maria Liberatrice, n. 39. Uno spazio non solo fisico: due donne, due mondi interiori.

Con un’accattivante regia Gabriella Praticò porta in scena la sagace drammaturgia di Elisa Mascia, valorizzando come queste due “anime”, in cerca di disperata accoglienza, si impegnino in un dialogo, che ha ben poco di rassicurante.

Avvincente l’effetto ping pong degli a parte, che opportunamente si giocano sul confine tra palco e platea. Così come sul confine di un immaginario muro perimetrale, si avviano le narrazioni delle due personalità femminili, prima di ritrovarsi a condividere apertamente un luogo, dove continua ad essere difficile nutrire fiducia l’una nell’altra. 

La complessa dinamica relazionale è visualizzata con vibrante intensità dal divenire delle posture e del linguaggio prossemico proprio di quelle “magnifiche presenze”, a cui donano corpo e voce Lucia Ciardo e Elisa Mascia. Continuamente alle prese con le individualità maschili delle loro vite, incarnate con avveduta sensibilità da Gigi Palla.

Loro la grazia di far arrivare allo spettatore la fragile, ma necessaria, bellezza di provare continuamente a mettere in comunicazione il mondo della femminilità con quello della maternità; l’universo maschile con quello femminile; l’amore con il rispetto; il simile con il diverso; la dolcezza con l’impetuosità.

Il “quanto” con il “come”.

Magnifiche Presenze” è un progetto artistico promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura e presentato dal Centro Culturale Talia. Un progetto che si articola in sette spettacoli legati tra loro dal  fil rouge di una narrazione che intende sondare l’universo femminile del nostro vivere e del nostro tempo.

Un omaggio alla forza e alla sensibilità del teatro al femminile, un viaggio tra storie vibranti, emozioni profonde e personaggi di straordinaria intensità, incarnati da alcune delle più grandi interpreti della scena, in dialogo con nuove voci artistiche. Così da promuovere un incontro tra sensibilità differenti.

I temi affrontati sono di grande attualità e profondità: memoria storica, lotta contro la violenza, riscatto sociale, resistenza al patriarcato, reclusione femminile, bullismo e altro ancora. Ogni spettacolo propone la rilettura di queste tematiche attraverso una prospettiva femminile, offrendo uno sguardo inedito e necessario sulla realtà.


Recensione di Sonia Remoli

SARABANDA – regia Roberto Andò

TEATRO ARGENTINA

dal 27 Maggio al 1 Giugno 2025

“Johan e io non abbiamo più contatti. Nessun tipo di contatto da molti anni ormai. E le due nostre figlie sono distanti, anche per me. Martha è in una casa di cura e sprofonda ogni giorno di più nell’isolamento della sua malattia… E molto spesso penso che dovrei fare una visita a Johan”.

Quanto ci rende vivi  l’entrare in “contatto” con qualcuno diverso da noi, impegnandoci a mantenere aperto questo dialogo?

Quanto ci risulta più rassicurante evitare questo contatto, o interromperlo al palesarsi degli inevitabili contrasti?

Renato Carpentieri (Johan) – Alvia Reale (Marianne)

In questo poetico e disperatamente vitale ultimo lavoro, Ingmar Bergman porta lo spettatore a focalizzare, di scena in scena, l’attenzione su come le relazioni umane saltino in aria, o si corrompano, quando viene a mancare un autentico “contatto” con l’altro. 

Un “contatto” cioè capace di sgretolare la nostra immobile identità, spingendoci ad interrogarci su noi stessi, attraverso il dubbio veicolato dall’altro. Sospensione di giudizio che permette alla coscienza di dischiudersi per imparare a vivere senza la certezza e tuttavia senza restare paralizzati dall’esitazione. E’ l’effetto che, ad esempio, “il contatto” di Anne ha avuto su Johan: una donna che lui definisce “venuta su questa terra per renderla meno odiosa”.

Caterina Tieghi (Karin) – Elia Schilton (Henrik)

Non c’è inquietudine nel principio di identità che esclude la contraddizione dell’altro, perché  la realtà così mutilata non appare nella sua autentica duplicità 

Anche l’identità personale non è una prerogativa individuale, bensì un fatto sociale: sono gli altri che la rafforzano o la mortificano con il loro riconoscimento o misconoscimento. E se nella nostra identità si esprime la nostra unicità, questa unicità ci è data dall’essere riconosciuti come tali dall’altro.

Elia Schilton (Henrik) – Caterina Tirghi (Karin)

La forma musicale che dà origine al titolo è la Sarabanda dalla quinta Suite di Bach, nella tonalità meditativa di Do minore, composta per violoncello solo, con la prima corda in “scordatura”. Metaforicamente, anche “la sarabanda” allude, nel suo significato originario, a questo concetto di dialogo alla ricerca della propria identità, attraverso il riconoscimento dell’altro.

La sarabanda nasce infatti come una danza a due: una sorta di dialogo eccitante ed eccitato che prevede, attraverso movenze lascive, un “contatto” tra i due danzatori. Proprio come gli opposti di un dialogo, i due si fronteggiano per conoscersi meglio, disponibili al confronto per lasciarsene modificare. Senza mai escludere l’altro.

E forse non è un caso che il primo titolo di questo testo di Bergman fosse: “Tentativi di analisi di una situazione complicata”.

Roberto Carpentieri (Johan) – Elia Schilton (Henrik)

Successivamente per il cristianissimo Occidente questo danzare “con contatto” sembrò un po’ eccessivo, tanto che nel 1583 Filippo II di Spagna vietò la danza della sarabanda. Finchè nel Seicento barocco la sarabanda fece di nuovo la sua ricomparsa, questa volta però come danza dall’andamento lento e solenne.

E qui in Bergman il concetto di sarabanda sembra trovare espressione anche nella tensione tra la sua prima valenza di danza caoticamente eccitante, presente all’interno dell’inconscio di ciascun personaggio, dove si sfrena il loro furore indecente; e la sua seconda valenza di danza lenta e solenne, presente a livello conscio attraverso apparenze calme e manierate. Una danza quindi tra il ribollire indecoroso dell’inconscio e il perbenismo stagnante del conscio: opposti in dialogo, in cerca di “contatto”.

Roberto Carpentieri (Johan) – Alvia Reale (Marianne)

(ph. Lia Pasqualino)

Un esempio di questo dialogo danzato è ben descritto da Anne, un personaggio assente perché defunto ma la cui testimonianza esistenziale continua a ingombrare le vite di chi resta e fatica a coglierne l’eredità, facendola propria. Scrive Anne ad Henrick, suo marito, prima di morire: “io fingo di star bene, tu fingi di crederci, ma nonostante i nostri sforzi io leggo sul tuo viso la gravità del mio male”. 

La sapiente restituzione dei personaggi da parte degli attori in scena – Renato Carpentieri (Johan); Alvia Reale (Marianne); Elia Schilton (Henrik); Caterina Tieghi (Karin) – riesce a veicolare questa danza ancor più che con le parole, attraverso una potente espressione non verbale.

Renato Carpentieri (Johan) – Caterina Tieghi (Karin)

Laddove le parole possono rivelarsi insufficienti, è l’espressione non verbale del corpo e della voce ( il silenzio) a rivelarsi un efficace mezzo per accedere al di là del conformismo razionale, verso il linguaggio raffinatamente enigmatico dell’inconscio. 

Ed è così che il Johan di Renato Carpentieri riesce a “far sentire” allo spettatore come il suo immobilismo da eremita non sia ancora immune dalla seduzione di un’irrompente sorpresa, accompagnata dal “contatto” dei baci e delle carezze della Marianne di Alvia Reale. Lei, così composta ma ancora così capace di un accogliente e fresco entusiasmo. Nonostante la danza di esistere abbia messo la sua forza vitale femminile a silenziarsi, viene ancora “scelta” per confrontarsi in dialogo con quell’imprevedibile esuberanza che l’età mestruale scatena e di cui ora si sente come impossessata la Karin di Caterina Tieghi. Esuberanza che sarà decisiva nell’aiutarla a liberarsi – anche grazie al “contatto” con Marianne – dal giogo simbiotico di un narcisista manipolatore: suo padre, ovvero l’Henrik di Elia Schilton.

Renato Carpentieri (Johan) – Elia Schilton (Henrik)

Una mirabile regia di Roberto Andò riesce a declinare efficacemente il movimento di questa dialogica danza esistenziale, proprio della sarabanda, anche attraverso una straordinaria costruzione dello spazio teatrale. E, nell’immaginarla, si avvale della complicità raffinatamente rigorosa di Gianni Carluccio, che ne cura le scene e il disegno luce. 

Roberto Andò

L’adattamento ricavato da Andò – su traduzione di Renato Zatti – selezionando ed arricchendo il testo originale con creativo e fedele tradimento, viene visualizzato in scena da Carluccio attraverso la costruzione di una sorta di fondale che – come uno stupefacente paesaggio psichico – si apre, si chiude, avanza, arretra, evita o si focalizza ossessivamente su qualche dettaglio particolarmente significante del vissuto dei protagonisti. Movimento psichico che ricorda fascinosamente quello di una macchina da presa, così come quello di una “carrellata”.

Così facendo, ottiene il risultato di riuscire a visualizzare i diversi punti di vista prodotti dai dialoghi tra i personaggi, attraverso “inquadrature” che aiutano lo spettatore nella identificazione dei relativi sottotesti.  Effettivamente, quella portata in campo da Gianni Carluccio, è davvero una splendida soluzione scenografica per creare una scala di piani cinematografici, a teatro.

E poi ci sono le incantevoli musiche originali di Pasquale Scialò – sempre in ascolto dei timbri della narrazione immersa in questa dimensione filmica – a fare da sfondo e ad accompagnare la cadenza ritmica delle 10 scene, precedute da un prologo e seguite da un epilogo. Una cadenza inframezzata da momenti di buio, abitati così pervasivamente dalla meravigliosa indicibilità propria del linguaggio musicale proposto da Scialò, da risultare davvero efficace nell’aiutare lo spettatore ad entrare in “contatto” con tutta la potenza tattile delle tensioni dialogiche dei protagonisti.

Alvia Reale (Marianne) – Caterina Tieghi (Karin)

(ph. Lia Pasqualino)

La bellezza della vita, non disgiunta dall’angoscia, si rintraccia – sembra volerci dire Bergman – nella sua imprevedibilità e nelle occasioni di contatto umano che ci propone. L’angoscia è il sintomo della vertigine che provoca in noi il darsi sconfinato della libertà proprio nell’angustia delle nostre mani. E’ un’ebbrezza che può togliere il respiro e far precipitare nell’agitazione, tanto che per uscirne l’essere umano può essere spinto a chiudersi in se stesso, nell’illusione di essersi ritagliato così una più adeguata dose di libertà. Ma anche scegliere di non scegliere è una scelta. Di cui comunque siamo responsabili.

Da qui si origina l’interessante finale proposto da Roberto Andò, dove tutti i personaggi vengono colti nel loro denudarsi dai propri habiti (quei modi di essere che ciascuno sceglie di vestire al fine di essere ipocriticamente accettato) per rivelarsi, ciascuno a suo modo, in un’autentica e disperata richiesta d’amore. Epidermicamente in attesa di essere “toccati” dall’altro – che invece si tiene distante, chiuso com’è nella propria angoscia – per ricevere la conferma della propria individualità. E della propria esistenza.

Caterina Tieghi, Elia Schilton, Renato Carpentieri, Alvia Reale

Il loro è quel “grido nella notte” – iconograficamente visualizzato qui in una compresenza di riso isterico/panico/dolore estatico –  che tutti ci accomuna, perché parla del nostro umano cadere, del nostro essere abbandonati, del nostro tradire, della nostra solitudine, della nostra debolezza.  

E questa scena che ci fa da specchio – noi siamo loro, noi siamo come loro – è un invito brutale e misericordioso a prendere consapevolezza della nostra “comune” condizione esistenziale. Quella di Roberto Andò è una potente esortazione a restare “in contatto” tra noi che condividiamo la medesima condizione esistenziale. Evitando di chiuderci come monadi. Perché l’angoscia di vivere, tutti la conosciamo. Anche se tendiamo a vestirla di altro.

Renato Carpentieri (Johan) – Alvia Reale (Marianne)

(ph. Lia Pasqualino)

Esortazione, questa di Andò, rintracciabile nello stesso testo di Bergman. Almeno due sono i momenti: il primo, in apertura, è proprio quella “scelta d’impulso” – il cui “perché” resta indicibile – che porta Marianne alla ricerca della tana di Johan, dopo 32 anni di assenza di contatti con il suo ex-marito. Il secondo momento, di cui è sempre Marianne a farsi portatrice di “contatto”, è quello che la lega, fin dal loro primo incontro, a Karin. Marianne resta toccata dal silenzio espressivo di questa ragazza e l’accoglie mostrandole come possibile ciò che Karin crede impossibile: seguire “il suo” desiderio “personale”.

Alvia Reale (Marianne) – Caterina Tieghi (Karin)

Volevi parlare con tuo nonno? … Se ne hai voglia puoi aiutarmi con i funghi! … Se ti va possiamo parlare, oppure stare in silenzio… Volevi dire qualcosa?”. E Karin, dopo un iniziale momento di sospetto, permette a questa donna sconosciuta di farsi toccare, toccandola lei a sua volta, chiedendole: “Tu com’eri prima della mestruazione?”. Ovvero: tu com’eri prima che qualcosa di fortemente dionisiaco prendesse il sopravvento su un certo “dover essere”, così necessario per compiacere gli altri? Karin qui si sta mettendo a nudo per essere toccata e per toccare l’esperienza di Marianne, a proposito di questo contatto “divino”, che le fa perdere il consueto controllo della volontà e della disciplina. E che la porta a detestare quel “vivace con brio ma senza alcuna espressione e assai pianissimo” di Paul Hindemith.

Renato Carpentieri (Johan) – Caterina Tieghi (Karin)

Ma sarà proprio questo nuovo cervello mestruale a permetterle di “ri-contattare” la sua autentica vocazione esistenziale: ora Karin può essere in grado di infliggere un taglio a quel dovere mortificante, con il quale il padre ha cercato di plasmarla dopo la morte della moglie. E lo potrà fare in nome di una nuova “legge”, che non si oppone al suo desiderio vitale, ma che lo costituisce.

Molto espressiva la narrazione cromatica che accompagna e sottolinea l’evoluzione psicologica della Karin di Caterina Tieghi, proposta dalla sensibilità di Daniela Cernigliaro, curatrice dei costumi dello spettacolo.


Recensione di Sonia Remoli

TERESA DEGLI ORACOLI – adattamento e regia Nino Sileci

Tratto dal romanzo di Arianna Cecconi

TEATRO VITTORIA

dal 20 al 25 Maggio 2025

E’ un inno alla vita e, in quanto tale, ha il dono di avvicinare ciò che sembra lontano, come potrebbero apparire la vita e la morte; il mio è il tuo; il passato e il presente; la giovinezza e la vecchiaia; l’inizio e la fine; il dentro e il fuori, il bene e il male.

E’ un inno ad allenarsi a non avere fretta, cosí da poter rendere visibile ciò che sembra invisibile: la magia del sacro che scende nel quotidiano.  

E la scena – curata cosí come il disegno luci da Cecilia Sensi – si dà, molto opportunamente, come un piano inclinato dove la luce sa di ombra e l’ombra di luce; dove ciò che è centrale è ovunque. E dove a tutto viene concessa la parola, anche a ciò che apparentemente non c’è, ma che fa sentire la sua voce sia come contenente che come contenuto. É la meravigliosa concertazione tra le donne della famiglia e la cucina: luogo della trasformazione alchemica per eccellenza (sound designer Gabriele Carrieri).

Uno scenario esistenziale dove tutte le diversità trovano accoglienza. Dove ciascuno viene lasciato libero di scegliere il modo di stare al mondo, con o senza il proprio centro di gravità: per Rosy é il cristianesimo, per Irene i sogni, per Flora i libri. Pilar invece lascia andare le cose per il loro verso e Nina fa scegliere al caso.

Un inno quindi, oltre che esistenziale, anche politico: vi si celebra il bello di essere diversi e di incuriosirsi della diversità dell’altro. Con rispetto.

“Teresa degli oracoli” della compagnia Opificio03, vincitrice della rassegna “Salviamo i Talenti 2024”, e’ un adattamento scenico del bestseller di Arianna Cecconi, andato in scena dal 20 al 25 maggio 2025 al Teatro Vittoria di Roma.

E’ la storia di una donna ‘sulla quale il dio Apollo ha messo gli occhi”: Teresa. E lei, giá a qualche livello sedotta da Apollo, gli occhi li ha messi sulla Casa del fico: quello che diverrá il suo microcosmo familiare e oracolare.

Le donne che con lei lo abitano, impareranno – stringendosi insieme – a vedere Teresa in una diversa versione di se stessa: come un baco da seta sará capace di cadere in un sonno lunghissimo dal quale peró, come un oracolo, indicherá ad ognuna la via per sciogliere i propri “nodi” esistenziali.

Ed è così che sulla scena, fin da subito, la regia di Nino Sileci lascia immaginare allo spettatore un luogo dalla misteriosa quotidianitá, sacro come un tempio, tessuto da quei fili di preziosissima seta, regalata dai bachi sacrificati alla libertà di essere farfalle. Proprio come accade agli esseri umani, nel loro continuo dibattersi tra destino e libertà. 

Nino Sileci

Un luogo, fisico e della mente, che stimola le donne della Casa del fico sulla necessitá di fermarsi a riflettere su una domanda chiave: “chi sei tu?”. Domanda che si espliciterá in quelle che saranno le ultime parole pronunciate da Teresa, una volta che Apollo, dopo aver posato da tempo gli occhi su di lei, la conquistò perdutamente. E ne fece una sua amata sacerdotessa.

Ed è così che Teresa si fece oracolo per le altre, ma anche per sé stessa. 

In scena due incantevoli interpreti – Valeria D’Angelo e Silvia Ponzo – ci portano con loro nel centro della storia, e dentro noi stessi. 

Loro, la grazia di chi sa rendere lo stesso, molteplice; il corpo, seta chiusa in un baco; l’espressività libera come farfalla.

—————

Opificio03 è una compagnia teatrale fondata a Roma nel 2019 che nasce dall’incontro di tre allievi dell’Accademia Internazionale di Teatro di Roma (Silvia Ponzo, Lorenzo De Santis e Nino Sileci) che, all’indomani del diploma, decidono di creare una realtà che, in linea con il loro modo di intendere il teatro, sia un vero e proprio cantiere teatrale; un luogo di produzione artistica che vive la creazione di uno spettacolo come qualcosa di artigianale, un’opera che nasce e cresce attraverso il lavoro della compagnia che ne segue ogni sua parte, dalla scrittura all’allestimento, dalla progettazione di scene e costumi alla distribuzione. Dal 2021 è in residenza presso il Centro Culturale Artemia ed è considerata tra le realtà emergenti più interessanti della scena italiana.

—————

Recensione di Sonia Remoli

AUTORITRATTO – di e con Davide Enia

TEATRO INDIA

dal 20 Maggio al 1 Giugno 2025

La voce. Il respiro, le attese.

La tensione a comunicare delle sue mani. Gli occhi, soprattutto quando sono abbassati. 

Il raccontare di Davide Enia è seduzione e angoscia: una ritualità di bellezza ancestrale, che altera il respiro di chi è in ascolto. 

Davide Enia

Spesso fa sospirare. Di vergogna. Perché quella brutalità selvaggia e scevra di responsabilità – “colpevole è chi dà l’ordine, non chi lo esegue” – si rivela come possibile. E quindi ci riguarda.

Anche per questo è necessario nominarla: per poter sentire l’urgenza di reagire con azioni ricche in coraggio. Un coraggio contagioso. 

Davide Enia

Davide Enia nel dare il giusto nome ad ogni pensiero, ad ogni azione e ad ogni reazione che muove “Cosa nostra”, é un meraviglioso “uomo del sale”: le sue parole bruciano. Ma sanno anche come regalare sapore alla vita. 

E di questo “uomo del sale” – figura dell’epica quotidiana che tanto lo appassionava da bambino quando aveva la fortuna di incontrarlo – ora sa di esserne diventato un erede. Perché sente di essere venuto alla luce dal suo racconto, dalle sue parole, dai suoi desideri. E vuole esserne testimone. 

Giulio Barocchieri – Davide Enia

Nei secondi di buio dai quali si origina lo spettacolo – che passano attraverso suoni feriti, scanditi da un’arcaica musicalità metrica – si avverte che ciò che sta prendendo oscuramente forma sulla scena, ci tocca, ci riguarda, parla a noi e di noi.

Sono richieste. Ed hanno il sapore di un lamento che sanguina. Sono richieste che producono un’eco, che lasciano un’eco. Davide Enia e Giulio Barocchieri creano un incanto: sono emissione e strumento, soggettività e collettività, voce sola e coralità.

Giulio Barocchieri – Davide Enia

Ed è così che noi del pubblico – riaccesi anche dalla sacra musicalità del cunto siciliano – ci ritroviamo predisposti ad accogliere e a far risuonare in noi la trasmissione del racconto autobiografico di Davide Enia. 

Un racconto che sa di romanzo di formazione, scandito da continui incontri con la morte: ammazzatine, ammazzamenti, sequestri, attentati. Tutti legati a “Cosa nostra”.

Per resistere il 18enne Enia stilò a suo tempo una sorta di tavola dei “Sette comandamenti”: sette raccomandazioni, una per ogni giorno della settimana, da tatuarsi negli occhi della mente.

Giulio Barocchieri – Davide Enia

Questa di “Autoritratto” è un’indagine riflessiva sulle rovine di un habitat, che non è solo quello di una collettività ma anche quello della nostra individualità più intima. 

Dove è importante continuare a raccontare e a raccontarsi, avendo cura dei nomi propri: così preziosi per la salvaguardia delle singole individualità. Nel bene e nel male.

Perché questa tensione che ci spinge a sentire che vale la pena fare sempre nuovi tentativi per riuscire a comunicare, parla della bellezza di essere umani.

Giulio Barocchieri – Davide Enia

————

Recensione di Sonia Remoli

Recensione LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA – regia Leonardo Lidi

TEATRO VASCELLO

dal 20 al 25 Maggio 2025

Cifra stilistica e politica delle regie di Leonardo Lidi è la vocazione ad applicare la propria testimonianza a servizio della salvaguardia dell’eredità di un testo, sia esso classico o contemporaneo. Arrivando a confrontarvisi poi in maniera originalissima ed efficace per la contemporaneità. 

Lidi sviluppa così un imprinting tutto suo, con il quale conduce lo spettatore a riallacciare immaginari fili tematici – sia durante la visione dello spettacolo che una volta uscito dal teatro – con la tessitura dei suoi lavori precedenti. 

Leonardo Lidi

Al calar delle luci, Lidi inizia a seminare il suo primo indizio sagomando la nostra attenzione sulla nipotina di casa Polliott (una deliziosa Greta Petronillo). Che ci confida, attraverso la sua interpretazione di Fly Me to the Moon, il suo desiderio di piccola donna che sogna l’amore: un amore capace di non temere universi lontani e sconosciuti. Un amore che non trattiene, che non manipola: un amore che lascia volare il desiderio oltre la Luna. Un desiderio da scoprire insieme, tenendosi per mano. Nonostante tutto.

Ma, ad un certo punto, il suo “canto alla vita” inizia ad incrinarsi, ad essere risucchiato, fino a venire brutalmente interrotto. E il sipario si apre su uno spazio ampiamente vuoto, accecantemente freddo, dal mortificante lindore marmoreo (la cura della scena è affidata, così come il disegno luci, a Nicolas Bovey). Dove sua zia – la preraffaellitica Margaret di Valentina Picello – va in fulgenti escandescenze per una macchia di sporco sul suo vestito, provocata dal vivace e imprevedibile gioco dei nipotini, invitati alla festa di compleanno del nonno. 

Valentina Picello è Margaret

Arriva così allo spettatore quella sensazione stonata di qualcosa che è stato spazzato via, che è  andato perduto. Un po’ come ne “il Giardino dei Ciliegi”, che chiudeva la trilogia del Progetto Čechov di Lidi. 

Ma cosa significa ora, qui nel testo di Tennessee Williams del 1954, quel concetto di “utile” così centrale già là nella Trilogia? E come parla a noi oggi?

“Utile” è ancora ciò che economicamente produce frutto, come un terreno, appunto. Ma anche come una donna, qui in Williams. E non solo: la tentazione è tornata attuale.

Perversamente produrre frutto fa esistere in quanto utili e funzionali ad un sistema, che ci conosce meglio di quanto ci conosciamo noi. E che non a caso, in cambio, ci illude di renderci visibili e inclusi.

Un sistema cioè che fa leva sui bisogni più radicati nell’essere umano: l’inclusione nella vita di una comunità (a partire dalla prima comunità: quella della coppia) e poi il bisogno costitutivo di sentirci (sempre) al sicuro. Protetti. Preferibilmente da altri. Bisogni che se subdolamente manipolati, ci svuotano del nostro personale e autentico desiderare. Ed è proprio questa la sensazione che avvertiamo all’apertura del sipario: un gran vuoto sterile di vitalità, scambiato per un paradiso.

Un paradiso che, qui, il padre della famiglia Polliott ha messo a frutto nei suoi primi (e ultimi) 65 anni di vita. Ossessionato da quella visibilità che si riceve in cambio a patto di trasformare il capitale umano in un valore “economico”, alla stregua di una merce. E così, fedele all’etica a cui si è votato, il patriarca vale quello che possiede: dollari e acri di terra. Sarà paradossalmente l’incontro con il sospetto di un’imminente morte a riattivargli la vista. Una vista senza cataratte d’ipocrisia che riporta alla luce, tra le rovine, anche una profonda sensibitià dialogica con Brick, con echi di maieutica socratica.

Questo testo  per il quale Tennessee Williams venne insignito del Premio Pulitzer – il secondo, dopo quello per “Un tram che si chiama Desiderio”  –  denuncia nella sua versione non edulcorata e censurata la perversione di un sistema incentrato sulla subdola protezione fondata sull’ipocrisia.

Nicola Pannelli è il Padre – Fausto Cabra è il figlio Brick

“Ma la vita è fatta d’ipocrisia – ricorda il padre a Brick – E tu non vuoi vivere d’ipocrisia? Ma caro mio, non si può vivere d’altro. Io tutta la vita ho navigato nell’ipocrisia e ci navigherai anche tu!…L’ipocrisia, è il sistema in cui viviamo…”.

 “Ipocrita” è colui che dopo aver deciso di separare, e quindi di nascondere, qualcosa da qualcos’altro, risponde in una determinata maniera alla vita e agli altri.

Ecco allora che Leonardo  Lidi  – con la complicità della traduzione di Monica Capuani – sceglie registicamente e politicamente di restituire autenticità al testo di Williams mandando in scena la sostanza dei “segreti” e quindi dei “sogni” e quindi delle diverse forme, che può assumere “il desiderio”. Quella “sostanza” – così pericolosamente destabilizzante per un sistema societario basato sull’apparente sensazione di perbenistica sicurezza – che è stata per troppi anni condannata ad essere accuratamente messa a tacere. Perché sporca: scandalosamente vitale.

Fausto Cabra – Valentina Picello

Lidi invece restituisce cittadinanza agli esclusi: ai tabù e a quelle fragilità che ci abitano ontologicamente. E che non devono farci perdere fiducia in noi stessi, né negli altri. Fragilità da affrontare insieme: “con” l’altro, senza scandalizzarci.

Perché “lo scandalo”, in realtà, etimologicamente si dà come una “ trappola”, un errore, un inganno, in cui è umano poter cadere. Una trappola esistenziale che solo successivamente è stata caricata di una connotazione morale: una tentazione, ovvero un’occasione di peccato di cui vergognarsi. 

Parlare e quindi condividere “scandali” può essere invece fertilmente trasgressivo, se aiuta a restituire ossigeno ad atteggiamenti asfittici, mortificanti e mortiferi. Se aiuta a farne cioè occasioni di nuovi inizi: per capire meglio chi siamo.

Fausto Cabra (Brick) – Valentina Picello (Margaret) – Riccardo Micheletti (Skipper)

E così mentre Margaret si accanisce (cadendo in una trappola) contro i figli dei cognati, che le ricordano quanto lei sia pericolosamente minacciata di esclusione a causa del suo mortificante mancato dare frutto come semplice terreno, suo marito Brick, pur essendole fisicamente vicino, la ignora. “Tu non vivi con me”. Tu vivi insieme a me nella stessa gabbia (trappola)”.

Lui infatti pur continuando a stare fisicamente in famiglia vive come in esilio volontario, autopunendosi e autoescludendosi, con la complicità dell’alcool, da quella vita sociale e familiare che ha tacitamente assecondato, non riuscendo a condividere e a difendere “con” Skipper la verità dell’omosessualità che li legava.

Verità che continua a legarli: ossessivamente il suo desiderare resta bloccato in un perverso tentativo di recupero e di espiazione, in cui Brick si riempie gli occhi di un continuo sedurre ed essere sedotto dal suo amore perduto.  

E Lidi rende questo disperato dialogo erotico di dilaniante bellezza. Il Brick di Fausto Cabra è come reduce da una guerra che ha perso e che lo ha mutilato nel corpo.  Ma non tutto è finito: riesce a succhiare linfa vitale non tanto dalla bottiglia quanto dal non voler smettere di dedicare attenzione erotica al suo oggetto del desiderio. I suoi occhi sono ancora languidamente vivi, la sua voce è umida di un pianto che vorrebbe scatenarsi come un temporale – per ricevere e per concedersi il perdono – ma che si limita a lambire provocantemente la sua bocca, mai paga (apparentemente) di alcool. Che gli viene servito dal fantasma di uno Skipper (Riccardo Micheletti ) che Lidi immagina di inquieta bellezza neoclassica. Un giovane uomo dallo stupefacente allure femmineo, che tesse intorno e insieme a Brick una magnetica prossemica. Seducente, come un rituale di corteggiamento in cui ci si mescola a portare e ad essere portati. 

Riccardo Micheletti (Skipper) – Orietta Notari (Ida) – Fausto Cabra (Brick)

Così facendo Lidi ci regala anche una persuasiva visualizzazione di quanto l’irrazionale possa essere più potente di ogni tentativo di imbrigliamento egoico-razionale. E di come sempre l’irrazionale sia un linguaggio raffinatamente enigmatico, prezioso sia per l’individuo che per la collettività, se messo in dialogo con quello razionale. 

Questa visualizzazione prende forma attraverso una sorta di imprinting con il quale Lidi guida il nostro sguardo – e quindi la nostra attenzione – a tenere insieme le due storie parallele: quella tra Brick e Skipper (narrata attraverso un linguaggio irrazionale) e quella del resto della famiglia (narrata attraverso i principi della logica).  Con un passaggio successivo Lidi fa di Skipper il collegamento che pone in dialogo le due narrazioni. Skipper infatti, posizionando la porta /quinta a doppio specchio  all’interno di alcune dinamiche, porta lo spettatore a “vedere” sottotesti diversi.  Un efficacissimo procedimento registico “cinematografico”, dove a parlare sono certe inquadrature in primo piano, ma anche degli interessanti piani sequenza. 

Greta Petronillo (la nipotina) – Valentina Picello (Margaret) – Fausto Cabra (Brick)

Effetto di questo ensemble di raffinatissime trame di montaggio registico è l’arrivo della consapevolezza nello spettatore che diversamente da quanto sembrerebbe, cio’ che più conta per ciascun personaggio, è ciò che a ciascuno manca. 

Al di là dei travestimenti che ognuno di essi sceglie di indossare, ciascun personaggio ci parla anche di altro.

Margaret ad esempio – una Valentina Picello dalla verve disperatamente lussureggiante – è un’insolita gatta, “castrata” dalla famiglia e dalla società nella sua natura selvaticamente felina. Essendo lei etichettata come un terreno che non dà frutto, rischia di scomparire. Rischia di essere esclusa, ancora una volta ai margini della società. Anche nella vita di coppia le è preferito Skipper. E forse veste non a caso un abitino di un ceruleo “non ti scordar di me” (la cura dei costumi è di Aurora Damanti). Non si può permettere e non ce la fa a scappare, a saltar giù dal tetto che scotta. Non si può permettere di essere sensibile e vulnerabile: deve cambiare natura, deve resistere con acume. E da manipolata diviene a sua volta manipolatrice. Ed  è consapevole della sua mutazione: dice di sentirsi “diversa”. E’ consapevole di non essere una persona buona, ma nessuno lo è.  Tanto che alla domanda di Brick: “come farai a fare un figlio con un uomo che non ti può soffrire?” – lei sul momento riconosce la difficoltà, ma non si arrende. Sa attendere rimanendo in ascolto e l’occasione arriva dopo lo scatenamento del temporale interno alla famiglia. E lei si fa trovare pronta quando sarà proprio Ida a servirgliela: è un sogno e un inganno. Ma Brick lo sa: “la verità va oltre il parlare: la verità è esasperante”. E lui sceglie di farsene complice. Ma non è quello che sembra.

                    Valentina Picello – Giuliana Vigogna (Mae) – Giordano Agrusta (Gooper) – Orietta Notari (Ida) -Fausto Cabra

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   Papà Polliott, il padrone della “tenuta più fertile al mondo dopo quella del Nilo” – un elegantemente ruvido Nicola Pannelli dal denso carisma – è l’altro personaggio che dice di sentirsi “diverso”, di essere cambiato (dopo il sospetto di morte). Per non restare escluso ai margini dalla società, lui ha immolato il suo desiderio vitale per diventare ricco e quindi degno della stima e dell’invidia degli altri. E così si accontenta di valere quello che possiede. Non solo: il progressivo arricchirsi lo rende così tracotante da credere di poter gestire anche l’arrivo della morte. Ma poi la morte invece si palesa con un inganno e lui cade in crisi, fortunatamente. Così può cogliere l’occasione per vedere tutto con nuovi occhi, tamto da sentirsi “più saggio e più triste”. E riuscirà persino ad aiutare suo figlio Brick a “partorire maieuticamente” la causa del suo disgusto.

Nicola Pannelli (il padre) – Fausto Cabra (il figlio Brick)

Ida, sua moglie – una strepitosamente remissiva Orietta Notari, commovente nella sua resiliente energia vitale – è anche lei, in teoria, una donna “realizzata” e “inclusa”, perché in regola con il sistema (il suo terreno ha dato frutti) e perché ha sposato un uomo che nel tempo è diventato sempre più ricco. In realtà, più degli altri, Ida ha ricevuto in dono il potere dell’invisibilità e per tramutare questo dono in continue epifanie ama vestirsi di paillettes luccicanti. L’unica che in verità regala visibilità a Ida è Margaret: lei è la sola a chiamarla per nome e così facendo le restituisce la sua identità di donna. E forse non a caso Ida cercherà il suo appoggio prima-durante-dopo lo scoppio del “temporale familiare”. Ed è sempre includendo Margaret che si compone quello che Mae, con invidiosa ironia, definisce “un bel quadro familiare”, preludio all’annuncio del miracolo-mistero della tanto attesa natività.

Valentina Picello (Margaret) – Orietta Notari (Ida)

Gooper  – un efficacissimo Giordano Agrusta apparentemente morbido ma dallo sguardo carico di saette pronte per essere scagliate – è il fratello (apparentemente) “realizzato” perché divenuto avvocato e sposato ad una donna che non smette di rendersi fertile per il sistema. In verità Gooper da sempre soffre del fatto che fin dalla nascita i suoi genitori hanno preferito Brick a lui. E per sublimare questo insopportabile senso di esclusione, ha dedicato la sua vita allo studio dell’applicazione della giustizia, così da prepararsi adeguatamente alla vendetta finale sull’eredità paterna.

Giuliana Vigogna (Mae) – Nicola Pannelli (il padre) – Riccardo Micheletti (Skipper) – Fausto Cabra (Brick)

Mae  – una raffinata Giuliana Vigogna avvolta in un panneggio color veleno – è la complice perfetta di Gooper per acume misto sia ad accondiscendente sottomissione che a ipocrita trasgressione. E insieme fanno di tutto per portare a termine la loro vendetta, che ha il sapore infantile di un giudizio universale, misto al piacere di un colpo alla Bonnie e Clyde.

Fausto Cabra (Brick) – Valentina Picello (Margaret)

Leonardo Lidi, attraverso la sua preziosa vocazione alla salvaguardia dei contenuti originari di un testo, ci restituisce tutto il carattere scandalosamente di denuncia, contenuto nell’opera di Tennessee Williams: “quell’odore dell’ipocrisia che è l’odore più potente che esista, un odore di morte”. E la bellezza del suo personale adattamento si dà proprio nel non escludere la possibilità che uomini e donne possano essere scandalosamente magnifici, riuscendo a “fare comunità” proprio attraverso le proprie fragilità.

Come da sempre ci ricorda il Teatro.

Giordano Agrusta, Fausto Cabra, Riccardo Micheletti, Nicolò Tomassini, Leonardo Lidi, Orietta Notari, Giuliana Vigogna, Greta Petronillo, Nicola Pannelli, Valentina Picello


Recensione di Sonia Remoli

FINCHE’ SARA’ LUCE PER SEMPRE – monologo per attrice e violoncello – scritto e diretto da Francesco d’Alfonso

BASILICA DI SANT’ANASTASIA AL PALATINO

16 Maggio 2025

In una splendida serata del maggio romano, è andata in scena sull’altare della Basilica di Sant’Anastasia al Palatino – antichissima chiesa romana risalente al IV sec., nonostante l’esterno barocco e l’interno settecentesco –  il secondo evento della Rassegna d’arte teatrale a sostegno dell’Associazione “Comunità San Filippo Neri – E poi“. 

Interno della Basilica di Sant’ Anastasia al Palatino

L’ Associazione  Comunità San Filippo Neri – E poi?, presieduta da don Gabriele Vecchione, è una comunità che si impegna in progetti di guida e sostegno motivazionale verso giovani che hanno smarrito la bellezza del desiderare. Giovani che, affetti da un eccesso di individualismo, anziché aprirsi alla condivisione con gli altri come si fa in un’autentica comunità, sono tentati a chiudersi in se stessi, appartandosi. 

Inseriti in una nuova comunità familiare, come quella “San Filippo Neri – E poi ?”, questi giovani vengono sostenuti nella scoperta di quella bellezza che porta ad individuare la propria vocazione talentuosa. Perseguendola con coraggio. Come accadde anche alla giovane Sant’ Anastasia che, pur appartenendo ad una famiglia pagana, scoperto il suo appassionarsi al cristianesimo, compì la scelta radicale di convertirsi e di rimanere fedele a questo credo.

I membri dell’ Associazione “Comunità San Filippo Neri – E poi ?” con Don Gabriele Vecchione (Presidente)

L’Associazione “Comunità San Filippo Neri -E poi?” ha scelto la filosofia di non chiedere aiuti a proprio sostegno, preferendo autofinanziarsi: questo spettacolo così come quelli della Rassegna – realizzati in collaborazione con Pensieri Meridiani e Associazione Più Comunicazione – sono resi possibili infatti con il contributo dell’8xMille della Chiesa Cattolica e con le offerte che si raccolgono in occasione della partecipazione a ciascuno spettacolo. 


Irene Ciani

(@photogennari)

In questo secondo incontro della Rassegna è andato in scena un monologo per attrice e violoncello dal titolo “Finché sarà luce per sempre”. L’attrice Irene Ciani, accompagnata al violoncello da Mattia Geracitano e diretta da Francesco d’Alfonso autore anche della drammaturgia, si è fatta interprete del racconto del martirio della santa vergine romana Sant’ Anastasia.

Mattia Geracitano

(@photogennari)

Fatto buio, le note del violoncello di Mattia Geracitano immergono la basilica in un’atmosfera di suspence, dove arpeggiano passi, che si fanno poi un vero e proprio camminare. Si fa giorno. E dal fondo della Basilica sopraggiunge una piccola ancella che – come a preannunciare visivamente la passione che sarà indossata da Anastasia – porta un drappo di velo rosso, che depone sull’altare.

Si ode un canto di una bellezza solennemente gioiosa. È il suo canto: il canto di Anastasia (una metafisica e carnale Irene Ciani). Con un velato incedere leggero ci viene a cercare, per condividere con noi un evento straordinario. 

Sono svanite di colpo le ferite delle percosse subite ripetutamente durante la sua prigionia.  “Com’è possibile …. Com’è potuto accadere…Signore mio Dio, che hai fatto!?” grida di gioia, incapace di comprendere con la logica questa misteriosa realtà.

Mattia Geracitano – Irene Ciani

(@photogennari)

Nel gridare si accorge di come la sua gola è arsa e di come si fa irresistibile la sua voglia di bere. E poi arriva la sensazione terribile del freddo. E subito dopo quella del buio continuativo. Allora sgorga di rabbia perché cerca un segno del suo sposo divino e non lo trova. “Mi hai abbandonata, come è successo a te” – gli urla con gli occhi lucidi di ira mista a commozione. “Mi lasci in questa notte che non conosce luce di speranza”- sibila liquefacendosi quasi fino a scorrere al suolo. ”E’ un mistero come tu possa esistere insieme al male: insieme all’ingiusta agonia del giusto” – gli urla tra i singhiozzi. 

Ma poi arriva una luce. E’ un uomo quello che le si fa prossimo: è Cirillo, un cristiano come lei, che le offre dell’acqua. Lei ne beve avidamente. E poi sceglie di raccontarsi a lui: “Mi chiamo Anastasia, sono romana e di nobile stirpe. Il nome (che significa resurrezione) e la vita, sono le cose più belle che i miei genitori mi hanno donato”. Gli racconta ancora come la testimonianza di alcuni cristiani la sedusse a convertirsi e un sogno particolarissimo le diede il benvenuto. E così lasciò tutto. Fu allora presa sotto l’ala protettiva di una nuova madre: la cristiana Sofia. 

Mattia Geracitano – Irene Ciani

(@photogennari)

Ma il demonio non smise mai di tentarla per farla desistere da questa sua scelta.  La tentò prima nella carne e, quando Anastasia riuscì ad uscire da questa disperazione, fece sì che i suoi genitori la denunciassero per non ottemperare il culto degli dei di Roma.

La prelevarono allora dalla casa di Sofia: “Sono pronta per la battaglia”- si offrì lei. E la condussero al Palazzo di Probo, dove per bocca dell’imperatore il demonio continuò a tentarla. Ma lei fu inflessibile: “ho già uno sposo: è Cristo. Niente potrà separarci perché il mio sposo è come un muro”. 

Per farle cambiare idea la portarono allora in piazza, nuda davanti a Roma. Ma i suoi occhi erano chiusi sul mondo e aperti solo su Dio. La riportarono in cella: Probo non mancava di tentarla con le sue proposte. Ma lei ripeteva di voler continuare ad essere ”sola con Dio: il suo sposo silenzioso”.

Irene Ciani

(@photogennari)

Passarono i giorni e venne lo stesso padre a farle visita, per dissuaderla dal suo matrimonio mistico. Lui era l’unico familiare a non rallegrarsi per quello che le stava capitando, a seguito della sua conversione.

Ma nulla. Tornarono allora a picchiarla violentemente “come una giovenca al macello”.  Ed è fulgentemente lacerante qui la flagellazione che si autoimpone con plastica drammaticità l’Anastasia della Ciani, enfatizzata da un sapiente disegno luci che nel momento più incandescente della passione sa renderne il suo essere sanguinante e ardente.

La voce si rompe, si strazia, ma è straordinario come la Ciani renda questa dilaniazione con una qualità vocale liquida, fresca. Ecco infatti una dolce luce farsi strada tra il sangue che scende a fiotti e la pelle che brucia. Anastasia avverte immediatamente la presenza del suo sposo: “conducimi tu, reggimi in piedi. Sorrido alla morte che è stata già vinta da colui che è, che fu e che sarà”. E si affida a questa dolce luce. 

Con estrema fatica tra le lacrime e il respiro spezzato, si fa strada un canto: come quello già ascoltato all’inizio. Ma i suoi aguzzini nell’ascoltarla ancora, nonostante tutto, cantare, andarono e le strapparono la lingua.

Irene Ciani

(@photogennari)

Anastasia si veste allora dell’estrema passione, accogliendo su di sé quel drappo rosso che la piccola ancella le aveva deposto premurosamente accanto tempo prima. “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” – dice. E continua: “Fino a quando, uomini, sarete duri di cuore?”

Ma il suo sposo impaziente la richiama: “Non tardare Anastasia, ti attendo con trepidazione! Vieni oltre la landa e la palude, oltre il dirupo e il torrente, finché sarà luce per sempre”.

Irene Ciani (Anastasia) – Mattia Geracitano


Sant’Anastasia fu arsa viva il 25 dicembre del 304, durante l’ultima persecuzione dei cristiani ad opera dell’imperatore Diocleziano.

Visse la sua vita come un pellegrinaggio segnato dalla persecuzione e dalla sofferenza dovuta alla resistenza alle tentazioni del Demonio. Non a caso la chiesa a lei dedicata fu edificata proprio alle pendici del Colle Palatino, quasi come sul fianco (luogo particolarmente vulnerabile del corpo) di Sant’Anastasia: lei che divenne la “stazione” vivente, il luogo di avvistamento e difesa dai pericoli delle tentazioni del demonio. 

È stata definita, in greco, Farmacolìtria (Guaritrice dai veleni), e in russo, Uzoreshìtel’nitza (Colei che libera dai vincoli: protettrice dalle malattie e dagli inganni del Demonio).

Nel 1995 due icone che la raffiguravano – una dipinta secondo la tradizione occidentale e l’altra secondo quella orientale – furono spedite nello spazio sulla stazione MIR nell’ambito della missione “Santa Anastasia – una speranza per la pace” per contribuire alla riconciliazione dei popoli dell’ex-Jugoslavia (i Croati e gli Sloveni sono in maggioranza cattolici, i Serbi in maggioranza ortodossi). L’iniziativa era patrocinata dall’Unesco e le icone furono benedette da papa Giovanni Paolo II, dal patriarca di Mosca Alessio II e dal patriarca di Serbia Pavel. Al loro ritorno sulla Terra le icone giunsero a Sremska Mitrovica, terra del martirio della santa, per contribuire, secondo le intenzioni delle Chiese Cattolica ed Ortodossa, alla pacifica convivenza dei popoli balcanici.


Rassegna eventi a sostegno delll’Associazione “Comunità San Filippo Neri – E poi ?”:

12 Aprile 2025 – Teatro Palladium

Oltre quello che c’è, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso liberamente ispirata agli scritti di Byung-Chul Han e T.S. Eliot, con Roberta Azzarone, Irene Ciani, Matteo Santinelli, Marco Tè e con la partecipazione straordinaria dell’ Ètoile del Teatro dell’Opera di Roma Rebecca Bianchi e di Alessandro Rende, accompagnati dal pianoforte di Dario Callà e dal violoncello di Mattia Geracitano

16 Maggio 2025 – Basilica di Sant’Anastasia al Palatino

Finché luce sarà per sempre, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso ispirata alla Passione di Sant’Anastasia romana, un monologo per attrice e violoncello con Irene Ciani e Mattia Geracitano

12-13 Giugno 2025 – Teatro Nuovo Ateneo Sapienza Università di Roma

Gran Teatro Bernini, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso, con Irene Ciani, Francesco Cotroneo, Federico Gatti, Domenico Pincerno, Enrico Torre, Lorenzo Sabane


Recensione di Sonia Remoli

COME NEI GIORNI MIGLIORI – regia Leonardo Lidi

TEATRO INDIA

dal 14 al 25 Maggio 2025

Il titolo si dà, con enigmatica suggestione, come una similitudine: figura retorica qui però mutilata del primo termine, il termine che fa scaturire il paragone, la similitudine appunto.

Ed è bellezza.

Perché sebbene la similitudine nasca dall’esigenza di chiarire meglio un concetto, la scelta di rendere in tal modo il vuoto di un inesprimibile linguistico è splendida. 

Perché tale vuoto – riconosciuto come assenza carica di significato – è come una pienezza straripante. E quindi indicibile attraverso il linguaggio basato sui principi della logica.

Alfonso De Vreese (B) – Alessandro Bandini (A)

Si può tentare di esprimerne in qualche modo tale magnificenza – come qui ardisce fare l’autore Diego Pleuteri – apportando un taglio ad un artificio linguistico, la figura retorica, per rendere più efficacemente suggestivo il concetto. 

E funziona.

E poi arriva la messa in scena teatrale: una vertiginosa “visualizzazione” di questo pressocché inafferrabile concetto. Una testimonianza di quell’ “Ama e fai quel che vuoi” con cui si apre lo spettacolo. E insieme lo specchio di come può essere difficile, nelle relazioni, fidarsi dell’altro. Anzi affidarsi all’altro.

Ecco allora lo spazio teatrale e della mente vuoti: liberi da egoicità. Spazi dai confini osmotici, tali da poter essere invasi dall’energia del dio Pan: un’energia parossistica, da eccitazione, da pan-ico. Ed è seducentemente da capogiro per l’occhio (anche alla lettura della drammaturgia) e per l’orecchio, lasciarsi trascinare insieme agli interpreti dai rapimenti osmotici da uno spazio all’altro: dallo studio dell’analista, alla pinacoteca e poi alla discoteca e così via. Ma anche nel passaggio repentino tra una fine e un inizio, tra il vomito e l’eros, tra un lutto e una rinascita. Spazi resi ambientazioni immersive da un efficacie disegno luci su stativi, curato da Nicolas Bovey.

(ph. Luigi De Palma)

Ma nonostante queste stupefacenti esperienze, resta sempre qualcosa che tiene i due protagonisti ancorati a terra: la minaccia dell’altro, della sua diversità così mal conciliabile con la propria personale voglia di avere tutto per sè e fare sempre a modo proprio.  

E poi ci sono le parole.  Se si potesse fare a meno delle parole!

“Diciamo di amarci, e magari è vero” – sceglie di scrivere Pleuteri in epigrafe al suo testo, citando il Raymond Carver, di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.

Leonardo Lidi

Però qualcosa che può venirci in aiuto c’é.

Ed è un po’ il messaggio che serpeggia dentro questo interessantissimo lavoro diretto da Leonardo Lidi.

Allenarci ad avere fiducia.

Che é qualcosa di  diverso dall’avere fede, anche se appartenente alla stessa chioma di parole. Addirittura, anche quel fidanzato/a, dal sapore oramai antico, appartiene alla stessa famiglia dove nessuna parola ha un significato netto. Si tratta di parole dai confini osmotici – concetto vitale, finanche divino, ben reso in scena – dove fiducia si intreccia a confidenza, ma anche ad affidamento e poi a coraggio e anche a fedeltà

Perché la fiducia è libera: liberamente si fonda e si rifonda. Senza il rigore ubbidiente della fedeltà.

E quindi, nonostante tutto, possiamo ancora ri-concedere fiducia a noi stessi e all’altro: “…E quest’anno ho fatto trent’anni, lo so che non sono niente, ma a trent’anni una volta erano vecchi e prima ancora morti e allora se abbiamo lottato per vivere tutto questo tempo in più forse possiamo prenderci qualche rischio e magari cambiare idea e provare a raggiungere queste cose belle che sembrano così lontane, sì insomma, non ci corre dietro nessuno o comunque abbiamo un tempo in più per sbagliare, è come se avessimo vinto qualche giro di giostra e possiamo girare ancora, e io sono un imbranato di dimensioni colossali, non ho mai vinto niente, ma con te mi piacerebbe provarci, senza fretta che poi mi viene l’ansia ma senza neanche lasciarti andare come se niente fosse…”

(ph. Luigi De Palma)

” …e possiamo girare ancora…”: ancora è infatti la parola che meglio riesce a descrivere noi umani, noi e l’amore, noi e le relazioni, noi e la comunicazione. Perché come diceva Hannah Arendt “gli uomini non sono fatti per morire ma per continuamente incominciare”. 

Questo di Leonardo Lidi è uno spettacolo disperatamente vitale. A qualche livello legato osmoticamente a “Giorni felici” di Beckett, dove quel comune dramma della conversazione trova proprio nel quotidiano più quotidiano (finanche qui nel pane e nei cioccolatini) echi di “sacro”. 

Dove l’affogante rigidità esistenziale può essere pervasa da un caos così vitale da appanicarci: fino a riuscire “a sparire da noi stessi”.

Dove ognuno di noi può appassionarsi, proprio come un detective, a trovare in superficie e in profondità tracce di quella meraviglia che si diverte ad infiltrarsi nel dramma di vivere. 

Di più: queste indagini vitali possiamo condurle anche “insieme”. Anzi insieme sono più efficaci: perché insieme si impara a mettersi nei panni dell’altro (come assai efficacemente viene visualizzato dal lavoro sui costumi, curato da Aurora Damanti). Dove “il mio” indossato da te, non solo finalmente “lo vedo” ma mi fa anche un effetto diverso, nuovo.

Lidi fa sì che lo scambio di habiti arrivi a contagiare  anche scena e platea, attore e spettatore: che qui divengono spazi e ruoli osmoticamente fluidi. Capaci di “sparire” ciascuno nell’altro, in un freschissimo “conosci te stesso” delfico.

E così anche il pubblico, per certi versi, viene invaso da Pan: il dio amico di Dioniso, che si aggira tra noi come tra pascoli e montagne. Il pubblico, infatti, investito da questa energia straripante si spaventa, si eccita, si commuove. E aspetta che si abbassino le luci in dissolvenza per liberarsi in un’onda di complice entusiasmo. E di riconoscimento.

Alessandro Bandini e Alfonso De Vreese lasciano il segno: si danno come sublime energia vitale. Loro stessi corpi emozionali osmotici, che amano e fanno quello che vogliono.


Recensione di Sonia Remoli

LA BANALITA’ DELL’ AMORE – regia Piero Maccarinelli

TEATRO INDIA

dal 6 al 18 Maggio 2025

“Sì, sono ancora viva!” 

L’amore – che sia quello verso una persona, che sia quello verso il sapere – può essere boicottato: ostacolato e isolato. Ma chi ama può scoprire di sentirsi libero, nel continuare comunque ad amare. 

Perché spesso il riconoscimento che ci affanniamo a suscitare nell’altro fuori da noi, può essere condiviso con l’altro che è in noi. Come, con commovente bellezza, approdiamo a percepire metaforicamente nella scena finale dello spettacolo. 

Quando cioè quell’insistente desiderare una sigaretta – che attraversa con sapienza narrativa e registica come un fil rouge tutto lo spettacolo – trova un’inaspettata realizzazione attraverso la sigaretta offerta alla 69enne storica della politica Hannah Arendt da un’altra Hannah Arendt: quella diciottenne. Che a suo tempo “fu iniziata” a questo piacere dolce-amaro dal suo amato professore di filosofia Martin Heidegger

E’ una nuova consapevolezza, quella attuale, un nuovo inizio, una gioia, una vitalità – che non possiamo non leggere sia sul volto dell’una che attraverso le spalle dell’altra – e che sembra voler essere il coronamento di quel “sì, sono ancora viva” con cui si apre lo spettacolo. 

Claudio Di Palma (Heidegger) – Anita Bartolucci (Hannah Arendt 69enne) – Mersilia Sokoli (Hannah Arend 18enne) – Giulio Pranno (Raphael Mendelsohn e Michael Ben Shaked)

Una brillante 69enne Hannah Arendt in convalescenza da un infarto, accetta di affrontare un’intervista propostagli da un giovane israeliano relativamente al suo famoso saggio La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” (1963): un diario sulle sedute del processo a Adolf Eichmann a cui lei partecipò in qualità di inviata del settimanale The New Yorker

Vale la pena ricordare che dal dibattimento in aula la Arendt ricava l’idea che il male perpetrato da Eichmann – come dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili dell’Olocausto – non deriva da un’indole maligna ben radicata nell’anima (come sostenne nel suo Le origini del totalitarismo del 1951) quanto piuttosto da una completa inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni. Da qui il titolo “La banalità del male”; da qui le pesanti polemiche di tutto il mondo ebraico su questa sua opinione.

La Arendt – qui in Maccarinelli un elegantemente vibrante Anita Bartolucci in un efficacissimo tailleur chanel bluoltremare e camicetta di un impudentemente gradevole raso fuxia  –  coglie in questa intervista un’ottima opportunità per chiarire le sue posizioni. E, contro ogni prescrizione medica, all’indomani del ritorno a casa dall’ospedale, si rende disponibile ad affrontare l’intervista, attraverso la quale spera ardentemente di porre fine al “boicottaggio” nei suoi confronti.

Succede però qualcosa di diverso.

Piero Maccarinelli porta in scena il bel testo di Savyon Liebrecht (2010) sottolineandone, con la sua calibratissima regia, quel gioco di simmetrie e asimmetrie vitali, che rende la narrazione (e la vita) così avvincente. 

La coreografia prossemica ne è una visualizzazione eloquentissima, che fa della metafora erotica una propedeutica, o meglio un’educazione sentimentale, alla passione politica. 

A rendere così complessa la relazione tra Hannah Arendt e Martin Heidegger (un efficace Claudio Di Palma, romanticamente asciutto) non è solo un’asimmetria politico-religiosa, quanto un’asimmetria relazionale.

Chi ama davvero non ha bisogno di simmetrie: non ha bisogno di essere amato almeno quanto lui/lei ama l’altro. Non ha bisogno solo di “approfittare” delle circostanze del momento per trovare “la propria autenticità” e per “salvarsi dalla solitudine”. Non è solo “determinato” e “fedele a se stesso”. 

(ph. Claudia Pajewski)

Ma anche flessibile: disponibile a scusarsi, ad esempio. Cosa che Heidegger con riesce mai a fare con lei, chiuso com’è entro confini costantemente minacciati. E quindi così impegnato a difendersi, da non riuscire a non fare del sapere uno strumento di manipolazione; da non riuscire ad aprirsi autenticamente alla scoperta del 2: della relazione.

Allo stesso tempo, l’amore è quella spaventosa forza irrazionale che può rendere “stupida” e banale anche una studentessa estremamente intelligente (qui, la Harendt 18enne è una Mersilia Sokoli che incantevolmente si lascia sedurre e seduce, assecondando la morbida gentilezza glamour dei suoi abiti dall’inebriante allure cromatico. La cura dei costumi è affidata a  Zaira De Vincentiis).

(ph. Claudia Pajewski)

Dice la Harendt (18enne):

Mentre ero seduta davanti alla porta chiusa del tuo ufficio ho scoperto improvvisamente una cosa. Ho scoperto che una studentessa brillante e una stupida possono comportarsi nello stesso modo.

HEIDEGGER: In che modo? 

HANNAH: Irrazionale

E ancora:

 “… sono spaventata da questa irrazionalità, dal modo in cui riesci ad annullarmi, a dominarmi, a insegnarmi consapevolmente a soffrire e a essere persino grata di questa sofferenza. Avrei dovuto chiederti di andartene nel momento in cui hai pronunciato la parola “giudeo” ma ecco, sono ancora qui, in attesa di un tuo abbraccio”.

(ph. Claudia Pajewski)

La banalità dell’amore quindi – rispetto alla banalità del male – non esclude una consapevolezza razionale, ma non per questo si riesce o si ha voglia di resistervi, ci confida la Harendt.

Tra l’obbedire ciecamente a un capo politico e il lasciarsi guidare da Eros c’è  qualcosa di simile: il senso di quel torpore, di quell’incantamento che soggioga.

Il regista Piero Maccarinelli

Maccarinelli fa entrare negli occhi dello spettatore un tempo e uno spazio a scacchiera in cui l’occasione di un’intervista con un enigmatico studente (un appassionato Giulio Pranno)  porta la Arendt non solo a ricordare, ma a dare un nuovo valore alle scelte del passato. Perché il passato chiede sempre di essere ri-letto. Ogni volta.

Ed è di seducente bellezza il modo in cui sulla scena (curata da Carlo De Marino) Maccarinelli isoli osmoticamente le diverse aree della scacchiera del tempo. Dove è la luce a muovere le pedine dei collegamenti extra temporali (la cura del disegno luci è di Javier Delle Monache).

Uno spettacolo, questo di Piero Maccarinelli , che intriga i sensi, la mente e il cuore e che racconta delle contraddizioni dell’animo umano con accurata accoglienza, avvolgendole nella drammaturgia musicale di Antonio Di Pofi.

Claudio Di Palma (Heidegger) – Anita Bartolucci (Hannah Arendt 69enne) – Mersilia Sokoli (Hannah Arend 18enne) – Giulio Pranno (Raphael Mendelsohn e Michael Ben Shaked)


Recensione di Sonia Remoli