PINOCCHIO – adattamento e regia Maria Grazia Cipriani

CHIOSTRO DI SANT’AGOSTINO di SAN GINESIO (MC)

20 Agosto 2025

GINESIOFEST , dal 20 al 25 Agosto 2025 , San Ginesio (MC)

Dal sinergico magnetismo di un ensemble, dove all’adattamento drammaturgico e alla regia di Maria Grazia Cipriani si accordano le scene e i costumi di Graziano Gregori, il suono di Hubert Westkemper e le luci di Angelo Linzalata, si rivela epifanicamente un Pinocchio che si tatua sulla pelle dello spettatore. 

Grazia di questo ensemble il tradurre da “Le avventure di Pinocchio” di collodiana memoria tutto il meraviglioso furore di un viaggio verso la consapevolezza di sé. E’ la drammaturgia del suono di Hubert Westkemper a guidare lo spettatore nel restare musicalmente complice di quel mistero dell’ineffabile, che si muove sul confine tra l’essere e il non essere: su quell’eterno transitare tra vita e morte, tra luce e buio, tra suono e silenzio. Qui, infatti, il suono si condensa in materia luminosa, come nell’esperienza del Pescecane, che vediamo sinesteticamente con le orecchie.

Cifra di questo ensemble l’imprimere sulla sensibilità dello spettatore la consapevolezza di come un percorso di formazione – non solo quello di Pinocchio – non si realizzi nel separare sempre meglio il bene dal male. Attraverso il loro Pinocchio viviamo infatti l’esperienza del limite: quella dimensione della fragilità e della vulnerabilitá dove però la paura si abbraccia al coraggio, la vita alla morte, la luce al buio, il suono al silenzio. Perché crescere – ci ricorda Maria Grazia Cipriani – significa imparare a fare qualcosa di interessante anche del nostro peggio: delle nostre ombre, dei nostri lati oscuri.

Questo Pinocchio del Teatro del Carretto é un Pinocchio nudo: scorticato della corteccia del perbenismo moralistico. Un Pinocchio restituito nella sua essenza ontologica di colui che é in cerca di umanitá: fuori, ma prima ancora dentro se stesso.

Un Pinocchio meravigliosamente fragile nel suo sentirsi dilaniato tra la ricerca di una generosa gestione della libertá e la tentazione ad abdicarvi, per scegliere un’immediata narcisistica soddisfazione. 

Lo stesso spazio scenico – metafora di una dimensione altra, inconscia – si dá come un semicerchio di apparente sicurezza che si affaccia su un vuoto tutto da esplorare: al di lá e al di qua di questo confine. Un confine in realtá osmotico, dove Pinocchio rivive – e progressivamente rimuove – i traumi della sua storia. Grazie al potere del racconto, che libera e insieme recupera e tiene insieme ciò che invece potrebbe andare perduto. 

Magnifica la bellezza con cui registicamente viene resa la propensione di Pinocchio a “farsi prendere in giro”. Che qui diventa un concetto visivo rappresentato dal gioco-giogo della giostra. Dove Pinocchio “lega” la propria libertá al furore del desiderio di un altro. Preferendo, a qualche livello, lasciarsi “domare” nell’illusione di affrancarsi così dall’insostenibile leggerezza del sentirsi libero. O, per dirla sartrianamente, illudendosi di affrancarsi dalla condanna ad essere libero.

E così, attraverso l’utilizzo di linguaggi che sanno raccontare senza far ricorso ai principi della logica, arriva allo spettatore la percezione che la difficoltà di Pinocchio ad entrare in una sana relazione con i personaggi delle sue avventure sia una metafora della difficoltà ad entrare in relazione con le varie aree della propria personalità. 

Difficoltà che ci parla dell’inclinazione di Pinocchio a muoversi spinto da un comando: che sia l’impazienza del suo desiderare o il desiderio manipolatorio degli altri. Incapace (ancora) di essere consapevole e di contenere il suo desiderare.

Il Pinocchio restituito da Giandomenico Cupaiuolo recupera il respiro ancestrale di una creatura del nostro inconscio collettivo. Creatura che trova completamento e realizzazione  attraverso l’interazione con il coro delle altre aree relazionali della sua psiche, tra loro in contesa. Aree che si danno come personaggi – sono quelli di Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Carlo Gambaro, Ian Gualdani, Filippo Beltrami – tutti qui coinvolti in un’interessantissima esplorazione di quel qualcosa di sacro che scaturisce dall’incontro/scontro tra l’umanità dell’interprete e la figura inanimata della maschera; tra la dimensione del viaggio interiore e la concreta artigianalità. Il loro habitus è prevalentemente di un bianco così abissale, da incutere più timore del rosso sangue o del nero habitat in cui convivono.

La sviolinata manipolatoria della Volpe – così efficacemente resa senza il ricorso al linguaggio della logica – ad esempio si scontra con l’area del dubbio,`di quel “ Pinocchio, non ti fidare” protettivamente sussurrato dalla Fata ( qui turchina nell’essenza: una Elsa Bossi accattivante nel suo attraversare una prima dimensione fanciullesca, per poi sconfinare in quella del femminile di donna, fino a contattare l’accoglienza del contenimento materno). Perche’ a differenza di quello che la Volpe vuol far credere a Pinocchio “ Tu, io e lui” non fanno necessariamente un “noi”, cioè una vera relazione.

E’ del Pinocchio di Cupaiuolo la disponibilità a far sì che diverse declinazioni del respiro producano tensioni per gesti impulsivi, nervosi, diretti, quali quello del burattino. Ma anche più raffinatamente complessi e poetici, quali quelli della marionetta. Meraviglioso poi il confrontarsi di queste tensioni con la sinuosità generosamente morbida della Lumaca: elogio di quella lentezza, così lontana (ancora) dal fare di Pinocchio.

Sorprendente e dalla grazia inquietante anche il lavoro di Cupaiuolo sulla vocalità: ondivaga eppure ostinata; impertinente e spudoratamente ingenua; insensibile e commovente. E poi nel  momento prima che il cappio arrivi a chiudere completamente la gola del suo Pinocchio, suo è il restituire il vuoto dell’urlo, che progressivamente trova sempre meno cavità aerea.

Questa del Teatro del Carretto è una preziosa testimonianza di come un classico della letteratura si possa continuare ad esplorare, recuperandone sempre nuove sollecitazioni. A partire dall’indagine del concetto di “avventura”, che qui rivela come il meraviglioso abbia in se non solo qualcosa di straordinario, di promettente e di rischioso. Ma anche l’idea del suo darsi come “ció che deve accadere” (incluso l’attendere) per il realizzarsi di un’autentica crescita. Perché  quello dell’avventura non è un avvenire semplice, ma ricco tanto di pericoli quanto di opportunità. Non è sorte né buona né cattiva: è sorte faticosa, incerta ma, insieme, promettente orizzonte di conoscenza e di realizzazione. Dove la relazione con il diverso, con l’Altro da sé, è anche scoperta dell’Altro in sé.

Un Pinocchio, il loro, che ci ricorda che  siamo sempre alla ricerca di qualcosa che non conosciamo: che le avventure della vita si sviluppano attorno a un vuoto, a un disagio, che possiamo utilizzare come motore che spinge verso un atteggiamento di curiosa esplorazione. Che non pretende di ingabbiare il futuro in schemi già collaudati, ma che si lascia guidare dalla forza creatrice del desiderio.

Ed è furore.

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Recensione di Sonia Remoli

CONTRA GIGANTES

NARRAZIONE PER ATTORE SOLO E COMPLICI SPETTATORI

Testo drammaturgico e regia di Horacio Czertok

TEATRO CORTESI DI SIROLO

8 Agosto 2025

“ Se nessuno lo fa, lo farò io! ”.

E’ Miguel de Cervantes a far emergere dal “petto” del suo Don Chisciotte questa dichiarazione d’amore per la vita, dalla fulgente bellezza esistenziale: un desiderio sovversivo, che non teme il ridicolo, nel suo voler prendersi cura della sorte dei più svantaggiati.

E così facendo – ovvero nel concedere al personaggio di Don Alonso di poter essere “anche” Don Chisciotte – Cervantes “restituisce” ad ogni uomo la possibilità di esprimere “anche” altre aree della propria personalità .

Horacio Czertok

E’ questa, forse, la più luminosa tra le brillanti decifrazioni che emergono dallo sguardo di Horacio Czertok al celeberrimo testo di Cervantes. Testo oggetto di un’indagine, che non smette di appassionarlo da trenta anni. 

Decifrazioni, le sue, rivelate oltre che nello spettacolo cult “Quijote!” anche nel testo che dà vita a questo spettacolo: “ContraGigantes, narrazione per attore solo e complici spettatori”. 

La dichiarazione d’amore “Se nessuno lo fa, lo farò io” scaturisce infatti dal trasporto seduttivo, che può originarsi dall’incontro tra un uomo qualunque e la lettura di libri (qui di letteratura cavalleresca). 

Un incontro che trasforma così tanto chi legge, da sentire l’esigenza di fare di ciò che si è letto “un concreto” stile di vita. 

Perché i libri sanno leggerci dentro: spesso non siamo noi a leggerli, ma sono loro a leggere qualcosa di noi che ancora non sappiamo.

Una seduzione che nella vita pratica condurrà Don Alonso “a darsi alla macchia”, latitante cioè da quella vita troppo confortevole, propria di quando il sapere resta fine a se stesso, perché disgiunto – e quindi indifferente – dalla pratica vitale. 

L’idalgo Don Alonso si scopre disponibile, invece, non solo a vendere le sue terre per acquistare libri sulla cavalleria ma anche a “metterci il petto“: a decidere cioè di farsi lui stesso “cavaliere”, a servizio della vita di chi è in difficoltà. Combattendo in prima persona, cioè “ContraGigantes” (contro i Giganti).

Horacio Czertok

“Giganti” che – nell’acuta indagine interpretativa di Czertok – si rivelano metafora di “luoghi chiusi”, non solo fisici ma anche psichici. 

Quelle “mura”, cioè, che edifichiamo dentro di noi e che rispondono, ad esempio, al nome di indifferenza, pregiudizio, egoismo, violenza. E che, in generale, si configurano come resistenze interiori che impediscono l’erompere di un vero incontro, di una vera osmosi fertilmente contaminante con l’altro da noi. Relazione che, sola, si rende capace di trasformarci: di farci crescere, come umani. 

Inclinazione relazionale che da 50 anni caratterizza il fare poetico e politico del Teatro Nucleo di Ferrara (e della precedente Comuna Nucleo di Buenos Aires) di cui Horacio Czertok, assieme a Cora Herrendorf, è co-fondatore.

Complice il romantico mistero di un sognante chiaro di luna, venerdì 8 Agosto dal palco del Teatro Cortesi di Sirolo, l’incantevole dolcezza scalza di Horacio Czertok ha portato in scena un Cervantes sovversivamente assente. 

Un misterioso Cervantes che lui da trenta anni ha cura di far emergere, decifrando allo spettatore quel magnifico testo del Don Chisciotte (che tutti crediamo di conoscere) attraverso l’incanto della sua parola. 

Proprio come lo stesso Cervantes fece, a suo tempo, quando la messa in scena del suo Don Chisciotte non fu compresa nella sua complessità. 

Ecco allora che Horacio Czertok, in un suggestivo gioco di specchi, decide di farsi proprio quel “cronista” che tanto Cervantes anelava: “O tu savio incantatore, chiunque tu sia per essere, a cui sarà dato in sorte d’essere il cronista di questa peregrina storia…”. 

Anche lui, Czertok, ingiustamente ospite di una prigionia. Anche lui indomito nel proteggere il proprio ingegno pratico di attore-cittadino, al servizio di chi è in difficoltà. 

Anche per lui, come per Don Chisciotte, “in tutte quelle prove infelici il suo ingegno e il suo cuore mostrarono sempre la vera loro eccellenza”.

Esempi di un coraggio e di una perseveranza che sanno “darsi alla macchia”, cioè al di là di un confortevole sguardo miope ed egoistico, tutto chiuso su interessi personali. 

Uno sguardo che ci tenta e che ci fa credere di essere acuti, muovendoci in realtá come ciechi: guidati da quei “giganti” che sanno vivere solo al chiuso, solo tra le mura di sguardi stretti, come quelli dei nostri egoismi.

Il teatro Julio Cortàzar – casa del Teatro Nucleo di Pontelagoscuro, eccellenza della ricerca e della pratica teatrale nazionale e internazionale – non a caso sorge sulla soglia offerta dalla riva destra del fiume Po, dove s’incontrano l’Emilia e il Veneto. E’ quindi, anche morfologicamente , una testimonianza di felice contagio tra i territori di due aree geografiche diverse. 

Perché “vivere” significa interrogarsi, ci ricorda Horacio Czertok. Continuamente. 
Perché attraverso il nostro interrogarci trova espressione il desiderio di sapere qualcosa in più, di “diverso”. 

Un desiderio che non si accontenta di essere domato, ma che cela fiducia nel nuovo e quindi nel “diverso”, con cui sì verrà in contatto.

Un diverso”, che possiamo incontrare “fuori” e “dentro” di noi – come accade a Don Chisciotte. E che ci permette di conoscere meglio noi stessi. Così da liberare il nostro potenziale espressivo, in quanto liberi dalla sottomissione a quei “Giganti”, che hanno potere su di noi solo se rimaniamo chiusi nelle mura di un’effimero senso di sicurezza, che ci rende indifferenti alle ingiustizie.

Miguel de Cervantes trova “la chiave” per parlarci di questo attraverso il suo “Don Chisciotte”. E Horacio Czertok, nella sua lettura interpretativa del testo, individua quegli indizi che conducono verso questa “chiave”.

Czertok incanta lo spettatore con il potere della sua parola. Una parola che riaccende quell’ “ingegno” che ci rende uomini “umani”. 

Quell’ingegno che sa creare, anziché omologarsi. 
Quell’intelligenza clandestina, creativa e pratica, che contraddistingue lo stare al mondo della Comuna Nucleo prima, e del Teatro Nucleo ora.

In uno spazio scenico nudo, disinteressato al “rappresentare” per concentrarsi tutto sulla presenza e sulla relazione, il servitore-cronista di Czertok si dà allo spettatore in una modalità “musicale” tutta sua: di complice trascendenza. Svelando “i codici cifrati” di un testo estremamente conosciuto, qual è il Don Chisciotte, ma letto sorvolandone la segreta complessità.

Quella complessità che veste anche il corpo di Czertok di stratificazioni cromatiche: fisiche e psichiche. Un “habitus” che attrae lo spettatore perché capace di veicolare la bellezza della complessità, con piacevole affabilità.

Si diffonde così, nella sala del Teatro Cortesi, quella meravigliosa permeabilità tra realtà e immaginazione, che sola permette di penetrare dimensioni nascoste. Alla creazione del significato delle quali, lo spettatore è invitato a partecipare. 

Perché Horatio Czertok sa come solleticarne l’attenzione ricca in ingegno. Fino alla fine della sua performance. Anche quando ci lascia andare con un finale che – come un taglio che cura – non chiude davvero questo nostro “incontro” ma piuttosto apre alla potenza di un critico interrogarci. 

Dove anche noi possiamo scoprirci investigatori di noi stessi, al servizio degli altri. 


Autentici spettatori, “complici di una narrazione per attore solo”. 

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Recensione di Sonia Remoli

ANTIGONE – regia Roberto Latini

TEATRO ROMANO DI OSTIA ANTICA

19 Luglio 2025

Teatro Ostia Antica Festival

Il senso del passato

Al di là dei meccanismi “confortevoli” della tragedia classica – dove si puó far conto su una “distribuzione delle parti” che protegge lo spettatore dal riflettersi nelle intime e contraddittorie responsabilità proprie di “ciascun” personaggio – la rilettura innovativa dell’Antigone di Sofocle da parte di Jean Anouilh è un testo – qui tradotto da Andrea Rodighiero  e adattato da Roberto Latini – che sceglie di rinunciare al meccanismo della suspense tragica, per andare a sagomare l’attenzione dello spettatore sulla luce delle ombre, proprie del diverso modo di stare al mondo di ciascun personaggio. 

Roberto Latini

Ciascuno in bilico tra il suo essere uomo e il suo essere umano: ciascuno costituito da una propria dose di “sentire” fatto di solidarietà e di opportunismo; di compassione e di indifferenza; di comprensione e di giudizio; di perdono e di odio; di cura e di disattenzione; di gentilezza e di violenza.

La regia di Roberto Latini visualizza con intensa efficacia questa tensione d’indagine di Jean Anouilh, mettendo in scena una strada – topos dell’eredità paterna di Antigone – ma sollevando i personaggi dal dover accordarsi  su quel “cedere il passo”, che aveva contraddistinto la storia di Edipo e (metaforicamente) anche quella dei suoi fratelli Eteocle e Polinice. Lo fa cioè trasformando quella che era una libera scelta, nella “regolamentazione” di  uno stop. Nello specifico, la fermata di un bus. Sul quale però Antigone si sente libera di scegliere di non salire. Mai.

Perché regolamentare una libera scelta non spegne, né anestetizza, il sentire umano. 

Perché non è vera solo la considerazione che “tutte le scelte che hai fatto ti hanno portato adesso qui” ma anche che “tutte le scelte che non hai fatto ti hanno portato adesso qui”.

Lo stesso Creonte, che in veste di “re” condanna l’ostinato sentire di Antigone, si chiede come “umano” – e scopre di desiderarlo anche lui – se mai qualcuno sarebbe disposto a morire per lui, pur di dar voce ad un sentire esuberante la Legge e al di lá del suo effettivo “merito”` quale destinatario del gesto.

Un sentire che, proprio in quanto “esuberante” rischia di perdersi,  sfociando in una pulsione di morte. Così come rischia di essere risucchiato in un meccanismo di mortifera manipolazione – dove in cambio di una pseudo sicurezza si cede il proprio pensiero critico – il sentire di coloro che “con indifferenza” aderiscono alla Legge.

E’ un rapporto – questo tra la Legge e il sentire umano – che parla intimamente di noi. E a noi. 

Non a caso il Teatro ne fa l’oggetto privilegiato della propria indagine.

Ecco allora che la regia di Latini sceglie di fare di ciascun personaggio “un corpo di voce”, capace di rendere magnificamente il vicendevole insinuarsi delle tensioni securitarie nel sentire esuberante dei protagonisti della storia.

La stessa scelta di distribuzione dei personaggi non è quasi mai univoca e la duplice partitura rende con avvincente efficacia il riflettersi – e quindi il visualizzarsi – di aree dell’animo di un personaggio nell’altro.

Le opportunitá offerte dallo spazio scenico del Teatro romano di Ostia vengono poi esaltate nel loro valore simbolico rendendole aree dell’animo dei protagonisti. Ad esempio, lo spazio dell’orchestra ospita l’area più enigmaticamente sotterranea non solo di Antigone – la cui restituzione da parte del Latini attore si incide nello spettatore per una sublime bellezza vertiginosamente aerea – ma anche degli altri personaggi. 

Anche i costumi – curati da Gianluca Sbicca – esaltano i colori e le morfologie vocali dei personaggi, la cui unicitá del volto è parzialmente celata da una maschera omologante – che ricorda quelle antigas del periodo bellico della Seconda Guerra Mondiale. Maschera alla quale possono rinunciare  quando scendono nell’area sotterranea della propria  psiche. 

Nell’area superiore del palco – area della cittá di sopra, ordinata dai principi della Legge di Stato e simbolo dell’area psichica dell’io – le posture e i gesti della voce/corpo dei personaggi si esprimono attraverso  la meccanicità dell’obbedienza, alludente a quella di marionette i cui fili sono gestiti dall’opinione pubblica della cittá: un agglomerato di mezzi di comunicazione uniformante. La cura delle scene é di Gregorio Zurla.

Le musiche e i suoni di Gianluca Misiti, nonchè la drammaturgia delle luci di Max Mugnai, sono anch’essi sensuale corredo acustico di una messa in scena sapientemente versata nelle orecchie dello spettatore.

E che inizia così:

Roberto Latini

Ecco. Questi personaggi stanno per rappresentarvi la storia di Antigone…”.

L’ “Ecco” che apre il prologo è un vero e proprio “ecce homo”: come a dire “eccoli, guardateli, sono proprio questi personaggi qui, questi davanti a voi, che fanno la storia (oltre che il mito) di Antigone”. 

Ed é la voce solenne e suadente di Francesca Mazza che – come in un reportage esistenziale – ci rivela ritratti acuminati di personaggi assai riconoscibili: a noi vicini, prossimi.  

Vale qui la pena ricordare che Anouilh fu trascinato a scrivere la sua “Antigone” non appena appresa la notizia dell’atto del giovane Paul Colette – atto rivendicato senza porsi a rappresentante di alcuna idea politica – con il quale aveva attentato, senza fortuna, alla vita del vice di Philippe Pétain (che allora governava la Francia di Vichy) conquistandosi le percosse della polizia, una condanna e la deportazione.

Personaggi quindi – quelli annunciati nel prologo – che non hanno nulla di rassicurante: escono fuori dai confini della tragedia e ci vengono a graffiare. O ad accarezzare, complici. E ci sussurrano – spogliandoci delle nostre maschere – quali sono le ombre che ci costituiscono. E così, denudati, restiamo a guardarci.

Francesca Mazza

Accorgendoci come non ci sia davvero niente di rassicurante nelle nostre tenere e vigliacche esigenze di sicurezza. 

Intenzione dell’autore è  quella di non lasciarci “tranquilli”, come se la storia non ci riguardasse davvero, o come se ce la potessimo cavare con una rassegnazione furba: indifferenti, senza dubbi, senza turbamenti, “sempre innocenti, sempre soddisfatti di noi stessi e della giustizia… senza immaginazione”.

Intenzione dell’autore è contaminarci dell’urgenza ad andare a “scovare” – un pó come fa Emone – l’Antigone che è in noi, in tutti noi. Perché ora la nostra Antigone l’abbiamo nascosta “laggiù nel fondo” della nostra anima. Un pó troppo in fondo, forse. Come Creonte. 

Silvia Battaglio

Ma anche come Ismene: una sorella incline sí al conversare e all’omologarsi ma anche a quella meditazione solitaria propria del personaggio del “messaggero” (nella doppia partitura un’interessante Silvia Battaglio).

Solo ora, così predisposti gli spettatori attraverso un prologo spietatamente poetico, la recita può iniziare.

Manuela Kustermann

“Da dove vieni?” – è la voce insieme stridula e rauca della meravigliosa Nutrice di Manuela Kustermann, solo lei capace di intuire l’essenza volatile di un’ Antigone – “dal passaggio più leggero del passo di un uccello” – che fin da piccola piangeva pensando che c’erano tante bestioline, tanti fili d’erba nel prato e che non si poteva prenderli tutti. 

Lei, la Nutrice, una donna dalla sensibilitá ancestrale: “marmotta”  e “cane da guardia” si definisce. E si rammarica di non esser riuscita ad essere stata sufficientemente attenta nel controllare la “tana” da lei scavata. Sente, infatti, a qualche livello, l’attrazione pericolosa di Antigone per la notte, per il mondo di sotto. E questo “la manda in oca”: la rende goffa e confusa.

Sente che é una bambina che si sta improvvisando adulta, senza passare per l’adolescenza. Una piccola Antigone che non vuole avere ragione ma che si ostina a fare ció da cui si sente chiamata. Senza voler scendere a compromessi. “Ancora troppo piccola per tutto questo”: essere catturata e insieme essere per la prima volta se stessa.

Orgogliosa come “un piccolo Edipo”, Antigone é consapevole che il re di Tebe “deve” farla ammazzare “senza volerlo”. Perché questo significa essere un re. Ma, se oltre ad essere un re é anche “un essere umano”, deve farlo in fretta: solo questo lei gli chiede.

Creonte (qui, una coinvolgente Francesca Mazza)  comprende la richiesta di Antigone  e le confida: “avrei fatto come te, a vent’anni. È per questo che mi bevevo le tue parole. Ascoltavo dal fondo del tempo un piccolo Creonte magro e pallido come te e che non pensava ad altro che a dare tutto anche lui”.

Ora, invece, Creonte é un uomo che “gioca al gioco difficile di guidare gli uomini”. Un gioco difficile, il suo, non essendo guidato dalla passione ma solo dalla spinta all’esecutivitá, propria di “un operaio sulla soglia della sua giornata”. 

E’ un re che ha paura, Creonte, e che rimpiange la sua vita di prima: quella ribelle dei vent’anni e quella precedente alla morte di Edipo: una vita noiosa e libera da responsabilitá.

Non immune dalla paura é la stessa Antigone, che cerca il calore umano dello “sfregarsi” in un abbraccio, prima di ogni momento particolarmente difficile. E lo chiede apertamente: alla Nutrice ma anche ad Emone e finanche alla guardia (qui un’Ilaria Drago efficace in entrambe le partiture).

Ma un nuovo “Ecco” apre l’epilogo affidato alla vocalitá decisa e vellutata di Manuela Kustermann.

“Ecco, senza la piccola Antigone, è vero, sarebbero stati tutti più tranquilli. Ma adesso è finita”.

E ritorna l’attenzione puntata proprio su quei personaggi che Anouilh ci aveva posto di fronte al momento del prologo e che, senza la storia di Antigone, sarebbero stati “tranquilli”: senza turbamenti. Anche gli spettatori senza la storia dell’ Antigone di Anouilh sarebbero stati piú “tranquilli”: non sarebbero stati sollecitati a rispecchiarsi nelle diverse aree contrastanti del sentire dei diversi personaggi coinvolti nella storia.

Ma la vita non ci chiede di essere “tranquilli”, men che meno “indifferenti”, come invece fanno le guardie: atteggiamento con cui Anouilh non a caso chiude il testo. Loro si curano solo di giocare a carte, ovvero di giocare ai soldi.

Ma ogni fine contiene anche un nuovo inizio: é il senso del passato.

E allora Jean Anouilh chiude con un paradosso per dare vita a un nuovo enigma: chi sono coloro che invece di avere cura del rispetto della giustizia, amano giocare ai soldi?

Ma soprattutto: chi sentirá l’esigenza di decifrare questo enigma, di interpretarlo, di farlo risuonare in se?

Roberto Latini. Foto ©Masiar Pasquali

Attraverso questo spettacolo Roberto Latini ci fa dono, ancora una volta, di una splendida testimonianza dell’esigenza di prenderci cura di noi. Di tutti noi.

E lo fa indirizzando il nostro sguardo su chi – precedendoci – ha dovuto giá “scegliere le domande da infilare nelle tasche del tempo, dell’età, della speranza” –  come scrive splendidamente lui stesso, nelle note di regia allo spettacolo.

Domande che ci parlano di un desiderio che custodisce “una veritá vera, scomoda, incapace, parziale”. E cioé che “la nostalgia del vivere é precedente a tutti noi”.

Per questo, noi che ora siamo vivi, possiamo evitare di “dolcemente dimenticare” le tracce e le rovine lasciate da chi ci ha preceduti: é questo  quel “senso del passato” di cui questo Festival ha cura di parlarci. Perché quelle tracce e quelle rovine chiedono continuamente di essere riesaminate.

Perché il nostro passato – come ci ricorda Latini nel suo finale – é il risultato non solo delle scelte che abbiamo fatto, ma anche di quelle che NON abbiamo fatto.

Perché il passato é “un affare che ci riguarda”.

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Recensione di Sonia Remoli

DELITTI LETTERARI – Literary crimes -regia Massimo Popolizio

TEATRINO DELLE 6 LUCA RONCONI

13 Luglio 2025

68 Spoleto Festival dei Due Mondi

Cosa c’è di meglio – per ambientare dei delitti – del colore bianco, in apparenza così maliziosamente elusivo, eppure più terrificante del rosso sangue? 

Ricorda quella sorta di “bianchezza della balena” – di cui sapeva Herman Melville – il cui simbolismo cromaticamente bifronte rimanda un senso di inquietudine, che oscilla tra la riverenza e l’orrore.

Assai opportunamente la scena di Isolina Maranzano è totalmente bianca. Inclusi gli oggetti di scena. Uno spazio metaforico che allude alla nostra psiche che – proprio come il pigmento bianco – è data da una moltitudine di sfaccettature cromatico-emozionali. 

Perché al di là dell’illusione di candore, di ordine e di pulizia, il bianco è la somma di tutti i colori, di tutte le emozioni. E quindi nel bene e nel male, è il colore più “sporco”.

E così sono i personaggi di questo spettacolo: ciascuno magnificamente sporco e raffinatamente fangoso – come ci suggerisce la cromaticità dei costumi, curati da Gianluca Sbicca.  Tecnicamente l’effetto cromatico del “color fango”, infatti, può manifestarsi quale risultato della mescolanza dei vari colori, nel complesso tentativo di ottenere il bianco. E, così, il bianco s’intorbidisce.

Torbido è, infatti, ciascun personaggio: ognuno con una sua interessante ambigua cromaticità esistenziale, restituita efficacemente dall’estro interpretativo di ciascun attore. E sottolineata sapientemente dal disegno luci di Marco Guarrera

Nello spettatore arriva sempre più insinuante la sensazione che ciascun personaggio per motivi diversi “ci parli”: spesso infatti non siamo noi a leggere i libri, ma sono loro, i libri, a “leggerci”. E ci turbano, e c’inquietano. Eppure c’è qualcosa di irresistibile nel leggerli, nello specchiarvisi dentro. 

La mimica, la postura, il gesto, la prossemica degli attori sono qui eloquentissimi. E si danno, al di là del pudore, in tutta la loro stupefacenza, esaltata a tratti dal supplizio di una luminosità abbacinante. Tale da non risultare chiarificatrice ed accogliente ma capace di ferire gli occhi. Facendoci (edipicamente) vedere un po’ di più, chi siamo davvero.

La drammaturgia di Peter Exacoustos ha cura di fornirci un assaggio della nostra ontologica tentazione al crimine, così come narrata dalla Letteratura. Ma anche dalla stessa Bibbia. Nelle Favole. E la Storia, non è forse un continuo avvicendarsi di massacri tra popoli ?

Nel mondo animale non esiste crimine perché negli animali non esiste follia, né creatività. C’è solo la linearità dell’istinto, che si attiva se sollecitato da essenziali esigenze di sopravvivenza.

La violenza, invece, è una tentazione propria dell’essere umano, che si può manifestare nel momento in cui ci si trova in difficoltà nell’accettare la limitazione che l’esserci dell’altro ci evidenzia, mandando in frantumi l’illusione di poter essere il solo, l’unico, il tutto. Freud sosteneva che in ognuno di noi c’è “un inconscio criminale”, che attiviamo per eludere l’ostacolo del darsi della vita nella sua alterità. 

Concetto visualizzato efficacemente da quell’ossessivo movimento scenico – la cui cura è di Sandro Maria Campagna – che ritorna più volte all’interno dello spettacolo: quello del cercare di appropriarsi di uno spazio e poi di un altro, e di un altro ancora.

Concetto ancora ribadito e versato nelle orecchie dello spettatore attraverso il suono del vento, che continuamente turbina, come a ricordarci il poliedrico potere trasformativo (e distruttivo) della nostra libertà. E del nostro desiderare.

Chiude acutamente lo spettacolo, una carrellata di “Delitti esemplari”, ricordo della penna geniale e beffarda di Max Aub.

Il concetto di “esemplarità” parla molto di noi, o meglio della nostra presunzione di poter rendere straordinario l’ordinario. Il limite che costituisce “l’ordinarietà” del nostro stare al mondo, fin dai tempi dell’eden biblico ci risulta infatti inaccettabile. E quando crediamo che la nostra impotenza ci renda ridicoli agli occhi degli altri, allora può scattare in noi la tentazione allucinatoria di risolvere il dolore dell’ “ordinarietà” del limite con l’ “esemplarità” del crimine. 

Massimo Popolizio

Con meravigliosa leggerezza calviniana la regia di Massimo Popolizio sceglie di solleticare le corde dello spettatore su un tema che da sempre accompagna la nostra esistenza e che attualmente risulta particolarmente pungente. Ed è proprio della bellezza del Teatro porsi in ascolto sensibile della contemporaneità e ricordare in quali profondità, da sempre, abbiamo l’inclinazione a cadere. E come poter riuscire a disviare questa inclinazione.

Senza ricorrere a niente di “esemplare” alla Max Aub, l’effetto dello spettacolo è sì spiazzante, ma con sentori esilaranti. Il segreto sta infatti – sembra volerci suggerire Popolizio con il suo sguardo registico – nel continuare ad elaborare, e quindi a metabolizzare, la difficoltà che ci crea l’altro, senza ricorrere alla violenza del gesto. Ad esempio “spostando lo sguardo”, e veicolando l’imbarazzo del vedere come siamo, attraverso la profonda leggerezza del sorriso. Come qui sceglie di fare Popolizio.

Il “delitto” infatti ci parla di un “mancare” e di un “venir meno” non solo e non tanto rispetto ad una norma del vivere civile, quanto piuttosto di un venir meno del complesso percorso di elaborazione del pensiero. Perché riuscire a relazionarsi con gli altri – anziché sopprimerli quando ci sono d’ostacolo – implica l’elaborazione del fatto che non siamo tutto e non possiamo desiderare tutto.

Possiamo essere creature incomplete eppure meravigliosamente fertili, ci invita a ricordare anche lo stesso spazio del Teatrino delle 6 Luca Ronconi, inserito com’è nelle fondamenta di una struttura –  il Palazzo della Signoria – iniziata nel XIV secolo e mai terminata.

Uno spazio storico e insieme sperimentale, sede dal 2009 di un’annuale cantieristica di spettacoli dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”.

Uno spazio che nel 2015 è stato intestato a Luca Ronconi, grande Maestro della trasmissione delle arti sceniche ai giovani.


Recensione di Sonia Remoli

CALIBRO 45 – di e con Italo Carmignani

CHIESA DI SANT’AGATA

12 Luglio 2025

68 Spoleto Festival dei Due Mondi

Calibro 45 narra di vocazioni: di irrefrenabili dichiarazioni d’amore al giornalismo; di slanci appassionati che eccedono l’istinto alla conservazione.

Calibro 45 narra di fiducia e di riconoscimento nel valore dell’altro: che sia “il famoso” inviato, o “l’invisibile” fixer: l’intermediario locale, cui fanno ricorso gli inviati per addentrarsi nell’altrimenti intraducibile sistema di mediazioni e compromessi proprio delle zone di guerra.

Un interprete, il fixer, indispensabile per realizzare un efficace reportage, proprio come chi – a teatro – lavora dietro le quinte, con un ruolo centrale nella messa in scena di uno spettacolo.

Complesso monumentale di S. Agata – Spoleto –

Una postura esistenziale e professionale visualizzata meravigliosamente dalla location scelta per la messa in scena: l’ex chiesa di San’Agata, edificata “alle spalle” eppure “sulla scena” dell’adiacente Teatro Romano di Spoleto.

Calibro 45 è un acuto gioco di specchi, che si origina dal particolare posizionamento obliquo di un oggetto di scena: il tavolo dove va a sedersi Italo Carmignani. Di conseguenza lo sguardo dello spettatore è guidato a prestare attenzione (reale e metaforica) non solo a una visione frontale, ma anche laterale. Un guardare, insomma, utilizzando anche “l’angolo” della coda dell’occhio: più ricco in dettagli e sfumature emotive.

Italo Carmignani

La narrazione di Carmignani – al Messaggero dal 1998, inviato di cronaca e all’estero, autore anche di articoli di giudiziaria e di politica – si specchia sull’angolarità di questo tipo di sguardo, muovendosi lungo la frontalità “oggettiva” di un testo giornalistico e, insieme, tra le pagine “intime” di un diario privato.

L’effetto sullo spettatore – complice un efficace disegno luci e un insinuante contrappunto musicale – risulta profondamente trascinante.

Interno della Chiesa di Sant’Agata – Spoleto –

Carmignani dà prova – oltre che di un’appassionante scrittura – anche di un’interessante performance teatrale. Suoi “fixer” – in un ulteriore gioco di specchi – i drammaturghi Pierfrancesco Franzoni e Davide Novello‍; il supervisore artistico Danilo Capezzani; il produttore Compagnia Mauri Sturno. 

Anche loro, come i fixer giornalistici, al momento dell’invito a palesarsi (agli applausi), hanno scelto di non farlo. Ma Carmignani ha insistito, “indicandoli”: con il gesto e con la voce. Desiderando restituire loro il suo riconoscimento e la sua gratitudine per un lavoro d’ensemble.

Complesso monumentale di Sant’Agata – Spoleto –

Calibro 45 è un’indagine – che profuma di magnetismo e di adrenalina – sui paradossi dell’angolazione del vedere e del raccontare. Sulla precarietà della soglia tra ciò che è, ciò che appare e ciò che si sceglie di far apparire. 

Un crinale d’indagine sospeso fra la precisa ricostruzione e l’inchiesta, che elice un giudizio, o un’opinione. “Dentro al cuore nero della guerra”.

Italo Carmignani con la sua elettrizzante narrazione ci trascina nelle terre di guerra che ha attraversato: è, in un decisivo gioco di specchi, il nostro “fixer”.

E la sensazione, è quella che di lui ci si possa fidare.


Recensione di Sonia Remoli

L’AMORE NON LO VEDE NESSUNO – regia Piero Maccarinelli

– SPOLETO FESTIVAL DEI DUE MONDI 2025 –

27 Giugno – 13 Luglio 2025

CHIESA DEI SANTI SIMONE E GIUDA

11 Luglio 2025

L’avvincente bellezza de L’amore non lo vede nessuno di Giovanni Grasso – regia Piero Maccarinelli – conquista il pubblico del Festival dei Due Mondi di Spoleto 2025, invitato a godere dello spettacolo nella splendida essenzialitá della Chiesa dei Santi Simone e Giuda (edificata dai francescani dal 1254).

Al cospetto della bellezza descritta e inscritta in un tal luogo, lo spettatore non può non restare profondamente affascinato. 

Chiesa dei Santi Simone e Giuda a Spoleto

Come puó l’amore verso un’altra persona essere qualcosa di grave?
Da dove viene l’amore?


E come mai l’amore, pur tingendosi di atmosfere enigmatiche, di allegrezze crepuscolari, di annebbiamenti deliranti, resta una promessa d’aurora?

Giá dal prendere posto in sala, l’impianto scenico – curato da Piero Maccarinelli in collaborazione artistica con Fabiana Di Marco – induce lo spettatore ad adattare la vista ad una luminositá altra: fascinosamente intima, oscuramente psicologica.

Luminositá che nel corso dello spettacolo si dà in continue transizioni di assolvenze e dissolvenze – la cui cura é affidata a Javier Delle Monache – imbevute nelle raffinate e inquietanti composizioni musicali di Antonio Di Pofi.

Stefania Rocca é Silvia

Le coordinate spaziali del romanzo di Giovanni Grasso sono qui registicamente restituite attraverso due spazi fisici (un bar e un interno domestico) metafora di differenti aree della psiche della protagonista: Silvia, una Stefania Rocca dal fascino lunare; brillante e livida, terrea e vagamente irreale. E’ lei che, all’indomani dell’improvvisa morte della giovane sorella, avverte l’irrefrenabile esigenza di indagare sulla vita di Federica, avvolta in un enigmatico mistero da quando si trasferí dal piccolo paesino di provincia a Milano.

Silvia, inconsapevolmente, si trova – a seguito di questo evento traumatico – a scendere nelle profonditá misteriose della psiche non solo della sorella, ma anche di se stessa. E nelle sue ricerche si muoverá tra lo spazio sconosciuto di un bar – dove finirá per riflettersi nello sguardo narrativo di un misterioso P. – e lo spazio apparentemente familiare di un interno domestico (di casa sua), dove Silvia crede di rifugiarsi. Restando, in veritá, continuamente solleticata dallo sguardo, da vibrante detective, dell’amica Eugenia.

Stefania Rocca (Silvia) – Giovanni Crippa (P.)

Attraverso un intrigante gioco di domande con il misterioso sconosciuto P., intravisto al funerale della sorella (un irresistibile Giovanni Crippa, luminoso nella restituzione delle sue fragilitá) e con la poliedrica e fertile amica Eugenia (una solida ed emotivamente sfaccettata Franca Penone) Silvia si ritrova introdotta in una potente ritualità oracolare dove, chiedendo di sapere dell’altro, si arriva a conoscere se stessi.

Le simboliche coordinate spaziali del bar e del soggiorno della casa di Silvia sono poi immerse, dalla regia di Maccarinelli, in una particolare temporalitá scandita da un rituale trasformativo, efficacemente reso attraverso repentine assolvenze e morbide dissolvenze.

Stefania Rocca

La scelta di tali coordinate temporali – al di lá della funzione tecnica di passaggio da una scena all’altra –  si dà quale sensuale transizione di contrastanti stati emozionali, che si rivelano nella loro splendida e oscura coesistenza. 

Transizioni, ovvero progressive forme di consapevolezza interiore, ben visualizzate anche attraverso un seducente disegno prossemico. Nonché attraverso un graduale “cambiar pelle” della protagonista. La quale, apparentemente sempre piú intrigata dal racconto della vita misteriosa della sorella, vediamo riaccendersi in una nuova femminilitá cromatica, sia vocale che posturale. Un vero mutamento e arricchimento del suo habitus (modo di essere), completato da una loquace trasformazione delle scelte d’abbigliamento (la cura dei costumi é di Gianluca Sbicca).

Piero Maccarinelli , il regista

Far “coesistere” le nostre differenti spinte interiori (conscie e inconscie) significa infatti saper accogliere e tenere insieme, preferibilmente in amicizia, qualcosa di contrastante – ma proprio in quanto tale fecondo – che istintivamente invece vorremmo ricondurre all’univocacitá e all’esclusivitá. Per questo la complessa tensione a gestire la dualità propria del rapporto amoroso, ma anche del rapporto fraterno, e del relazionarsi con l’altro in generale, rischia facilmente di sfociare in manomissioni emotive e atteggiamenti manipolatori. 

E’ quello che accade a Silvia. Ma è anche quello che precedentemente era accaduto a sua sorella Federica e a P. Ognuno con il proprio vissuto personale, ognuno con un enigma esistenziale da sciogliere, da decifrare, da interiorizzare. Nell’attesa di imparare ad accettare se stessi, e poi gli altri, nel bene e nel male. Senza pretendere di conoscere tutta la verità.

Stefania Rocca



Non a caso fin da piccoli veniamo indirizzati verso il “gioco”: splendida metafora dell’imparare a tenere insieme il nostro “io” con quello degli altri, attraverso il rispetto di determinate regole. E non a caso, da grandi, continuiamo “a giocare” allacciando “patti”: come qui P. propone a Silvia, avendolo in qualche modo scoperto con Federica. 

Il “patto”, ancor più del “gioco”, richiede fiducia nell’altro e la fiducia è fondamentale per dare vita a una dualità che possa moltiplicarsi in una vera e propria comunità. Senza fiducia, infatti, non può esistere nessuna forma di socialità. E sebbene, per natura, l’uomo venga corredato alla nascita con un istinto alla sopraffazione per riuscire a sopravvivere, per vivere occorre imparare a fidarsi dell’altro.

Stefania Rocca e Giovanni Crippa



Fidarsi soprattutto del “diverso” da noi, di ciò che essendo così “straniero” sembra avere l’odore del nemico. Ma lo “straniero” è un ospite che chiede di essere accolto in noi. Lo scopre P. quando quella sua intransigenza verso gli incerti e i peccatori, arriva a viverla sulla propria pelle, nel momento in cui la vita gli mette Federica sulla sua strada.

Lo stesso “vissuto” della location scelta per mandare in scena le prime repliche di questo spettacolo – la Chiesa dei Santi Simone e Giuda – incarna perfettamente la spinta ad accogliere le diverse ospitalità trasformanti, che sono solite abitare la vita: oltre che chiesa é stata infatti caserma e parte del convitto per gli orfani dei dipendenti statali. Ed ora é spazio espositivo e spazio teatrale.

Ma anche il Festival dei Due Mondi di Spoleto é una fulgida testimonianza dell’apertura alle diversitá, essendosi originato dal desiderio di Giancarlo Menotti di far dialogare la diversitá del mondo culturale europeo con quella del mondo culturale americano.



Effetto allora di questo accattivante testo di Giovanni Grasso – sapientemente restituito dalla regia di Piero Maccarinelli – è quello di catturare lo sguardo emozionale dello spettatore, sospingendolo a continuare a dedicare tempo a interrogarsi non solo sull’enigma che lega i personaggi del romanzo ma anche, a qualche livello, sull’enigma della propria esistenza. 



Perché la Vita è un enigma, così come ognuno di noi è un enigma. 
Perché anche l’Amore è un enigma e così é la Morte: lo stesso necrologio che P. dedica a Federica ha la struttura di un enigma. 

E l’enigma, da sempre, chiede di essere decifrato. Chiede una vita di indagini su se stessi, attraverso la lente dello sguardo dell’altro. 

E questo é il messaggio che serpeggia in tutto lo spettacolo: sebbene le separazioni, i confini, le regole e le definizioni abbiano l’effetto di risultarci così rassicuranti – perché ci illudono di fare ordine nel disordine che ci costituisce – è il riuscire a mantenere “la coesistenza” delle nostre contrastanti spinte interiori che ci realizza come esseri umani. Che ci permette di offrire e di ricevere fiducia.

Fino ad arrivare, magari, a fare esperienza anche dell’Amore: attraverso quello “sguardo” che gli amanti sanno scambiarsi. Unica occasione – sostiene Sant’Agostino – in cui epifanicamente si manifesta, pur non vedendosi, l’Amore. 

-.-.-.-.-

Recensione di Sonia Remoli

CONCERTINO PER GLI SCONFITTI DALLA VITA – di Niccolò Fettarappa e Lorenzo Minozzi

INDIA CITTA’ APERTA

8 Luglio 2024

Stupefacente apertura dell’India Citta Aperta  – la proposta estiva del Teatro India – con il brillante e affilato concerto/spettacolo di Niccolò Fettarappa  e Lorenzo Minozzi.

Un elogio degli sconfitti “dalla” vita (e non “della” vita). 

Perché la vita attuale – canta con penetrante perspicacia il duo – rende i giovani “figli iper protetti” e necessariamente con un presente – nonché un futuro – da “sconfitti”. 

Ma lungi dall’essere unicamente una spietata analisi che – scivolando fatalmente su un piano inclinato di sempre maggiore aggressività – si limiti a “biasimare” una situazione di crisi, i due invece brillano per la loro tensione a combattere. E per “concertarsi” insieme al pubblico, così da condividere soluzioni surrealmente vivaci.

Perché “un concerto” è qualcosa che può caricarsi di una valenza non solo musicale ma altresì di un impegno politico-sociale. Significa cioè preparare e armonizzare più persone a compiere un’azione comune, così come preparare dei musicisti, o accordare gli strumenti, per l’esecuzione di un pezzo.  

In questo senso Niccolò Fettarappa e Lorenzo Minozzi, cantando del loro disagio, si fanno aedi della loro generazione. Le cui gesta – assai poco epiche – anelano ad una trasformazione. Possibile, appunto, soltanto attraverso una concertazione: un accordo comune che tuteli le diversità di ognuno.

Al calar del sole, sul paesaggio dall’archeologia industriale – di cui gli spazi non convenzionali del Teatro India sono uno splendido esempio di “fabbrica del teatro di domani” – si alza un canto solennemente scanzonato (le musiche sono di Lorenzo Minozzi e Niccolò Fettarappa) sullo stare al mondo da “sconfitto dalla vita” di Niccolò Fettarappa: “un poveraccio come voi”, che a 29 anni vive ancora con la mamma. Ma soprattutto è un tipo “un po’ bruttino e con la cervicale, che ha fatto questo concerto per dire che sta male”.

Il secondo “pezzo” della serata, introdotto dalle note blues di un’armonica a bocca, è un’ode di scusa alla mamma dove in prima persona Fettarappa si racconta: “non farò mai il concorsone, mamma, io mi iscrivo al Dams. Mamma, vieni qua, devi pagare l’università”.

Segue una paradossale riflessione esistenzialista di serendipity : “volevamo scrivere un concerto. Non ce l’abbiamo fatta. E’ uscita fuori una riforma delle pensioni”. E così – partendo dal presupposto che le prossime generazioni, ancor più della loro, rischieranno di non percepire pensioni – il duo propone una riforma che preveda l’assegnazione della pensione alla nascita, “visto che non abbiamo scelto noi di nascere”. A 60 anni poi, si potrà rinunciare alla pensione ed iniziare con il primo stage e con i tirocinii non pagati.

E ancora un pezzo sulla richiesta di essere inclusi nei fondi europei: “vorrei fondi europei, perché la paghetta di mamma non mi basta più… da bambino sognavo vitalizi … ma basta: non piangiamo più sul voto versato”.

Con profonda leggerezza Fettarappa passa poi ad un’esilarante quanto acuta analisi semiotica dei tormentoni estivi spagnoli, secondo i quali l’estate è un imperativo ginnico. Tutto un “bailar  esta noche sulla playa con una mano sulla colita”.

Esamina poi la tendenza all’amore tossico, al poli-amore, alla depressione, fino ad arrivare a cantare la conquista – improbabile – del ”bonus psicologo”: una paradossale epopea burocratica.

Ma il finale si fa prossimo e Fettarappa invita il pubblico ad avvicinarsi per confessare, con feroce ironia, una verità esistenziale, oggi ancor più invadente di sempre. 

Un  concertare – questo di Fettarappa e Minozzi – forte, prestante, vigoroso, vivace, intraprendente, risoluto, coraggioso, appassionato.

Insomma: rampante.

Uno spettacolo iconico di una generazione, che apre fulgentemente la proposta estiva di uno spazio “aperto” qual è quello del Teatro India, dove è possibile continuare a vivere la sperimentazione artistica, contaminandosi con nuovi linguaggi espressivi. Percependosi come “comunità”.

India Città Aperta è la proposta estiva del Teatro India,  promossa dalla Fondazione Teatro di Roma , in collaborazione con Dominio Pubblico ETS e curata dal direttore artistico Tiziano Panici.

Una proposta che prende vita dal desiderio di rendere lo spazio del Teatro India fertile al dialogo tra generazioni diverse e ai loro linguaggi, che spaziano tra teatro, stand up, circo, musica, cinema, podcasting, editoria. 

Un progetto che vuole animare l’estate dei cittadini romani, a cominciare dai bambini, attraverso laboratori ad hoc, per arrivare agli adulti, fino agli anziani.  È un modo per accogliere tutti, indistintamente, e immergere gli spettatori nella cultura, attraverso più di 50 eventi, che coinvolgono più di 100 artisti.

Una proposta che si dà come un’occasione per incontrarsi e celebrare la creatività. Percependosi come comunità che cresce attraverso l’arte e la cultura, sperimentate insieme agli artisti. Una comunità disposta a condividere, sentendosi coinvolta in ciò che vede. 

Dall’8 luglio al 3 agosto India Città Aperta, accoglierà i romani e i turisti che vorranno visitarla, con eventi che si articoleranno dal mattino alla sera, con un calendario ricco di esperienze immersive. 

Un fiume in piena – di arte, musica e poesia – nel quale immergersi e lasciarsi trasportare.

Complice l’iconico gazometro, protagonista dello skyline cittadino.


Recensione di Sonia Remoli

EDIPO RE – adattamento e regia Luca De Fusco

TEATRO ROMANO DI OSTIA

dal 2 al 6 Luglio 2025

Travolgente successo al Teatro romano di Ostia per la prima dell’ Edipo re di Sofocle nell’adattamento e regia di Luca De Fusco, traduzione Gianni Garrera.

Luca De Fusco

(ph. Tommaso Le Pera)

Uno spettacolo con Luca Lazzareschi, Manuela Mandracchia, Paolo Serra, Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta – in prima nazionale dal 2 al 6 Luglio – che inaugura la prima edizione del Teatro Ostia Antica Festival- Il senso del passato.

Lo sguardo dello spettatore – incastonato nell’area Archeologica degli scavi e insieme solleticato dall’invitante brezza salata del ponentino romano- inizia a fare esperienza di quella ritualità propria del rapporto tra libertà e necessità, di cui il testo di Sofocle – qui tradotto dal filologo Gianni Garrera – ha cura di descriverci.

Emerge così, dal crepuscolo estivo, una scena sempre più ammiccante e notturna. Modulata in diversi livelli di scale, che ospitano presenze simboliche. Alludenti a identità segretamente celate sotto la formalità borghese di tre cappelli magrittiani e in una testa in gesso velata, sempre di magrittiana memoria, splendida allusione al rapporto dell’uomo con la conoscenza. 

Una scena essenziale e simbolica – curata dall’elegante estro scenografico di Marta Crisolini Malatesta, qui artefice anche dei costumi – che richiamandosi alle potenzialità dinamiche insite in una concezione scenica visionaria come quella di Adolphe Appia, va al di là della mera messa in scena di un testo letterario. E si apre al potere della luce come elemento visivo, capace di creare un’atmosfera: mutando assieme alle azioni e alle emozioni dell’attore. 

Concezione scenica efficacemente in sinergia con l’estetica surrealista magrittiana, in grado di insinuare dubbi su oggetti, paesaggi ed esperienze della più concreta e banale vita reale, proprio attraverso un maniacale realismo espressivo. Ne scaturisce così un paradosso dall’illusionismo onirico, perfetto per dare ospitalità alla tragedia dell’Edipo re, così come immaginata dallo sguardo registico di Luca De Fusco. 

Ecco allora che, furtivamente, lo spettatore si trova calamitato in un misterioso avvio, che coincide con l’introduzione a una dimensione altra. Attraverso un disegno luci atmosferico e narrativo – la cui cura è affidata a Gigi Saccomandi – entra in scena il linguaggio onirico/inconscio della luce insinuante delle ombre, accompagnato dalla misteriosa cromaticità di una tessitura drammaturgica al violino – le musiche sono di Ran Bagno – il cui virtuosismo, incarna quel quid di trascendentale, fascinoso e conturbante.

Complice una creazione video-scenografica che, come uno specchio, rimanda e visualizza surrealisticamente l’habitat inconscio della psiche dei personaggi  – le splendide creazioni video sono opera di Alessandro Papa – anche lo spettatore viene gettato nella situazione traumatica della carestia e della successiva peste, in cui è immersa Tebe. Edipo è il re, e a lui le varie aree della sua psiche, nonché la popolazione di Tebe, chiedono salvezza, liberazione.

L’adattamento e la regia di Luca De Fusco partono da qui, per  concentrarsi sulla fragilità delle dinamiche conoscitive di Edipo, così simili alle nostre. Non a caso Freud fece della storia di Edipo il fulcro dell’esplorazione delle modalità psichiche umane. 

Luca Lazzareschi

L’Edipo di Luca Lazzareschi è magnifico nel suo darsi in una sventurata ostinazione, che però non smette mai di commuoverci. Perché ci appartiene intimamente. Ce ne parla la sua postura così solenne eppure così tormentata: tutta incentrata nella tensione tra il suo ergersi da sapiente, la sua falcata sicura e il suo modo poi di abbassare il capo, proprio di chi viene colto e avvolto dalla confusione e dal dubbio. E lui, anziché restare in questo tunnel di fertili incertezze tutte da esplorare, le scaccia per poi inevitabilmente imbattervisi inconsapevolmente. E poi c’è la sua vocalità: così chiara e piena di ritmo, sicura fino all’impertinenza. E poi arrendevole, mortifera e mortificante.

E ancora, atterrisce e affascina il relazionarsi chiuso di Edipo verso Creonte (qui un efficace Paolo Serra), con il quale non riesce ad allacciare un equilibrio di posizioni divergenti. Edipo è il primo detective nella storia del romanzo giallo – come la lettura registica di De Fusco sa sottolineare – ma la sua capacità di indagine è efficace solo formalmente: Edipo sa chiedere attraverso un editto, sa da chi può farsi aiutare per ricavare indizi dalle tracce, ma poi non ce la fa a scendere ad analizzare le loro profondità.  

Paolo Cresta (secondo Nunzio, secondo Corifeo) – Luca Lazzareschi (Edipo) – Alessandro Balletta (terzo Corifeo) – Francesco Biscione (primo Corifeo)

Incantevolmente struggente è la visualizzazione che di questo concetto ci offre la regia di De Fusco, quando sceglie di far prendere in mano ai tre Corifei (Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta) la testa di gesso velata. Per poi svelarla.

E’ una tendenza tutta umana, infatti, quella per cui ci si affanna nella curiosità insaziabile di sapere, per poi rimanere sorpresi nello scoprire che siamo capaci di sopportare solo piccole dosi della verità che ci si mostra.

Manuela Mandracchia (Giocasta) – Luca Lazzareschi (Edipo)

E’ l’effetto che ogni volta l’oracolo ha su coloro che a lui si rivolgono, come ad una sorta di arcaico psicoanalista, quando sono in una crisi tale che non sanno da dove cominciare a dipanare la nebbia dei dubbi. Ad esempio quando Edipo scopre di essere stato adottato: l’oracolo non risponde alla sua domanda su chi sono i suoi genitori biologici ma gli dice che è importante che lui consideri – e quindi metta in relazione con le sue aree psichiche migliori – anche la realtà che dentro di sé esiste una tendenza che lo spinge ad uccidere suo padre, per poi sostituirlo nel ruolo di marito con la madre. 

Ma Edipo è così turbato da non riflettere bene sul significato metaforico del consiglio. Lo prende invece alla lettera e crede che la cosa migliore sia sfuggire dai genitori adottivi. Così qui: quando Edipo manda Creonte a chiedere all’oracolo come fare per liberarsi dalla peste e poi ascolta il responso, inizia a fare fatica a rimanere concentrato sulle prime testimonianze. Perché sente che si sta avvicinando ad una verità grande, difficile da accogliere e da mettere in relazione con la propria autostima. Sente, che proprio nell’indagare, è se stesso che sta cercando. Ed è di straordinaria bellezza tragica. 

Luca Lazzareschi (Edipo, Tiresia, Servo di Laio, Nunzio)

L’acme del disagio si raggiunge con Tiresia – qui reso attraverso una seducente ed efficace proiezione video, che ne fa una creatura volatile che dondola imprigionata in una gabbia. Lui che era un esperto dell’ arte divinatoria analizzando il comportamento, il canto e la direzione del volo degli uccelli . Assai avvincente la sua vocalità: dalla musicalità cantilenante distorta, vagamente gracchiante eppure così divina. 

Nella profonda lettura di De Fusco anche Tiresia  – così come il Servo di Laio e il Nunzio, essendo coloro che a qualche livello conoscono la verità – divengono aree diverse della psiche di Edipo, le quali entrano in tensione con la prepotenza del suo ”io”. Che – come sosteneva Freud – “non è padrone in casa propria”. Infatti la tensione con l’area psichica rappresentata da Tiresia diviene così ingombrante, da far arrivare Edipo a sospettare un complotto contro di lui da parte dello stesso Tiresia e di Creonte.

Luca Lazzareschi (Edipo) – Manuela Madracchia (Giocasta)

Non lo convince a desistere dall’andare ciecamente avanti nella sua ricerca, neanche l’approccio di Giocasta (qui una suadente Manuela Mandracchia, meravigliosa nube cumuliforme), che versa nell’orecchio di Edipo il dubbio che in fondo gli oracoli non sono poi così puntuali. E che preferibile per lui sarebbe, scegliere “il meglio” piuttosto che “la verità”.

E così Edipo impara, e noi con lui, che nessuno in quanto “figlio” può essere padrone delle proprie origini. Tutti noi, sosteneva Jacques Lacan, veniamo al mondo “a mollo nel linguaggio dell’altro”. E il nostro primo “altro” sono i nostri genitori, dai quali Edipo non eredita altro se non un abbandono e un (mancato) infanticidio. Eredità che ripeterà, non accettando di “conoscere se stesso” nel bene e nel male, così come di non poter conoscere tutto. Tra l’altro, sostenere massicce dosi di verità non è affatto semplice: Jung diceva ai suoi pazienti psicotici che “è bene non aprire tutte le porte: quello che può uscire, rischia di catturare la mente senza restituirla”. 

Ma se è vero che per Edipo, e per noi umani, fare esperienza di “libertà” significa conoscere se stessi nel bene e nel male ed accettarsi, dietro ad Edipo c’è anche “il destino” che parte dalla violenza subita da suo padre da parte dei Dioscuri di Tebe e poi a sua volta ripetuta da Laio su Crisippo. 

E’ per questo che l’oracolo dice a Laio che, se avrà un figlio, ne verrà ucciso e diverrà lui marito a sua madre. E Laio anziché decifrare questo messaggio metaforico, pensa di evitarne gli effetti dapprima proteggendo i suoi rapporti e poi consegnando il neonato affinché venga ucciso. Edipo sopravviverà e quando, scoprendo di essere un figlio adottato ne andrà a chiedere informazioni all’oracolo, lui stesso cadrà nello stesso errore di non decifrare l’oracolo ma di sfuggirne gli effetti interpretandolo letteralmente. E così, sconvolgendo i rapporti “sociali” di parentela, Edipo – che aveva risolto l’enigma della Sfinge – finirà per darà origine lui ad altri enigmi, del tipo: “chi è colui che ha un padre che è anche un suocero? Chi è colui che ha una madre che è anche una moglie? Chi è colui che ha fratelli anche come figli? Tanto che, nelle “Fenicie”, Seneca mette in scena un Edipo vecchio e disperato a cui fa dire: “Se io da qui raccontassi ciò che ho fatto della mia famiglia, proporrei enigmi più inestricabili di quelli della sfinge”. 

(ph. Claudia Pajewski)

Accattivante lo sguardo registico di Luca De Fusco nel suo scegliere di indagare, fino a visualizzare negli occhi dello spettatore ciò che Edipo tende ad allontanare da sè.  

Lui stesso, il regista, un detective nel consultare e interrogare il passato.

Scoprendo di essere capace di cura e di responsabilità nel presente e nel futuro, così da tenere alta la consapevolezza di chi siamo, da dove veniamo e fino a dove abbiamo la possibilità di spingerci.

Per non perdere niente di ciò di cui è fatta la nostra vita. Niente e nessuno. 

Da questo sguardo di cura sul passato che si riflette sul presente, prende forma anche il desiderio della realizzazione del Teatro Ostia Antica Festival-Il senso del passato: il Festival che a Roma ancora non c’era e che è stato fortemente immaginato da Luca De Fusco – ci confida Il Presidente della Fondazione Teatro di Roma Francesco Siciliano nel suo discorso di apertura, alla prima di “Edipo re”. Un nuovo inizio a cui la comunità romana ha risposto con grande entusiasmo.


Dopo i grandi successi dei primi due appuntamenti

“’Antigone di Mendelssohn” direttore Francesco Lanzillotta 

e

“Edipo re” per l’adattamento e la regia di Luca De Fusco

il Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato

prosegue con

“Antigone” di Jean Anouilh per l’adattamento e la regia di Roberto Latini. 

il 18 e il 19 Luglio 2025


Recensione di Sonia Remoli

LA CANZONE DI TETI – L’Iliade, l’amore e la guerra – regia Joele Anastasi

PARCO ARCHEOLOGICO DELL’APPIA ANTICA

27 giugno 2025

Una seducente ed oscura melodia al basso elettrico inquieta gli incantevoli spazi del Mausoleo dedicato a Cecilia Metella, immerso nel leggendario Parco Archeologico dell’Appia Antica. Complice un insistente refolo di vento, la melodia si diffonde persistentemente tra il pubblico, trasportando nell’aria sentori di un imminente cambiamento. Che sa di passato. Che sa di presente.

Mausoleo di Cecilia Metella

Dopo 10 anni si conclude una guerra: gli Achei entrano a Troia e le loro  fiamme uccidono tutto e tutti: indistintamente. Qualcuno fugge. E sarà proprio “un rifugiato” a fondare la città di Roma: Enea, che con sé è riuscito a portare il padre Anchise e il figlio Ascanio.

Mausoleo di Cecilia Metella: lo spazio scenico e la platea

Ci parlano di guerra – non solo quella descritta nell’Iliade – una giovane donna (la fantasmagorica Paola Balbi) e un giovane uomo (il poeticamente tenebroso Davide Bardi), diretti da Joele Anastasi – che non hanno vissuto personalmente l’esperienza della guerra ma che l’hanno “sentita raccontare”. Ieri e oggi.

Ad esempio dai loro nonni. 

Ad esempio da donne come la storyteller palestinese Fidaa Ataya e la storyreller libanese Sarah Kassir, che ora vivono in zone di guerra. 

Ma anche da uno storyteller della Martinica –  Valer’Egouy – che ha aiutato il cast a comprendere le dinamiche psicologiche e sociali della schiavitù. 

Le loro testimonianze sul campo sono entrate costantemente ad impreziosire questo interessante progetto di storytelling di e con Paola Balbi e Davide Bardi: “La Canzone di Teti”, un’audace commistione di storytelling, epica e impegno sociale.

Paola Balbi e Davide Bardi

Uno spettacolo che lega la guerra di oggi a quella di ieri attraverso il racconto di una madre: Teti, la madre di Achille. La sua “canzone” – ovvero il suo racconto poetico, cromaticamente musicato dai diversi ritmi del tamburo, del basso elettrico e dell’armonica a bocca e incastonato nella bellezza sacra di un rito – ci chiama tutti in causa, ci coinvolge, ci tocca nel profondo. Parla di noi. 

Parla di noi come individui appartenenti ad una comunità. 

Paola Balbi e Davide Bardi

E lo fa attraverso la magia del “racconto”, che si fonda sul desiderio di entrare in relazione con l’altro: in uno scambio immediato.

Una ritualità che pone l’accento sulla parola, prima magia dell’uomo. Attraverso la quale avviene la genesi dell’impossibile, che passa per l’intonazione della voce, per la scelta dei verbi, per il ritmo del respiro su cui si regge il suono.

Davide Bardi e Paola Baldi

Si dice che l’uomo prima di parlare abbia cantato, che prima di scriver prosa abbia fatto poesia. Perché tra l’uomo e la poesia c’è un rapporto naturale, fatto di un camminare con occhi pieni di meraviglia.

Che è un pó il modo di stare al mondo del “pellegrino”: dello straniero, dell’errante che compie un viaggio in luoghi sacri e profani. Fuori e dentro di sé.

L’edizione di quest’anno del Festival Internazionale di Storytelling  – evento ideato e organizzato dall’associazione culturale Raccontamiunastoria, la cui direzione artistica è curata da Paola Balbi e da Davide Bardi – è stata infatti intitolata “Muse e Pellegrini”, anche in connessione con il Giubileo 2025, trasformando così Roma in un crocevia si storie, culture e spiritualità.

Prossimo evento

conclusivo del Festival Internazionale di Storytelling

Domenica 29 Giugno 2025 ore 20:00

“Soltanto io ti amo: Pietro e Maria Maddalena”

Performance di Storytelling/Sacra rappresentazione di e con Paola Balbi e Davide Bardi

presso la Basilica di San Sebastiano Fuori le mura (via Appia Antica, 136)

Il racconto appassionato ed emozionante di un pescatore con una famiglia ed una vita normale e di una prostituta con un passato di sofferenza e miseria. Due storie di infuocato amore, grande passione e profonda tragedia, ambientate in un’epoca tormentata dalla guerra di conquista, dalla fame e dalla violenza. Due personaggi in netto contrasto, ma uniti dall’enormità degli eventi che scossero le loro vite. Concrete, forti, emotive, le storie di Maria Maddalena e Pietro parlano di spiritualità passando per i cinque sensi, facendo sentire al pubblico la profondità delle acque su cui Gesù camminò e la polvere che qualcuno lavò dai suoi piedi.


Festival Internazionale dello Storytelling:

un’occasione unica

per perdersi nel potere delle storie

ritrovare il piacere dell’ascolto

e

vivere Roma come non l’avete mai vista.


Recensione di Sonia Remoli

L’ANTIGONE DI MENDELSSOHN – direttore Francesco Lanzillotta

Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato

AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA ENNIO MORRICONE

23 Giugno 2025

Straordinario successo all’Auditorium Parco della Musica per l’Antigone di Mendelssohn – musiche di scena per la tragedia di Sofocle: direttore Francesco Lanzillotta, narratore Massimo Popolizio, maestro del Coro Andrea Secchi.

Un appuntamento di spiccata rilevanza artistica e culturale – nato dalla collaborazione tra l’Accademia Nazionale Santa Cecilia e il Teatro di Roma – per restituire alla scena un’opera rara e affascinante come L’Antigone di Mendelssohn: una delle opere più singolari del repertorio romantico nel suo coniugare la potenza del linguaggio musicale con la profondità del testo di Sofocle, nella traduzione tedesca di Jacob Christian Donner. 

Un’opera fortemente significante, anche nell’attuale momento storico, scelta per inaugurare la Stagione Estiva dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e il Teatro Ostia Antica Festival, Il senso del passato.



Un passato a cui ritornare per rispondere alla sua richiesta di essere continuamente ripreso, rianalizzato, riletto. Perché c’è sempre qualcosa di vivo nel passato che chiede continue ricostruzioni inedite.

Concertata da Francesco Lanzillotta – uno dei direttori d’orchestra più interessanti nel panorama musicale italiano; tra i più apprezzati della sua generazione e regolarmente ospite di importanti compagini orchestrali – l’esecuzione dell’Orchestra e del Coro maschile dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha trascinato il pubblico in sala in un’esperienza – colma di entusiastica passione – all’interno dell’intensità del mito e del fragile stare al mondo degli uomini.



Merita di essere ricordato che le musiche per L’Antigone di Mendelssohn sono state eseguite dal vivo solo una volta prima di questa occasione: nel 1986, quando l’Orchestra ceciliana le ha portate in scena all’Auditorium Pio, sotto la direzione di Marcello Panni.

M° Francesco Lanzillotta – Massimo Popolizio

Dal guizzo liquido e affilato si è rivelata la riflessione carismatica indotta sullo spettatore dagli interventi del narratore Massimo Popolizio, che hanno abilmente regolato il flusso della relazione tra musica e testo. Stimolando nello spettatore un autentico interrogarsi al cospetto del mare del passato, ancora così vivo e inquieto nel presente. 

Ma il dono più grande che la partecipazione a questa esperienza di teatro musicale lo spettatore custodirà con sé è l’aver sperimentato come si può vivere la drammaticità della tragedia con meravigliosa passione entusiastica. 



Quell’entusiasmo che sedusse Felix Mendelssohn durante le prove finalizzate alla prima messa in scena del 28 ottobre 1841: “ora abbiamo due prove al giorno – scriveva in una lettera – e i cori sembrano esplodere: è una vera gioia. Il compito in sé è stato meraviglioso e ci ho lavorato con grande piacere”. 

Quell’entusiasmo che presso i Greci era la condizione di chi veniva invaso da un furore divino: l’indovino, il sacerdote, il poeta. Ma anche l’uomo. Perché l’entusiasmo è un sentimento di potenza suprema: un invasamento che ci pone in contatto con la parte divina che è in noi. Quel fervore impareggiabile, che è arcaicamente religioso e poetico, musicale e profetico, trascendente e confitto nel corpo.

Felix Mendelssohn



Mendelssohn sa con la sua musica provocare nello spettatore gli effetti di quest’energia, sublimandoli con echi romantici dal temperamento elegiaco, quale più alta espressione dell’arte come sentimento. Dove si raggiunge la sintesi tra commozione individuale e idealizzazione della realtà. 
Un esempio meraviglioso di questa speciale cifra stilistica viene proposto allo spettatore attraverso la figura di Antigone, interpretata da Simonetta Solder in tutta la passionalità arcaica di bimba cantilenante, dai contorni taglienti quasi di sacerdotessa.

Massimo Popolizio – M° Francesco Lanzillotta – Simonetta Solder



Ma un’altra fulgente dimostrazione di questo stile ci viene restituita attraverso l’adattamento del testo recitato realizzato da Gianni Garrera – filologo, traduttore e  studioso di riferimento in italia di Søren Kierkegaard – dove ad esempio il suicidio di Antigone viene metaforicamente paragonato al poetico dondolio di un’altalena. 

E ancora, un altro fascinoso esempio è rintracciabile nell’Introduzione, dove viene stabilito il conflitto tra Creonte e Antìgone, tra Stato e individuo. Qui inizialmente si ascoltano accordi solenni in ritmo puntato (associati al sovrano Creonte): un Andante maestoso che viene bruscamente interrotto da un cambio di tempo, che introduce una sezione in ritmo ternario. Un Allegro assai appassionato che, nel tratteggiare il carattere di Antigone, segue uno sviluppo del tutto personale. 



La composizione delle musiche di scena op. 55 per la tragedia di Sofocle è il frutto dell’incontro del più classico dei musicisti romantici con il più classico dei tragici greci. Nell’ ambiente culturale germanico l’Antigone costituiva l’esempio più perfetto di teatro, che i Greci ci avessero lasciato. 

Il progetto originario prevedeva un’orchestrazione esclusivamente composta da strumenti che avessero degli equivalenti nell’antichità greca: il flauto (per l’aulo antico); la tuba e l’arpa (in sostituzione della lira). Le parti cantate poi dovevano essere affidate ad un coro maschile, che avrebbe seguito una linea rigorosamente monodica. Ma il regista, letterato e scrittore Ludwig Tieck dissuase l’amico Mendelssohn a procedere in tal senso: evidente era il rischio di una musica eccessivamente piatta e monotona rispetto ai gusti del tempo. 



Mendelssohn rinunciò allora al suo proposito originario virando sull’uso di un’orchestra dove le parti corali venivano affidate ora ad un coro maschile, suddiviso in due semi cori con complessive quattro parti: due affidate ai tenori e due ai bassi. Complessivamente il coro constava di 16 cantori (diversamente dall’uso dell’epoca di Sofocle, che ne prevedeva 15) con un capo coro (un tenore o un basso) cui venivano affidate parti da solista. 

Mendelssohn musicò per intero poi quei brani corali – momenti centrali dell’azione tragica – che fungono da intermezzo tra un episodio e l’altro: il parodo, i cinque stasimi e la parte finale dell’esodo. 

Ad aprire la partitura, una compatta Introduzione: Andante maestoso – Allegro assai appassionato.

“Il senso del passato” è il tema portante del Teatro Ostia Antica Festival, di cui L ’Antigone di Mendelssohn è lo spettacolo di apertura. Restare in dialogo con il passato è infatti lo snodo di questo testo sofocleo, nonché dell’avvincente spettacolo di teatro musicale, diretto da Francesco Lanzillotta.

Un passato che ci chiede di essere continuamente guardato, ascoltato, per divenire nuovo spunto di rilettura e quindi anche nuova riflessione sul presente. 

Ce ne parla con struggente entusiasmo l’adattamento di Gianni Garrera, dove trovano ospitalità le insistenti richieste di Antigone – ma anche di Creonte, qui interpretato da Christoph Hülsen – affinché non solo i cittadini di Tebe ma anche gli spettatori si rendano disponibili a farsi “testimoni” della situazione dilemmatica, nella quale sia lei che Creonte si sono trovati ad essere protagonisti. 

Simonetta Solder (Antigone) – Christoph Hülsen (Creonte) – Alessandro Budroni (La guardia, Il servo, Corifeo)

Frangente esistenziale non così lontano dai dilemmi contemporanei. Tanto che, a qualche livello, lo spettacolo di teatro musicale diretto da Lanzillotta tende a sottolineare quegli elementi del testo originale che lo rendono quasi “un processo” relativo ad un fatto di cronaca contemporanea.

Parallelamente, lo spettacolo risulta associabile anche ad una rievocazione sacra della passione di Antigone, scandita dalle stazioni annunciate dagli interventi narrativi di Massimo Popolizio: “Qualcuno ha seppellito…”; “E’ stata riconosciuta…”; “Ora Antigone percorre l’ultimo tratto viva …” ecc.  

Massimo Popolizio

Perché una delle domande che il testo ci rivolge è: 

Come si fa a tenere insieme una comunità, quando qualcuno non si riconosce più intorno a certe parole, come “stato di diritto”?  

Ma anche:

Come si fa a tenere insieme una comunità, all’indomani di una guerra, quando un capo politico si trova in difficoltà nel gestire “le differenze” e – per evitare l’effetto contagio nonchè la perdita della proprio reputazione – è tentato di ricorrere alla violenza? 

Voi spettatori cosa fareste? – sembra chiederci Sofocle.

La risposta ovviamente non può essere univoca ma andrà cercata di volta in volta nella pratica politica. Ma vale la pena chiedersi: qual è il principio che può guidare la politica nell’avere la sensibilità di capire quando e come mettere “confini” e quando invece è necessario “incontrarsi” sul confine? 

Gianni Garrera

L’adattamento di Gianni Garrera prende forma proprio intorno al diverso modo di abitare il concetto di confine, da parte degli uomini. “Superare i limiti è l’insensatezza” ma il desiderio dell’uomo tende ad eccedere. Errare è quindi umano, ma ostinarsi è qualcosa che può accecare e che rischia di farci desistere dall’impegnarci a trovare “le parole” più adatte per esprimere il nostro disagio. Orientandoci piuttosto verso “il silenzio” e quindi verso la violenza dei gesti. E non riuscendo spesso a riconoscere, noi umani, che la saggezza umana non può mai essere “totale”, anziché continuare a confrontarci per incontrarci in qualche punto del confine delle differenze che ci separano, siamo spinti dall’odio a credere di poter esercitare un diritto alla violenza sull’altro, o su noi stessi. 

Ad abitare, da viva, il confine della morte è condannata Antigone, per aver sollevato il problema se la morte di un “nemico” dello Stato possa essere oggetto di cura (di sepoltura) da parte di un familiare. E quell’accoglienza alla sua richiesta che non trova spazio in Creonte – che ricorda un po’ quel mancato cedere il passo su cui si scontrarono Edipo e Laio – Antigone è convinta che le verrà riconosciuta nel mondo sotterraneo di Ade, luogo di residenza di Dike (dea della giustizia). Ed è così che il desiderio di sepoltura raggiunge in Antigone un’ostinazione tale – sordo com’è ad ogni tipo di dubbio e alla cura verso la propria vita – da divenire un desiderio di morte.

Ma la capacità di decisione di Antigone non è libera dai lacci arcaici del suo γένος (ghénos = stirpe, famiglia). La narrazione di Sofocle infatti prende avvio da un antecedente fratricida – ancora una volta legato ad un mancato cedere il passo all’altro – consumato sulle mura di Tebe. E Sofocle scrive che i due fratelli di Antigone – Eteocle e Polinice – sono caduti di “reciproca” morte, “condividendo” una pozza con lo “stesso” sangue. Un sangue speciale, diverso: incestuoso, chiuso. Sangue di una famiglia dove i confini sociali sono saltati: dove un fratello (Edipo) può essere anche un padre. E dove una sorella, Antigone, può dire a Creonte che lei può farsi legge a se stessa: una legge tutta sua, della sua stirpe edipica, che sovverte l’ordine “normativo” della vita della società.

Andrea Secchi (maestro del Coro) – M° Francesco Lanzillotta (direttore)

Ma, al di là dei lacci arcaici che imbrigliano Antigone al suo destino, Sofocle sembra volerci chiedere:

come ci si educa al passaggio da individui a cittadini, da famiglia a società? 

Un dilemma nel quale anche noi siamo stati recentemente chiamati in causa, in occasione della crisi pandemica, dove abbiamo sperimentato come nessuno si salva da solo e che anche chi ci è prossimo può esserci “nemico”.

Hegel nei “Lineamenti di filosofia del diritto” immaginava che un passaggio graduale dalla sfera individuale a quella pubblica potesse avvenire attraverso l’istituzione scolastica.

Ma anche il Teatro, da sempre, si dedica a svezzarci da “figli” al rango di “cittadini”. 

Lo stretto legame fra il teatro tragico del v secolo a.C. e la politica ateniese ne è un dato di fatto, largamente condiviso. E quello di Sofocle impegnato nell’educare la sua Atene – splendida ma anche piena di contraddizioni – é il profilo di un moderato vicino, per mentalità e ideali, ai ceti aristocratici ateniesi, propenso a collaborare con la democrazia periclea, ma al tempo stesso costantemente impegnato a segnalare al suo pubblico le debolezze intrinseche di quel sistema e i rischi di una sua degenerazione.


Ecco allora che questo interrogarsi sul “senso del passato” che ci propone il Teatro Ostia Antica Festival diventa oggi più che mai necessario. E l’entusiasmante Antigone di Mendelssohn diretta da Francesco Lanzillotta, ne è stata una luminosa occasione di riflessione.


Il prossimo appuntamento del

Teatro Ostia Antica Festival

Il senso del passato

sarà

al Teatro Romano di Ostia Antica

dal 2 al 6 Luglio

con Edipo Re di Sofocle
traduzione Gianni Garrera
adattamento e regia Luca De Fusco


Recensione di Sonia Remoli