Roberto Herlitzka: serata in ricordo del talento e della genialità del grande attore

TEATRO BASILICA, 11 Novembre 2024

Si vive tentando di entrare in relazione con qualcuno. Autenticamente. Qualcuno con cui continuarsi a guardare, con curiosa meraviglia. E non si muore davvero se la vita, passando nella morte, continua a generare nuovi inizi. 

La morte di Roberto Herlitzka germoglia meraviglia. Così come era avvenuto in vita. Pur avendo vissuto con ostinata precisione la sua missione teatrale, non smetteva infatti di risultare imprevedibile. E’ la qualità di alcuni: quelli che hanno scoperto il loro desiderio vitale e se ne sono lasciati guidare. Con generosità.

Ieri sera al Teatro Basilica ci si è ritrovati per ricordarlo: una mostra fuori scena accoglie scatti di Tommaso Le Pera, che riescono a raccontare suggestivamente il silenzio di Herlitzka.

Ad una platea gremita di inquieti – desiderosi di occasioni in cui venire a contatto con la sua unicità – si sono resi testimoni del meraviglioso contagio herlitzkiano  il critico teatrale Rodolfo Di Giammarco, il regista Antonio Calenda, il regista cinematografico Marco Bellocchio, l’autore e regista Ruggero Cappuccio. Ciascuno di loro ha scelto di condividere emozioni, sentimenti, frammenti di lavori, aneddoti dell’uomo e dell’artista. Tutti splendidi. 

Ma ciò che davvero si rendeva tangibile, ieri sera, era la sincera meraviglia verso il talento di un uomo e di un artista, che continua a darsi con fertilità in chi lo ha conosciuto.

Antonio Calenda, che ha condiviso con Roberto Herlitzka oltre 50 di vita a teatro, ci ha rivelato di aver individuato in lui lo “Spirito Tutelare del Teatro Basilica”.  

Perché Roberto Herlitzka è “una costruzione sentimentale” e “un moltiplicatore di sogni” ( Ruggero Cappuccio);  è colui che “sa lasciare un segno nel farsi della parola” (Antonio Calenda); “è l’evento della parola” (Marco Bellocchio); “é ossigeno di alta montagna” (Rodolfo Di Giammarco).

Roberto Herlitzka, nella sua delicata “selvatichezza”, nel “darsi implicito” dei suoi sentimenti, c’era sempre: si percepiva la sua attenta presenza.  Anche ora, se ci voltiamo a cercarlo, lui continua a guardarci. Con quel suo piglio meraviglioso. Al quale non vogliamo rinunciare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo NOTTE MORRICONE – regia e coreografia Marcos Morau – Musica Ennio Morricone – Direzione e adattamento musicale Maurizio Billi – Sound design Alex Röser Vatiché, Ben Meerwein –

TEATRO ARGENTINA , 24-26 Ottobre Romaeuropa Festival – 27 ottobre 10 Novembre 2024

Al centro di una scena nuda, con corde e mantegni a vista, campeggiano delle pareti di lavagna sovrascritte con del gesso: è un luogo della mente, quella di Ennio Morricone, con il  suo vissuto in formazione. Nuove nozioni ed emozioni si stanno inscrivendo anche ora. Mentre intorno scorre la vita. 

L’estro visionario di Marcos Morau – recentemente nominato Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dal Ministero della Cultura francese; selezionato come miglior coreografo dell’anno 2023 dalla rivista tedesca TANZ, e ad oggi il più giovane coreografo ad aver ottenuto il Premio Nazionale di Danza, il più alto riconoscimento in Spagna – sta mandando in scena la visualizzazione dell’attività creativa di Ennio Morricone. 

Marcos Morau

E nel farlo immagina di donare corpo e anima ai suoi percorsi mentali ed emozionali facendo interagire sinergicamente tra loro – grazie alla preziosa complicità dell’accattivante corpo di ballo, composto dai 16 danzatori del Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto, diretto da Gigi Cristoforetti – le musiche del Premio Oscar, la danza, le arti visive e suggestioni cinematografiche. 

Ed è grazie a questa esplorazione della geografia psichica di Morricone che scopriamo come il linguaggio creativo del suo inconscio attinga nutrimento sia dal mondo onirico che dal linguaggio del gioco degli scacchi, di cui Morricone era fortemente appassionato.

Entrano allora in scena pensieri contrastanti, a cui prestano corpo i danzatori (guidati da Leonardo Farina e Giovanni Leone) in una coreografia di combattimento, dove l’energia di ciascuno si esprime per primeggiare, vincere. Proprio come nel gioco degli scacchi. 

ph. Christophe Bernard

In questo caos creativo sentiamo Morricone chiedersi “come fare per comporre una nuova melodia? A cosa credere ed affidarsi? Dove invece non va persa la testa?“. 

Ecco allora che – per effetto di una straordinaria pulsione di disagio creativo – la scena si apre e con essa i confini della razionalità creano un varco: Morau ci sta visualizzando il passaggio dal linguaggio razionale della logica, al linguaggio enigmatico dell’inconscio.

Dal crepuscolo iniziale, la cui luce tenue e diffusa  ancora contemplava tracce di razionalità, si passa ora al buio notturno, habitat dell’area linguistica più inconscia. Ma non mancano passaggi luminosi anche esplosivi, resi da un disegno luci straordinario. 

ph. Christophe Bernard

E si fa strada un pianoforte a coda, i cui martelletti sembrano ossessivamente impazziti, come posseduti da qualcosa che ha urgenza di farsi sentire e che trascina con se il pianoforte e Morricone stesso, nell’atto di creare.

I danzatori si fanno tasti che sembrano scappare presi in vortici, rombi, vibrazioni, associazioni di idee. E viene spontaneo l’andare con il pensiero a qualcosa di simile che avveniva attraverso sistemi rumoristici anti-musicali nelle improvvisazioni del collettivo “Nuova Consonanza”, di cui fece parte anche Morricone: quei suoni portati ai loro estremi e quegli strumenti valorizzati anche nel loro essere “oggetti”.

“Serve aprirsi a orizzonti nuovi” – dice la voce di Morricone – “per riuscire a trovare soluzioni sempre nuove e quindi originali”. Lui lo definisce riuscire a realizzare una sorta di “collage”, alludendo alle contaminazioni fra le arti. 

E questo è anche il principio ispiratore dello stupefacente lavoro in scena di Marcos Morau, scelto per sviluppare questo singolarissimo omaggio a Morricone. Ed è così che Morau raccoglie con fedele tradimento tutta l’eredità sincretica di Morricone e ne diviene uno splendido testimone.

Ma ora la forza creatrice in scena prende molteplici direzioni: si fa giostra. E i ballerini sono le tensioni che fanno ruotare l’artista e il suo strumento musicale.

Una tempesta creativa che sembra placarsi e che prima di andarsene crea sinapsi: i danzatori riescono a visualizzarci fascinosamente queste connessioni attraverso movimenti di un’articolazione così fluida da sembrare quasi metafisica. 

ph. Christophe Bernard

E ora, è il momento della verifica sonora delle sinapsi appena create. Di come cioè il corpo e la mente dell’artista siano mutati a seguito di questa invasione creativa dionisiaca. Ed è strabiliante vedere come in una specie di esame ecografico i microfoni sfiorano le varie zone del corpo dell’artista per auscultarne i nuovi rimandi musicali. E quando lo scorrimento del microfono si fa veloce e continuo, le diverse sonorità si avvicendano, dando vita ad una nuova base melodica su cui poter lavorare. 

E il risultato di queste sinapsi sempre nuove e straordinariamente originali porta Morricone verso i riconoscimenti ufficiali: è di nuovo la voce di Morricone a fare il suo ingresso, dicendo che per lui ogni riconoscimento è un punto di partenza per fare ancora meglio. Era il 2007, quando dalle mani di Clint Eastwood riceveva l’Oscar alla Carriera, accolto da un’interminabile standing ovation.  E nove anni dopo, è arrivato il riconoscimento dell’Academy per la migliore colonna sonora, per il film The Hateful Eight di Quentin Tarantino.

Tutto questo è reso possibile perché “il mio più grande desiderio – continua Morricone  – è riuscire sempre a sorprendere”. E l’applauso che ne deriva “riesce ad appagare un mio trauma di bambino”.

ph. Christophe Bernard

Il ricordo del trauma si fa tempesta: le pareti mutano i loro confini e danno origine a nuovi habitat, che coinvolgono anche la platea. E dal rosone del lampadario di sala partono fulmini. 

Torna la voce di Morricone a confidarci che tutto ciò che lui aveva dentro di più urgente lo ha raccontato in musica: dal far risuonare la disperazione, al voler scoprire e riprodurre il suono della coscienza, in bilico tra cieca fede e disobbedienza.

Fino a rendere la sua musica capace di tradurre tutto ciò che non si riesce ad esprimere a parole. Una musica che proprio per il suo carattere di esplorazione dell’intimità collettiva, fa salire un nodo alla gola, ascoltandola. 

Le tracce di Morricone scelte per lo spettacolo sono state registrate dall’Orchestra Cherubini, diretta da Maurizio Billi, musicista, amico e collaboratore del compositore. Vengono rievocati così il tema  d’amore di Nuovo cinema Paradiso, quello di Deborah da C’era una volta in America, il tema de La Califfa, On earth as it is on heaven da The Mission, The man with the Harmonica da C’era una volta il West, e ancora Se telefonandoHere’s to you, canticchiata dai danzat

ori a fine spettacolo. Motivi che nello spettacolo si intrecciano al sound design elettronico di Alex Roser Vatiché e Ben Meerwein , a stralci di discorsi di Morricone fino alle parole dal vivo dette dai danzatori.

Ma più di tutto – conclude Morricone – volevo sapere che suono ha un uomo, quando nessuno lo guarda”.

ph. Christophe Bernard

La genialità avanguardista di Marcos Morau riesce a rintracciare e a rendere, con una meravigliosa plasticità in movimento, un nuovo modo per esplorare il potere dell’intimità collettiva, continuamente generativa, propria della musica di Ennio Morricone. In un luogo nuovo, il Teatro.



Ieri sera era il compleanno

del grande compositore, direttore d’orchestra e arrangiatore 

Ennio Morricone (10 novembre 1928 – 6 luglio 2020)

Lui, oltre ad essere uno dei più importanti, prolifici e influenti compositori cinematografici nella storia della musica, era anche un Uomo con la sua quotidiana straordinarietà e con i suoi legami familiari. E ieri sera proprio a coronamento di questa ultima replica dell’omaggio a lui tributato dalla magnifica creazione di Marcos Morau e in occasione dei festeggiamenti per il suo compleanno, è avvenuta la presentazione del libro Ennio Morricone. Il genio, l’uomo, il padre” di Marco Morricone e Valerio Cappelli (Sperling &Kupfer 2024).

La presentazione è stata moderata da Fabrizio Roncone, scrittore e giornalista del Corriere della Sera. Ospiti d’eccezione: Monica Guerrritore, Michele Placido, Gabriele Lavia, Claudia Gerini e i loro racconti inediti, che hanno svelato il lato più umano e personale del Maestro. Valentina Morricone, nipote di Ennio, ha letto degli estratti dal libro di Marco Morricone e Valerio Cappelli. Erano presenti in sala Maurizio Billi, direttore d’orchestra e storico collaboratore di Ennio Morricone e Gigi Cristoforetti, direttore del Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto. 

Un momento di grande commozione che ha contribuito a rendere ancor più presente tra noi

il Maestro e  l’Uomo Morricone.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione della presentazione-spettacolo del libro LE FAVOLETTE DI WITTGENSTEIN di Giuseppe Manfridi –

EDIZIONI EFESTO, Collana Satyrikà, 2024

Libreria Koob, 9 Novembre 2024

Prolungati in uno stato di frizzante sospensione, ci siamo lasciati guidare negli spazi favolosamente reali, immaginati dagli interrogativi preferibilmente insoluti di Giuseppe Manfridi, uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo. 

Suoi complici in questa presentazione filosoficamente poetica, il rinomato critico teatrale e giornalista Marcantonio Lucidi e Dario Pisano, esperto di italianistica e divulgatore dei classici della letteratura italiana.

Marcantonio Lucidi

Dario Pisano

Il ritrovo per questa Festa del Pensiero era nella sala sotterranea della Libreria Koob di Piazza Gentile da Fabriano, 16: una libreria in purezza, deliziosamente accogliente.

Ingresso della Libreria Koob

L’occasione era quella di poter incontrare, in un felice tardo pomeriggio del novembre romano, l’autore del libro “Le favolette di Wittgenstein”: Giuseppe Manfridi.

Come anticipato dal tratto sagacemente raffinato dei disegni di copertina di Antonella Rebecchini, Manfridi immagina – esaudendo un desiderio irrealizzato di Wittgenstein – di proseguire il suo “Tractatus logico-philosophicus” con una raccolta di piccoli componimenti umoristici. 

Antonella Rebecchini, Giuseppe Manfridi

“Le favolette” sono infatti delle brevi e vivaci creazioni dove Manfridi narra in maniera sapientemente semplice verità fascinose, perché digressive. L’allontanarsi momentaneamente e in maniera mirata dal prevedibile, rende infatti l’ascolto e la comprensione disponibili al piacere irresistibile dell’imprevedibile. E la verità racchiusa nella favoletta se dapprima predispone al sorriso, poi indugia ad aleggiare nella mente e nel cuore di chi legge, in una sorta di solletico metafisico.

“Le favolette” non essendo ancora state scritte da Wittgenstein sono ciò che davvero è degno di importanza per Wittgenstein.  Quello di Manfridi è un Wittgenstein “picaro del positivismo” affascinato dall’incomprensibile. Non comprendere, infatti, al di là dell’essere un deficit, è un fecondo stato d’animo che permette alle cose di restare belle. Attraenti.

Ludwig Wittgenstein

Veniamo a conoscere così che “la favoletta” preferita da Marcantonio Lucidi, critico dal guizzo fertilmente polemico, è quella del “francobollo”, massimo esempio di come l’arte di Manfridi riesca a contattare in un istante ciò che il ragionamento logico catturerebbe solo dopo una lunga trattazione. 

Dario Pisano invece è impareggiabile nel suo fiorire dentro le dissertazioni attraverso improvvisi slanci, nei quali propone citazioni poetiche imprevedibilmente calzanti. E tutte rigorosamente a memoria.

Perché la fertilità è sempre nell’imprevedibile, nel non ancora conosciuto. E “Le favolette di Wittgenstein” di Giuseppe Manfridi ne sono un luminoso esempio.

Giuseppe Manfridi

Da questa momentanea interruzione della Festa del Pensiero – perché come ama ricordare Manfridi “nulla finisce, tutto s’interrompe” – siamo usciti pieni di stupore, guardando alla realtà così com’è: un luogo delle meraviglie, da immaginare più che da catturare. 

Una realtà indissolubilmente legata al desiderio che qualcosa accada.

Qualcosa di miracoloso.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo REGINE DI CARTONE – di Marina Pizzi – regia Silvio Giordani

TEATRO MARCONI, dal 7 al 17 Novembre 2024

Chissà perché alla fine dello spettacolo – andato in scena ieri sera dal palco del Teatro Marconi – viene quasi da invidiare le tre barbone in scena. 

Che strano. Ma perché? Che cosa hanno in più?

Sanno entrare in relazione tra di loro, pur essendo molto diverse.

Sanno ascoltare e interessarsi davvero l’una dell’altra.

Sanno aiutarsi a vicenda nel decifrare la vita. 

Insomma: sono la testimonianza di una comunità ben riuscita. 

E quando arrivano ad esserne consapevoli anche loro, concordemente scelgono di strappare l’ultimo gruzzolo di soldi. 

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina), Maria Cristina Gionta (Ruvida)

(ph. Tommaso Le Pera)

Uno spettacolo che è una carezza in uno schiaffo (il testo è di Marina Pizzi, la regia di Silvio Giordani) : condizione necessaria per spingerci a riflettere. A non passare oltre. 

In fondo non sono mica persone così diverse da noi: sono intelligenti, belle, simpatiche. Brillanti, nonostante la polvere che le ricopre. E, come noi, insicure. 

Ma più sfortunate, perché abbandonate e lasciate ai margini: fuori dalla vita sociale “ufficiale”, fuori dalla loro famiglia di origine. A loro è toccata in sorte la realizzazione della paura che assilla tutti noi: rimanere soli dopo una disgrazia, un errore, una disavventura. Essere abbandonati. Per sempre. 

Marina Pizzi, l’autrice, scrive un testo davvero fascinoso: dapprima ti sequestra l’attenzione trascinandoti in una realtà surreale, quasi da teatro dell’assurdo. Tanto che le due barbone in scena, Regina e Tonta, ricordano quella tensione di “ansia, freddo buio e vuoto” anche di Vladimiro ed Estragone (“Aspettando Godot” di S. Beckett).

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Poi però il loro Godot arriva, anche se non se ne rendono conto subito: è Ruvida. E’ lei quella che desidera più intensamente realizzare una nuova famiglia e quindi un’autentica comunità: una polis. 

Una realtà aggregativa con valori specifici e comuni, dove i componenti desiderano il bene comune della collettività stessa. Perché si sentono parte integrante ed insostituibile della comunità. A tal punto da applicare i principi della fratellanza a quelli della collettività extra-familiare. Nasce così un piccolo popolo unito, forte e vigoroso, che si riconosce nella comunità e si prende cura della stessa. 

E sembra alludere all’estinzione di questo tipo di popolo l’incipit con cui Regina (un’Angiola Baggi di una luminosa raffinatezza fantasmatica) apre lo spettacolo, quando dice: “Dov’è finito? Non può essere scomparso…”. “E’ una barbarie con i fiocchi” – aggiungerà Tonta. E ancora Regina: “mi piacerebbe cambiare odore”.  

Perché se avere un odore significa avere un’identità, volerlo cambiare allude ad un desiderio di evoluzione. Anche Tonta desidera qualcosa di simile (una dolcissima e acuta Mirella Mazzeranghi che al di là del suo definirsi campata in aria come un anacoluto è invece assai consapevole): lei ama i nastri e i lacci. Rossi. Ama i legami, ciò che unisce. Ma che può anche soffocare. Come purtroppo è successo a lei. Eppure vale sempre la pena riprovare, ricominciare.

Maria Cristina Gionta (Ruvida), Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Anzitutto restituendo il giusto potere alla “parola”: prima magia nelle mani dell’uomo. E’ la bellezza del racconto. E del raccontarsi: “non ho più nessuno da chiamare” – confida Regina a Tonta. Ma inaspettatamente nella loro dualità si fa spazio un terzo elemento. Lei è più giovane, più propositiva, solo apparentemente aggressiva: è Ruvida (una Maria Cristina Gionta efficacemente graffiante). 

“Colazione, pranzo o cena qui?” – è il suo modo di presentarsi, di chiedere permesso, di dare un ordine alla tentazione del disordine. Le altre due sono sospettose, sono tentate a chiudersi tra loro appoggiandosi l’una sull’altra. Ma poi Tonta ricorda a Regina che non è efficace “appoggiarsi” a qualcuno, perché se poi quel qualcuno si sposta, si cade e si resta soli. Meglio imparare a contare su se stessi pur stando insieme. E allora con un balzo Ruvida – tenendo a bada il suo fare felino: “Insieme qualsiasi cosa si affronta meglio, no?”.

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Maria Cristina Gionta (Ruvida), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Ed è sorprendente vedere come partendo da un piccolo nucleo si possa fondare una comunità su basi “solide”.

E il tema della “solidarietà” chiama in causa, oltre alla nostra educazione sentimentale, anche le nostre conoscenze di geometria.

Se infatti la “solidarietà” si fonda sul sostegno reciproco, in geometria ogni parte di un “solido” é tale perché tenuta salda da tutte le altre. Quando non ci curiamo di qualcuno in difficoltà, generiamo una faglia nel solido, che tale non è più. E’ l’aiuto reciproco il cemento del corpo in cui viviamo. Perché “una società solidale” è “una società solida”.

La sapiente e audace regia di Silvio Giordani porta in scena un tema scomodo, affrontato con quella giusta dose di mistero e di ironia, tale da predisporre lo spettatore ad un ascolto più denso.

Quindi solido.

E’ in scena al Teatro Marconi fino al 17 Novembre 2024.

Mirella Mazzeranghi, Maria Cristina Gionta, Angiola Baggi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo OMAGGIO A GLAUCO MAURI – Lettura del “De Profundis” di Oscar Wilde – progetto a cura di Andrea Baracco –

INTERPRETE della serata di Mercoledì 6 Novembre 2024: FEDERICA FRACASSI

TEATRO TORDINONA, dal 30 Ottobre al 9 Novembre 2024

Dopo essere stata il 31 ottobre u.s. alla seconda delle 10 serate “Omaggio a Glauco Mauri”, nate dal desiderio di Andrea Baracco – direttore della Compagnia Mauri Sturno – di celebrare il ricordo del caro Maestro a un mese dalla sua morte, ho sentito l’esigenza di tornare ieri sera, alla settima serata. 

L’interprete del “De Profundis” di Oscar Wilde – ultimo lavoro a cui si appassionò il Maestro Mauri – ieri sera era lei: Federica Fracassi, un’attrice che non si dimentica, una donna dalla bellezza botticelliana. 

Federica Fracassi

Ma lei, come per incanto, per riuscire a farsi vivere da questa occasione, oscura ogni femminile seduzione, dandosi nel suo più fulgente maschile. Trattiene il suo corpo, incluse le mani. E se qualche ciocca si ribella uscendo sul viso, la riordina senza alcuna malizia femminile.

Si concede una densa dolcezza fatta di pause e di sguardi ricchi in compassione. Quasi sorpresi. La voce è bella: senza essere femmina, senza essere virile. E’ pulita, depurata. Buca l’attenzione. 

Di femminile resta in lei quell’innata inclinazione all’entrare in relazione con l’altro.Ed è proprio questa predisposizione alla relazione a caratterizzare la sua traduzione interpretativa dello Wilde del “De Profundis”. 

Oscar Wilde

In questo senso va letta la dolcezza con la quale si rapporta alla metabolizzazione degli errori del suo Bosie – passati in rassegna anche qui, nella lettera a lui indirizzata, oltre che nella sua mente. Un dolore nel ricordarli che può tradursi in compassione, solo dopo aver capito e sentito che negli errori di Bosie si specchia anche una parte di se stesso, a lui prima ignota. 

E se la sua autorealizzazione – che Wilde raggiunge grazie ad un’elaborazione introspettiva fornita proprio dall’occasione del carcere – si dà ora in quella compassionevole gratitudine che gli permette di dire – con la straziante, complice dolcezza della Fracassi: “Stavo bene quando eri via”; nella rievocazione della cronaca dei fatti fin nelle minuzie, invece, la Fracassi rintraccia e restituisce una particolare volontà a rifuggire la tentazione all’indugio. Un affascinante contrasto del ritmo del sentire, davvero umanissimo. 

Così come, a volte, l’espressività della Fracassi sembra  farsi “coltello”, per continuare – ancora nel racconto – a disegnare più precisamente alcuni suoi errori. Fino quasi a tatuarne un segno, una traccia indelebile.

Si fanno, invece, sussuro d’indulgente vergogna i momenti di confessione per aver trascurato l’inclinazione artistica a favore del rapimento amoroso. Ma sbagliando – o facendo solo il bene dell’altro – e quindi provando ed elaborando la sofferenza che ne deriva, si diventa coscienti di se stessi. Una sorta di cogito, questo di Wilde: “soffro dunque sono”.

E forse è così. C’è qualcosa di speciale che si attiva anche nello spettatore, nel partecipare alla rievocazione dell’esperienza esistenziale dell’ultimo Wilde. 

Andrea Baracco

Complice la progettualità di Andrea Baracco, che ha individuato questa modalità di rituale che di sera in sera, d’interprete in interprete, riesce a restituire quella “sinfonia del dolore” che Wilde mirabilmente compone, anche tra le lacrime. 

Quelle che continuano a farci commuovere – trattenute in un tremore all’apertura della lettera e poi sciolte per un attimo nel congedo – nell’indimenticabile interpretazione di Glauco Mauri.

Avvenuta  epifanicamente per una sera al Teatro Rossini di Pesaro e rievocata ogni sera in questo straordinario rituale.

Mimmo Benassi e Glauco Mauri

Recensione dello spettacolo ASPETTANDO RE LEAR – regia Alessandro Preziosi –

TEATRO QUIRINO, dal 5 al 17 Novembre 2024 –

PATO srlTeatro Stabile del Veneto e Teatro della Toscana
presentano


ALESSANDRO PREZIOSI
NANDO PAONE
ASPETTANDO RE LEAR
di Tommaso Mattei
da William Shakespeare


opere in scena Michelangelo Pistoletto


costumi Città dell’arte/Fashion B.E.S.T
Olga Pirazzi
Flavia La RoccaTiziano Guardini
musiche Giacomo Vezzani
supervisione artistica Alessandro Maggi

personaggi e interpreti
Re Lear Alessandro Preziosi
Gloucester Nando Paone
Kent Roberto Manzi
Cordelia Arianna Primavera
Edgar Valerio Ameli

regia ALESSANDRO PREZIOSI

Il sipario si apre su una scena apparentemente abitata da oggetti, in verità ridotti al loro essere perimetro. 

Sono le stupefacenti opere visionarie di Michelangelo Pistoletto, perfette per raccontare il carattere di ambiguità dei nostri anni ma anche degli anni tra Cinquecento e Seicento: il periodo più straordinario vissuto dall’Inghilterra. Un periodo colmo di quel grandissimo dinamismo che incluse la terribile incertezza legata al tema dell’autorità e del suo fondamento. 

Ecco allora che le opere d’arte di Pistoletto si rivelano preziose per poter accogliere ed interpretare temi legati al delicato rapporto tra tradizione e innovazione; tra l’essere e il nulla; tra l’uomo e la natura; tra padri e figli.

Arianna Primavera (Cordelia-Matto) – Alessandro Preziosi (Re Lear)

Il Re Lear di Alessandro Preziosi siede sul perimetro di una struttura-trono a due posti: uno per lui, l’altro per la figlia che “dirà” di amarlo di più. Non sarà Cordelia, la sua preferita: per un errore di interpretazione tra realtà ed apparenza, tra generosità e possesso, Lear non riconoscerà nelle parole di Cordelia la prova del suo immenso amore.

Ecco allora che Cordelia, ripudiata, siede in un canto, sul perimetro di un angolo: prossemicamente distante dal Re.  Ma è solo un’apparenza. Lei continua a mantenere una vicinanza con il padre attraverso il canto: essenziale gioco linguistico che prende la forma di strambotti (piccoli componimenti poetico-satirici popolari) e dove racconta dell’amore fallace di un padre per le sue figlie. 

E nonostante l’odio accecante di cui vorrebbe “rivestirla” suo padre, lei continua ad indossare la sua generosa attitudine ad amare, che la spinge ancora a desiderare restargli vicina. Per poterlo consigliare, aiutandolo a vedere e a rendere in qualche modo fertile il suo peggio: la parte più inaccettabile di se stesso. 

Arianna Primavera (Cordelia-Matto) – Alessandro Preziosi (Re Lear)

Ma per poter realizzare questo suo desiderio deve necessariamente vestire nuove sembianze: sceglierà allora quelle insospettabili del Matto.

La drammaturgia di Tommaso Mattei – l’autore, produttore e coordinatore editoriale che assieme ad Alessandro Preziosi e ad Aldo Allegrini nel 2005 fonda la compagnia di produzione teatrale Khora.teatro – realizza un adattamento contemporaneo del testo shakespeariano con un evidente richiamo ad un altro testo: l’ “Aspettando Godot” di Samuel Beckett.  

Mattei sceglie poi di concentrare la narrazione intorno alla scena – spaccato esistenziale – della Tempesta, per approfondire con particolar cura il rapporto tra padri-figli, oggi così attuale.

A rendere magnifica la singolarità di questa messa in scena è la sinergica multidisciplinarietà tra Arte contemporanea e Teatro. 

Michelangelo Pistoletto e Alessandro Preziosi

E’ l’acuto declinarsi della vis drammaturgica, registica ed interpretativa con la poetica propria delle opere del percorso artistico di Michelangelo Pistoletto.

Una poetica che passa anche attraverso quel fecondo disequilibrio creativo che pervade la realizzazione artistica dei costumi iconici del Maestro – realizzati dal collettivo Fashion B.E.S.T. con materiali sostenibili – fino a risuonare nelle musiche composte da Giacomo Vezzani, ora subdolamente insinuanti, ora dal fermento di un rock epico. 

Perché tutti gli elementi scenici vivono una trasformazione, parallelamente alla trasformazione esistenziale di un uomo: Lear il rappresentante dell’inquietudine di un’umanità, inserita in un particolare contesto storico in evoluzione, in crisi, in tempesta. 

Ecco allora che il corpo dei gesti e della vocalità del Lear di Preziosi lascia andare in frammenti la rigida fissità dell’offesa, per s-catenarsi in un disordine che arriva a toccare il fondo dell’essenza umana. Anche i suoi occhi si denudano, rivelando una brace che spaventa e inevitabilmente eccita e infiamma tutto ciò che guarda. 

Alessandro Preziosi è Re Lear

Ma dalle rovine, dalla cenere, si fa strada un’energia che riesce a contattare l’esigenza di un nuovo inizio. Anche provvisorio: un’occasione di speranza. 

Complice di questa discesa agli inferi, non totalmente distruttiva e quindi tale da rendere possibile la successiva risalita – è la fertile follia di cui si veste Cordelia (una multiforme e piena di grazia Arianna Primavera) per continuare a sostenerlo in questa travolgente e necessaria trasformazione.

Una trasformazione che, in un mirabile flusso di disordine vitale, passa – come dicevamo – attraverso l’interazione con le opere d’arte sceniche, attraverso la sapiente suggestione delle splendide composizioni musicali di Giacomo Vezzani  e quindi anche attraverso i costumi. Che da favolosi abiti finiscono per darsi come materializzazione di “habiti” (di modi di essere, di maschere) di cui progressivamente si spoglia l’apparenza di ciascun personaggio in scena. Fino a riuscire a contattare, ciascuno, la propria nudità (opportunamente rappresentata dal restare vestiti di ombre), necessaria per poter ricominciare. 

Nando Paone è Gloucester

Un movimento che è sinonimo di maturazione: una maturazione a cui i due padri in scena, Lear e Gloucester (qui incarnato in un Nando Paone ricco in densità interpretativa) arriveranno anche grazie alla complicità di quei figli e amici che loro avevano disconosciuto come “illegittimi” (valida l’interpretazione di Valerio Ameli nelle vesti di Edgar; efficace il conte di Kent di Roberto Manzi).

“Essere maturi è tutto” – fa dire Shakespeare a Edgar – alludendo alla capacità umana di vivere e di morire, consapevoli che l’esistenza non è, malgrado tutto, solo il gioco capriccioso degli dei  né il palcoscenico dei pazzi. Ma un complicato cammino verso una verità che si rende oscura, ma che comunque esiste e alla quale si può attingere. Con compassione, solidarietà e amore. 

Perché ciò che davvero conta, forse, non è “Godot/Lear” ma “l’Aspettando”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione della conferenza-spettacolo QUANDO LA SCIENZA FA SPETTACOLO -Dialoghi tra Scienza ed Arte

TEATRO ARGENTINA, 3 Novembre 2024 : ACQUA

QUANDO LA SCIENZA FA SPETTACOLO

Dialoghi tra Scienza e Arte – II edizione, 2024
Acqua, Aria, Terra, Fuoco
4 Elementi per 4 Domeniche

Federica Rosellini, Enrica Battifoglia, Roberto Danovaro

Entra in scena: il suo scorrere è musica. 

E già solo all’udirla, ci idrata. 

E’ lei: l’Acqua.

Suoi narratori nel viaggio-spettacolo che si è tenuto ieri al Teatro Argentina sono stati Roberto Danovaro, Presidente della Fondazione Patto con il Mare per la Terra; Enrica Battifoglia, giornalista scientifica Ansa; Federica Rosellini, attrice, scrittrice e regista teatrale.

E un po’ come rispondendo all’invito inscritto sul frontone del Teatro Argentina – “Alle arti di Melpomene, di Euterpe e di Tersicore” – i tre narratori si sono avvicendati sulla scena “cantando”  – su variazioni – il potere di questo elemento naturale: l’Acqua.

Teatro Argentina

La giornalista Battifoglia ha giocato il ruolo di stimolare sinapsi tra la trascinante narrazione scientifica del Prof. Danovaro e l’ammaliante interpretazione di testi letterari da parte di Federica Rosellini.

Enrica Battifoglia

Se dal  Prof. Donovaro apprendiamo come l’acqua sia insieme sfuggente ed invadente ma anche 830 volte più densa dell’aria e quindi capace di trasportare suoni,

Roberto Danovaro

la Rosellini  ci incanta nel trovare e nell’insufflarci nell’occhio e nell’orecchio la magia di un corrispettivo letterario in Eraclito (filosofo greco vissuto tra il VI e il V secolo a. C. ): 

“Dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua nasce l’anima. È fiume, è mare, è lago, stagno, ghiaccio e quant’altro. È dolce, salata, salmastra, è luogo presso cui ci si ferma e su cui si viaggia, è piacere e paura, nemica e amica, è confine ed infinito, è cambiamento e immutabilità, ricordo e oblio.”

E a seguire propone un ulteriore corrispettivo in Emily Dickinson:

“Come se il mare separandosi
svelasse un altro mare,
questo un altro, ed i tre
solo il presagio fossero

d’un infinito di mari
non visitati da riva
il mare stesso al mare fosse riva
questo è l’eternità”.

E qui, nel suo interpretare, la Rosellini stessa diventa “mare visitato da riva”: nel suo ritmo se ne sente tutto il separarsi e lo svelarsi ripetuto.

Federica Rosellini

E poi è di nuovo il Prof.  Danovaro a illuminarci su come il mare, che esiste prima di ogni altra forma di vita, sia la porzione meno conosciuta del nostro pianeta. Quello che sappiamo sugli oceani ad esempio è solo qualcosa di “epidermico”: facciamo fatica a scendere più in profondità. E se da un lato la scienza è un continuo superamento di se stessa,  il mare – che unisce e spaventa – è la più grande sfida per noi umani: cambia continuamente e si rivela spesso illusorio prevedere l’andamento di questo “personaggio principale” della nostra storia.  

Qui, la Rosellini risponde al richiamo della Scienza con un brano tratto dal “Moby Dick” di Melville:

 “Ogniqualvolta mi accorgo di mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull’anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi alle agenzie di pompe funebri o pronto a far da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l’umor nero mi invade a tal punto che soltanto un saldo principio morale può trattenermi dall’andare per le vie col deliberato e metodico proposito di togliere il cappello di testa alla gente – allora reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare. Questo è il sostituto che io trovo a pistola e pallottola”.

E poi, ancora,  con “Mediterraneo” di Eugenio Montale:

“Antico, sono ubriacato dalla voce ch’esce dalle tue bocche
quando si schiudono come verdi campane
e si ributtano indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t’era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l’aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro, mare,
ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro.

Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento del mio cuore
non era che un momento del tuo;
che mi era in fondo la tua legge rischiosa:
esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso”.

Qui l’ interpretazione della Rosellini ci rapisce in un modo nuovo: assumendo la musicalità di un canto medioevale a due voci.

Il Prof. Danovaro allora – riallacciandosi all’ultimo verso di Montale – ci ricorda che noi deriviamo dall’Acqua come l’ultimo dei suoi materiali di scarto. E se è vero che il mare da sempre è il luogo del mostruoso, è altresì vero che se noi respiriamo, lo dobbiamo proprio agli oscuri e mostruosi abissi, che producono quel fertilizzante di cui poi si nutrono le alghe. 

Qui la seducente ambiguità del mare viene resa dalla Rosellini con un canto come di sirena, che ci incatena non appena accenna le prime note di “By This River” di Brian Eno. 

Federica Rosellini, Enrica Battifoglia, Roberto Danovaro

E poi tanto altro ancora, in un crescendo pieno di meraviglia: come se “i tre 
solo il presagio fossero
/d’un infinito di mari/non visitati da riva/il mare stesso al mare fosse riva/questo è l’eternità”.

I tre narratori Roberto Danovaro, Enrica Battifoglia, Federica Rosellini con le loro parole, nate da interrogazioni, esplorazioni e da un generoso desiderio di condivisione, ci hanno fatto assaporare infatti – pur nella nostra  finitudine – il gusto dell’eternità.


I prossimi appuntamenti con i restanti 3 elementi della natura si terranno:

domenica 1° dicembre 

Aria 
Massimiliano Pasqui, ricercatore Istituto di Bioeconomia del Cnr 

Lorenzo Pinna, giornalista scientifico e autore Superquark 

Letture poetiche Donatella Finocchiaro

domenica 15 dicembre 

Terra 
Carlo Doglioni, Presidente Ingv 

Enrica Battifoglia, giornalista scientifica Ansa

Letture poetiche Lino Guanciale

domenica 12 gennaio 

Fuoco 
Salvatore Passaro, ricercatore dell’Istituto di Scienze Marine del Cnr 

Guido Ventura, ricercatore dell’Ingv 

Lorenzo Pinna, giornalista scientifico e autore Superquark 

Letture poetiche Silvia D’Amico


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA VEGETARIANA – regia Daria Deflorian –

TEATRO VASCELLO, dal 29 Ottobre al 3 Novembre 2024 –

La fine regia della Deflorian – già dal prendere posto in sala – ci invita ad entrare in confidenza con un insolito spazio.

Una scena che è anche un luogo della mente: uno spazio del teatro dell’inconscio, dove non trovano ospitalità i principi della logica. 

Uno spazio vuoto: necessario per potersi riempire di tutto. 

Uno spazio senza sostegni – senza mobilio – senza legami, senza nette identità. Così, ogni cosa è libera di poter essere anche altro.

Uno spazio “sporco”, “imbrattato”: uno spazio che si lascia vivere, che si apre alle contaminazioni.  Dove bene e male possono essere limitrofi.

Uno spazio totalmente libero. E quindi anche inquietante.

Gabriele Portoghese (il marito) e Monica Piseddu (Yeong-hye la vegetariana)

Fin dalle prime battute prende corpo uno dei temi portanti della regia, così come dell’omonimo testo di Han Kang (Premio Nobel per la Letteratura 2024): la nostra incredibile difficoltà ad entrare in relazione con l’altro. Autenticamente: senza farne qualcosa di “confortevole”. Piuttosto provando a rendersi disponibili ad apprezzarne la sua irriducibile differenza da noi.

Quella “eccezionalità”, quella “straordinarietà”, che tanto ci affascinano ma che risultano così difficili da gestire quando proviamo a farle entrare in relazione con le nostre fragilità. Diversità così difficili da tollerare, perché occasioni di ricerca di nuovi equilibri. E quindi di necessarie crisi.

Monica Piseddu è Yeong-hye (la vegetariana)

Conseguentemente ad un trauma, la protagonista crede di poter risolvere l’inquietudine che il trauma le ha provocato smettendo di cibarsi di carne. 

Una decisione fuori dall’ordinario, ricca di quell’eccezionalità che dicevamo essere così difficile da accogliere nella nostra presunta normalità. E infatti i suoi familiari non riescono ad entrare in relazione con questo atteggiamento così estraneo alla logica razionale. Ma prossimo alla logica enigmatica del linguaggio onirico.

Familiari che in questo contesto onirico rappresentano le diverse tensioni che abitano il nostro condominio psichico.  In questo senso, quindi, tutta la messa in scena è la rappresentazione di un forte dissidio interiore.

Daria Deflorian (la sorella), Gabriele Portoghese (il marito), Monica Piseddu (la vegetariana)

Smettere di mangiare carne diventa qui un sintomo legato ad un forte disagio con la tattilità, anche ferina, che ci abita. Un disgusto per il nostro odore carnale, sensuale, tendente alla sopraffazione. Una nausea per quella totale libertà della carne che in noi umani non si dà in maniera lineare – e quindi istintiva come negli animali – ma può assumere la forma di infinite per-versioni.

Paolo Musio (il cognato), Monica Piseddu (la vegetariana)

Lo spettacolo ci porta a riflettere, quindi, anche su che cosa significhi davvero per noi essere liberi: su come può diventare talmente inebriante da provocarci angoscia. La libertà è qualcosa che eccede la nostra finitudine. E per questa difficoltà ad entrarci in relazione siamo tentati a rinunciavi. 

Ed è un po’ quello che avviene alla protagonista, che in un continuo crescendo angoscioso arriva a provare disagio anche per la linearità dell’istinto. Preferendo ad esso la quiete rassicurante del “vegetare”, del vivere senza l’impellenza della tensione a desiderare. 

Paolo Musio (il cognato), Daria Deflorian (la sorella)

Uno spettacolo che necessariamente provoca un’azione di “disturbo” nell’attenzione e nel coinvolgimento dello spettatore, che viene solleticato proprio su quelle corde che generalmente preferiamo non vengano “pizzicate”: quelle che, avvicinandoci allo stra-ordinario, sono motivo di fertili disagi. Piccole-grandi crisi, propedeutiche alla conquista di nuovi equilibri esistenziali.

E il Teatro anche questo deve saper fare e poter fare.

Di sublime bellezza – anche iconografica – il quadro finale raffigurante una sorta di deposizione dalla croce, priva di verticalità e di frontalità diretta. Una meravigliosa sintesi. Graffiante.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo OMAGGIO A GLAUCO MAURI – Lettura del “De Profundis” di Oscar Wilde – progetto a cura di Andrea Baracco –

INTERPRETE della serata di Giovedì 31 Ottobre 2024: GABRIELE GASCO

TEATRO TORDINONA, dal 30 Ottobre al 9 Novembre 2024

Lì dove dal XV secolo avevano sede le principali prigioni di Roma (e dove vennero reclusi – tra gli altri – Benvenuto Cellini, Giordano Bruno e lo stesso Caravaggio); lì dove nel 1670 le carceri lasciarono il posto al Teatro Tordinona; ebbene proprio questo luogo così potentemente simbolico Andrea Baracco, direttore della Compagnia Mauri Sturno, ha scelto per accogliere l’essenza del testo del “De Profundis”: la lettera che Oscar Wilde scrisse in tre mesi – nel secondo anno di prigionia – non appena gli diedero la possibilità di avere in cella carta e inchiostro.

Una lettera che custodisce la testimonianza di una straordinaria evoluzione esistenziale: quella che Oscar Wilde realizzò grazie alla sua capacità di accogliere il dolore, quale preziosa opportunità per una fertile trasformazione vitale. Quel dolore che lo pervase all’indomani della condanna a due anni di lavori forzati e dal quale sarebbe stato annientato se non fosse scattata – proprio nel momento di massima umiliazione – la consapevolezza del potere insito nel nostro essere gettati al mondo nella sofferenza. 

Glauco Mauri al Teatro Rossini di Pesaro

Un passaggio esistenziale di cui si è reso interprete il caro Maestro Glauco Mauri: per una sera al Teatro Rossini di Pesaro e – per almeno altre 10 sere qui – ancora con noi – al Teatro Tordinona. Luogo eletto da Andrea Baracco per celebrare il rito del ricordo del Maestro, a un mese dalla sua morte. 

Un omaggio all’indimenticabile attore e al meraviglioso uomo di teatro che fece della sua arte la sua vita e della sua vita la sua arte. Una profonda riconoscenza che qui assume la forma di una rievocazione, proprio di quelle che sono state le sue ultime parole pronunciate in teatro. 

Una rievocazione che si ripete per 10 sere ma con sempre nuove “variazioni interpretative” (quelle di attori diversi ogni sera) del testo del “De Profundis”. Testo del quale Glauco Mauri suggella qui – in una perfetta e quindi infinità circolarità – l’alpha e l’omega. Un Mauri profondamente commosso e di una fulgente dignità tale da far vibrare le corde più intime dello spettatore. 

Gabriele Gasco

Una dignità di cui l’interprete ieri sera in scena si è fatto splendido erede. Gabriele Gasco ha 27 anni e quando varca la scena buia lo fa con quella capacità speciale del mantenersi sul confine tra il mondo della fisica e quello della metafisica.

Indossa qualcosa di simile a una divisa da carcere ma non appena alza lo sguardo capisci che in verità è profondamente libero. Di quella libertà di cui si possono fregiare solo coloro, che come Oscar Wilde, hanno saputo usare il buio per fare luce dentro se stessi. Fino a riuscire a trasformare il veleno della vendetta e del rancore nell’elisir della gratitudine.

Il Wilde di Gasco conserva tracce della postura da dandy. Ma il corpo – abito della sua rinnovata anima – non “posa”: “è”. L’indiscutibile stile che modella i suoi gesti è il risultato dell’autentica consapevolezza di cui si dispone dopo essere stato costretto a una “remise en forme” esistenziale.

Oscar Wilde

Ora sa dove e perché ha sbagliato e come mai si è ritrovato a scontare questo tipo di sofferenza. Toccato il fondo più abissale dell’umiliazione, ha scoperto che proprio da lì può sprigionarsi un’energia che dà un senso alla sofferenza per cui siamo stati creati. E’ un ‘energia che per alcuni istanti la regia di Baracco materializza in un abbraccio musicale al suo Wilde più in difficoltà: un abbraccio intimo, lieve, magico.

Un Wilde il suo che, con quel suo stare che rompe il piano della frontalità e con quel suo protendersi costante e lieve indietro per poi slanciarsi pungente in avanti, rende il proprio corpo disponibile come un arco, dal quale vengono scagliate frecce di audace saggezza. Verso il suo amore: sì, nonostante tutto – nonostante i tradimenti, gli atteggiamenti da subdolo narcisista manipolatore e l’indifferente silenzio durante questi due anni di carcere – lui resta il suo amato Bosie. 

Andrea Baracco

Amato ora in maniera differente – dopo aver passato in rassegna tutta la tossicità dei suoi atteggiamenti – ma comunque amato. Perché l’amore può essere più forte dell’odio ma soprattutto perché l’amore è infinitamente generativo. Siamo fatti per soffrire – ci confida Wilde – e per amare. Poco importa l’essere ricambiati: “amare ci permette di rimanere fedeli al nostro desiderio” direbbe Massimo Recalcati. Questa è la potente forza vitale di cui siamo dotati, noi nati per soffrire. 

Il suo raccontare è fascinosamente irregolare. Ma costante. Uno stile sul confine tra disponibilità e seduzione; tra musicalità e assedio. Un ritmo che apre e chiude, continuamente, i confini del racconto. Un Wilde, quello di Gasco, fiero di tutto quello che gli è accaduto, perché tutto quello che gli è accaduto è servito a condurlo a questo tipo di consapevole libertà.

Gabriele Gasco

Una fierezza che si coniuga con la disponibilità all’ascolto e alla tolleranza, propria di quel suo inclinare il capo. Come Cristo sulla croce: perché “Cristo è il precursore romantico dell’artista”: “un contadino di Galilea che tiene sulle sue spalle il male di tutti” per trasformarlo, grazie alla bellezza del proprio dolore. 

Un dolore che non chiude, ma che anzi può aprire a nuovi inizi. “Un giorno dovrai vergognarti di te stesso … – dice Wilde al suo amato – per questo ti ho scritto così a lungo: per farti capire cosa sei stato tu per me”. Prima e durante questa occasione di sofferenza “terapeutica” in carcere.

Ora – prosegue Wilde – “vengo ad insegnarti il significato e la bellezza del dolore”.

Non è facile da spiegare. Ma qualcosa di “sacro” avviene durante la conclusione di questo intimo rituale.

Glauco Mauri


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Leggi anche:

INTERPRETE della serata di Mercoledì 6 Novembre 2024: FEDERICA FRACASSI

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo DAIMON 4.0 – Identità in download – scritto da Maria Grazia Aurilio e Tiziana Sensi – regia Tiziana Sensi

TEATRO MARCONI, 30 Ottobre 2024 –

Per realizzarci davvero dobbiamo perderci; dobbiamo cioè scoprire e lasciarci guidare dal nostro daimon. 

Nel linguaggio comune siamo soliti dire: “Per cosa sei portato ?”. Ecco, il daimon è questo: ciò da cui siamo portati. Un’attitudine, un talento: qualcosa che ci rende speciali, diversi, unici. E ci fa stare bene con noi stessi. Ci realizza.

Nessuno è privo di daimon. Ma occorre cercarlo. E poi lasciarlo libero di esprimersi. E seguirlo. Come in una danza.

E’ quello che appassionatamente  la caleidoscopica Tiziana Sensi ha cercato di farci “sentire” ieri sera. E il bersaglio è stato centrato. 

“Sono così eccitata che mi sono persa”: con credibile naturalezza, in più occasioni nel corso della sua performance, la Sensi si è lasciata guidare da alcuni complici del suo daimon: Caterina, Flavio… . E allo spettatore arriva quella fresca autenticità che ti fa “credere” a quello che lei dice.  E decidi di seguirla: perché seguendo lei, arrivi dentro te stesso. E ti ritrovi. E ti conosci un po’ di più.

E’ qualcosa di diametralmente opposto ad una subdola manipolazione: perché la parola teatrale è generosa, è altruistica, è senza secondi fini. 

Perché il Teatro è epidermico: si è prossimi, si è in presenza. 

Ci si guarda negli occhi, a Teatro, ma non da dietro uno schermo. 

Ci si annusa. E l’olfatto è il nostro cervello più antico, ancestrale. E non mente. 

La Sensi frequentemente nel corso dello spettacolo sente l’esigenza di chiedere alla regia che si alzino le luci sulla platea: anche lei ha bisogno di vederci e di annusarci, al di là dello schermo delle ombre che necessariamente cade sul pubblico. 

A lei non importa la perfezione: lei è disposta a correre il rischio di interrompere ripetutamente lo spettacolo per saggiare le nostre reazioni. Ma in verità non è un’interruzione: è un dono quello che lei ci sta facendo. Cercando la nostra attenzione, ci offre la propria. Non le interessa “ballare da sola”: è “il passo a due” quello che vuole. E’ la relazione che cerca di costruire con noi, al di là di ogni egoico narcisismo.

La sua è l’espressione del fascino di essere umani: in bilico tra fragilità ed eccellenza. Quell’eccellenza che ci regala l’unicità del nostro daimon. 

Qualcosa di diametralmente diverso dalla perfezione “verticale” a cui ci fa credere di poter raggiungere il mondo dei social.  Quella magia di luci, di filtri, di fallaci proiezioni di una maestosità onnipotente, con cui la Sensi-Social apre lo spettacolo. E ci si presenta con un fascino da sortilegio in un prologo di sublime bellezza .

Tutta la drammaturgia (un lavoro a quattro mani tra Maria Grazia Aurilio – psicologa, psicoterapeuta – e la stessa Sensi) sa fondere la luminosità della narrazione all’austerità dei dati scientifici, che la Sensi porta in scena a testimonianza di ciò che, con eleganza preoccupata, porta all’attenzione dello spettatore.

E’ un particolare teatro di narrazione il suo che dà ospitalità ad ogni colore del proprio condominio vocale. Ne risulta un personaggio polimorfico, che racchiude in sé una pluralità di individualità.

Partendo dalla ricerca del suo personale daimon, Tiziana Sensi – in un continuo confronto temporale tra passato e presente – piuttosto che demonizzare l’era digitale avverte l’esigenza di tentare di recuperare ciò che di prezioso è andato perso.

Ad esempio, un’equilibrata considerazione del giudizio degli altri.

Gilles Deleuze (noto filosofo francese) sosteneva che il peggiore degli incubi è vivere la propria vita come sogno di un altro. Ed è una tentazione in cui ci viene facile cadere, fuorviati dal fatto che -sebbene conoscere il proprio daimon sia ossigeno vitale – incontrarlo può essere spaesante. Il nostro daimon ci parla infatti di ciò che spesso ancora non conosciamo di noi stessi. Ma non è un motivo valido per allontanarcene e cadere nella trappola di dedicarci alla realizzazione del desiderio che gli altri hanno su di noi. E’ vero: è più semplice e in più ci rende “amabili”. Ma è la magra consolazione che riceviamo per aver rinunciato al nostro potere: il potere creativo.

Ne consegue un pericoloso e progressivo raffreddamento del desiderare, che conduce alla depressione. Anche tra i giovani. 

Perché quel senso di “mancanza” così prezioso per continuare a desiderare creativamente si trasforma in “vuoto” sterile, in nichilismo: conseguenza del seguire un desiderio che non ci appartiene, quello di qualcun altro appunto, spesso nascosto dietro lo schermo di uno smartphone.

Perché se è vero – come è vero – che la vita umana ha bisogno di “appartenenza”, è altrettanto vero che quest’esigenza va equilibrata anche con un’adeguata dose di “erranza”. Senza preoccuparsi di sbagliare: fallire e incontrare una momentanea crisi è necessario per crescere. Per esserci conoscenza deve esserci “dubbio”. Che non è un deficit, come spesso siamo portati a credere, ma una preziosa occasione che ci apre ad incontrare una verità più profonda, parti di noi che ancora non conosciamo. 

Insomma avere dei dubbi non è da “sfigati” che rischiano l’emarginazione sociale, come vogliono farci credere. Tutt’altro: farsi delle domande significa disporre ancora del potere creativo del proprio daimon, senza abdicarvi per un’ingannevole prospettiva di inclusione, all’interno di una massa anonima, dove ciascuno per appartenervi deve aver rinunciato alla propria personalità. 

Il Teatro, oltre ad essere il luogo giusto per parlare consapevolmente delle perdite conseguenti all’abbandono del nostro daimon, è anche un luogo dove queste perdite possono essere riconquistate.

Per questo l’idea che persegue lo spettacolo di Tiziana Sensi si rivela preziosa e necessaria nel recuperare il valore irrinunciabile della nostra voce, del nostro corpo, del nostro tempo.

Fino a riappropriarci progressivamente anche del piacere generativo dell’Attesa.

Tiziana Sensi


Recensione di Sonia Remoli