Recensione dello spettacolo ANNA CAPPELLI – di Annibale Ruccello – regia Claudio Tolcachir

Con VALENTINA PICELLO

TEATRO INDIA , dal 22 al 26 Gennaio 2025 –

La incontriamo. E’ lì: nella landa del suo sentire. 

Ha un fare randagio, non privo di fascino e di tenerezza.  Si sente che è un crogiolo di contraddizioni. 

Non ci aspettava. Sembra trovare rifugio nello sbocconcellare un panino. Ma sta anche ruminando qualcosa. Nella mente, nel cuore. Se ne incroci lo sguardo, lei si tiene lontana. Ma capita anche che poi si apra in un sorriso. Irresistibile.

Lei è Anna Cappelli: una donna con un nome e un cognome. 

Unica. Ma non l’unica.

Valentina Picello

Questo testo tempestosamente umano di Annibale Ruccello – scritto nel 1986 poco prima di morire a trent’anni – si ispira anche ad un fatto di cronaca, in cui era coinvolto un uomo giapponese che aveva divorato la compagna. 

Cifra di Ruccello è dedicare molta cura al disagio antropologico proprio di ogni epoca, facendosi cantore della sensibilità degli inquieti e dei malinconici.

Il teatro rappresenta per lui il luogo privilegiato dove far andare in scena le ipocrisie, gli odi e le viltà della società nella quale i suoi personaggi si trovano immersi. E ai quali si cura di restituire la dignità lesa, portando in salvo il loro sogno di purezza, dal buio in cui la società rischia di sprofondarlo.

(ph. Luigi Angelucci)

Società la cui prima forma embrionale è la famiglia: luogo dove non sempre è facile trovare una generosa ospitalità.  Anna Cappelli ne è un esempio: lei soffre moltissimo il suo “sentirsi espropriata” dalle attenzioni familiari, che la lasciano “nuda” anche di fronte al suo formarsi un’identità personale.

L’autostima, si sa, è un dono sociale. E così, Anna si allontana per andare alla ricerca di una sua indipendenza a Latina. Ma anche lì continua ad essere “una nuda proprietà”.

Anche quando crede di aver maturato “un diritto di reale godimento” su certe proprietà altrui.

Suo è, ora, il loro “usufrutto”.

Ecco allora che il regista Claudio Tolcachir, sensibilissimo alla simbologia legata al concetto di “casa” -sul quale fa ruotare il suo stesso concetto di teatro, di cui il teatro-casa Timbre4 è un fulgido esempio – sceglie di immergere la “sua” Anna Cappelli in una scenografia, immaginata da Cosimo Ferrigolo, che è il luogo del suo sentire “randagio”.

Un vasto territorio incolto e desolato. Da fine del mondo. Ma anche da inizio del mondo. Uno spazio aperto, abitato esclusivamente da alcuni oggetti, estensioni esistenziali della protagonista. 

Un luogo nudo, senza muri, senza confini, senza argini. Dove sono saltati anche i principi della logica, per cui ogni cosa può essere colta in tutte le sue valenze, senza un rapporto di causa-effetto. Il lampadario, ad esempio, crollando a terra si può dare anche come un fuoco, intorno al quale è disposta una circolarità di oggetti, come in attesa della celebrazione di un rito.

Un rito di disperato dolore.  

Un dolore che impregna il territorio del sentire di Anna. Un suolo che affonda: che lei calpesta e dal quale è calpestata. Che le modifica il passo, il respiro, la postura. E’, il suo, un avanzare trattenuto da un affondare. Che ad ogni passo la ingoia.

Un dolore consumato fuori dal branco, ma di cui il branco è complice.

Speciale il lavoro registico sulla luminosità di certe ombre – dalle quali tutti siamo abitati – di cui l’Anna di Valentina Picello sa farsi olfatto ancor prima che pensiero; gesto ancor prima che carne. Dono ancor prima di imperfezione. Lei, espressione della carica vitale di un’umanità, che arriva ad essere investita da una maledetta bellezza divina.

(ph. Luigi Angelucci)

Bellezza mirabilmente sottolineata da un disegno luci (a cura di Fabio Bozzetta) di carnalità metafisica e di sacra disgrazia.

Uno spettacolo immerso in un assordante silenzio, punteggiato da due motivi musicali che parlano dell’estasi sacra e profana legata a certi incontri.  Quegli incontri dove si percepisce quell’ambiguo senso di eccezionalità, proprio di chi altro non ha, che l’altro.

Uno spettacolo che ci ricorda gli ampi confini del nostro “essere umani”, invitandoci a prenderci cura delle varie modalità in cui il nostro stare al mondo può darsi.  

Solidali, anche perché diversi.


Recensione di Sonia Remoli

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