Roberto Herlitzka: serata in ricordo del talento e della genialità del grande attore

TEATRO BASILICA, 11 Novembre 2024

Si vive tentando di entrare in relazione con qualcuno. Autenticamente. Qualcuno con cui continuarsi a guardare, con curiosa meraviglia. E non si muore davvero se la vita, passando nella morte, continua a generare nuovi inizi. 

La morte di Roberto Herlitzka germoglia meraviglia. Così come era avvenuto in vita. Pur avendo vissuto con ostinata precisione la sua missione teatrale, non smetteva infatti di risultare imprevedibile. E’ la qualità di alcuni: quelli che hanno scoperto il loro desiderio vitale e se ne sono lasciati guidare. Con generosità.

Ieri sera al Teatro Basilica ci si è ritrovati per ricordarlo: una mostra fuori scena accoglie scatti di Tommaso Le Pera, che riescono a raccontare suggestivamente il silenzio di Herlitzka.

Ad una platea gremita di inquieti – desiderosi di occasioni in cui venire a contatto con la sua unicità – si sono resi testimoni del meraviglioso contagio herlitzkiano  il critico teatrale Rodolfo Di Giammarco, il regista Antonio Calenda, il regista cinematografico Marco Bellocchio, l’autore e regista Ruggero Cappuccio. Ciascuno di loro ha scelto di condividere emozioni, sentimenti, frammenti di lavori, aneddoti dell’uomo e dell’artista. Tutti splendidi. 

Ma ciò che davvero si rendeva tangibile, ieri sera, era la sincera meraviglia verso il talento di un uomo e di un artista, che continua a darsi con fertilità in chi lo ha conosciuto.

Antonio Calenda, che ha condiviso con Roberto Herlitzka oltre 50 di vita a teatro, ci ha rivelato di aver individuato in lui lo “Spirito Tutelare del Teatro Basilica”.  

Perché Roberto Herlitzka è “una costruzione sentimentale” e “un moltiplicatore di sogni” ( Ruggero Cappuccio);  è colui che “sa lasciare un segno nel farsi della parola” (Antonio Calenda); “è l’evento della parola” (Marco Bellocchio); “é ossigeno di alta montagna” (Rodolfo Di Giammarco).

Roberto Herlitzka, nella sua delicata “selvatichezza”, nel “darsi implicito” dei suoi sentimenti, c’era sempre: si percepiva la sua attenta presenza.  Anche ora, se ci voltiamo a cercarlo, lui continua a guardarci. Con quel suo piglio meraviglioso. Al quale non vogliamo rinunciare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo REGINE DI CARTONE – di Marina Pizzi – regia Silvio Giordani

TEATRO MARCONI, dal 7 al 17 Novembre 2024

Chissà perché alla fine dello spettacolo – andato in scena ieri sera dal palco del Teatro Marconi – viene quasi da invidiare le tre barbone in scena. 

Che strano. Ma perché? Che cosa hanno in più?

Sanno entrare in relazione tra di loro, pur essendo molto diverse.

Sanno ascoltare e interessarsi davvero l’una dell’altra.

Sanno aiutarsi a vicenda nel decifrare la vita. 

Insomma: sono la testimonianza di una comunità ben riuscita. 

E quando arrivano ad esserne consapevoli anche loro, concordemente scelgono di strappare l’ultimo gruzzolo di soldi. 

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina), Maria Cristina Gionta (Ruvida)

(ph. Tommaso Le Pera)

Uno spettacolo che è una carezza in uno schiaffo (il testo è di Marina Pizzi, la regia di Silvio Giordani) : condizione necessaria per spingerci a riflettere. A non passare oltre. 

In fondo non sono mica persone così diverse da noi: sono intelligenti, belle, simpatiche. Brillanti, nonostante la polvere che le ricopre. E, come noi, insicure. 

Ma più sfortunate, perché abbandonate e lasciate ai margini: fuori dalla vita sociale “ufficiale”, fuori dalla loro famiglia di origine. A loro è toccata in sorte la realizzazione della paura che assilla tutti noi: rimanere soli dopo una disgrazia, un errore, una disavventura. Essere abbandonati. Per sempre. 

Marina Pizzi, l’autrice, scrive un testo davvero fascinoso: dapprima ti sequestra l’attenzione trascinandoti in una realtà surreale, quasi da teatro dell’assurdo. Tanto che le due barbone in scena, Regina e Tonta, ricordano quella tensione di “ansia, freddo buio e vuoto” anche di Vladimiro ed Estragone (“Aspettando Godot” di S. Beckett).

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Poi però il loro Godot arriva, anche se non se ne rendono conto subito: è Ruvida. E’ lei quella che desidera più intensamente realizzare una nuova famiglia e quindi un’autentica comunità: una polis. 

Una realtà aggregativa con valori specifici e comuni, dove i componenti desiderano il bene comune della collettività stessa. Perché si sentono parte integrante ed insostituibile della comunità. A tal punto da applicare i principi della fratellanza a quelli della collettività extra-familiare. Nasce così un piccolo popolo unito, forte e vigoroso, che si riconosce nella comunità e si prende cura della stessa. 

E sembra alludere all’estinzione di questo tipo di popolo l’incipit con cui Regina (un’Angiola Baggi di una luminosa raffinatezza fantasmatica) apre lo spettacolo, quando dice: “Dov’è finito? Non può essere scomparso…”. “E’ una barbarie con i fiocchi” – aggiungerà Tonta. E ancora Regina: “mi piacerebbe cambiare odore”.  

Perché se avere un odore significa avere un’identità, volerlo cambiare allude ad un desiderio di evoluzione. Anche Tonta desidera qualcosa di simile (una dolcissima e acuta Mirella Mazzeranghi che al di là del suo definirsi campata in aria come un anacoluto è invece assai consapevole): lei ama i nastri e i lacci. Rossi. Ama i legami, ciò che unisce. Ma che può anche soffocare. Come purtroppo è successo a lei. Eppure vale sempre la pena riprovare, ricominciare.

Maria Cristina Gionta (Ruvida), Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Anzitutto restituendo il giusto potere alla “parola”: prima magia nelle mani dell’uomo. E’ la bellezza del racconto. E del raccontarsi: “non ho più nessuno da chiamare” – confida Regina a Tonta. Ma inaspettatamente nella loro dualità si fa spazio un terzo elemento. Lei è più giovane, più propositiva, solo apparentemente aggressiva: è Ruvida (una Maria Cristina Gionta efficacemente graffiante). 

“Colazione, pranzo o cena qui?” – è il suo modo di presentarsi, di chiedere permesso, di dare un ordine alla tentazione del disordine. Le altre due sono sospettose, sono tentate a chiudersi tra loro appoggiandosi l’una sull’altra. Ma poi Tonta ricorda a Regina che non è efficace “appoggiarsi” a qualcuno, perché se poi quel qualcuno si sposta, si cade e si resta soli. Meglio imparare a contare su se stessi pur stando insieme. E allora con un balzo Ruvida – tenendo a bada il suo fare felino: “Insieme qualsiasi cosa si affronta meglio, no?”.

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Maria Cristina Gionta (Ruvida), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Ed è sorprendente vedere come partendo da un piccolo nucleo si possa fondare una comunità su basi “solide”.

E il tema della “solidarietà” chiama in causa, oltre alla nostra educazione sentimentale, anche le nostre conoscenze di geometria.

Se infatti la “solidarietà” si fonda sul sostegno reciproco, in geometria ogni parte di un “solido” é tale perché tenuta salda da tutte le altre. Quando non ci curiamo di qualcuno in difficoltà, generiamo una faglia nel solido, che tale non è più. E’ l’aiuto reciproco il cemento del corpo in cui viviamo. Perché “una società solidale” è “una società solida”.

La sapiente e audace regia di Silvio Giordani porta in scena un tema scomodo, affrontato con quella giusta dose di mistero e di ironia, tale da predisporre lo spettatore ad un ascolto più denso.

Quindi solido.

E’ in scena al Teatro Marconi fino al 17 Novembre 2024.

Mirella Mazzeranghi, Maria Cristina Gionta, Angiola Baggi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA FABBRICA DELL’ATTORE: 50 ANNI DI (R)ESISTENZA – progetto, drammaturgia e regia di Manuela Kustermann –

TEATRO VASCELLO, dal 2 al 6 Ottobre 2024

E’ una meravigliosa “bimba” la Kustermann: una creatura che continua a far sua la magia dello stupore.

Quello di chi sa incantarsi di fronte al mondo e di questo incanto, incantare.

Quello che “la bimba K come Kustermann” alimenta in sé quale primitivo e prezioso linguaggio vitale, avendolo appreso incontrando e continuando ad amare Giancarlo Nanni: un uomo, un Paese delle Meraviglie.

Manuela Kustermann

(ph. Tommaso le Pera)

Quello stupore che – come fermento – si è ancora una volta sprigionato ieri sera tra le pareti del Teatro Vascello, fino a contagiare il pubblico in sala, trascinato come per incanto a bordo del viaggio-spettacolo. Una splendida rievocazione che ha celebrato i primi 50 anni di continua sperimentazione del Teatro Vascello. 

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Quello stupore sapientemente restituito attraverso una scena caleidoscopica come un rullo fotografico; dinamica come un libro da sfogliare; segretamente doppia come uno specchio svobodiano.

Una scena dove luce e immagine si confermano elementi fondamentali della creazione dello spazio teatraleE dove – in un’immaginaria e potentissima continuità  – quel multiforme telo nero  che vestiva come “habitus” , prima ancora che come abito, i personaggi  allora in scena per “Il Gabbiano”, trova eco ora nella seconda pelle dei quattro testimoni in scena. Loro che sanno continuare ad “abitare” l’eredità di Nanni, facendo di un lutto “un risveglio”. Anzi, continui risvegli.

Una scena de “Il gabbiano” di A. Cechov regia di Giancarlo Nanni

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer

(ph. Tommaso le Pera)

Ecco allora che nella voce-corpo di Manuela Kusterman confluiscono – come colori di una stupefacente melodia – quelle di Massimo Fedele, di Gaia Benassi, di Paolo Lorimer e di Alkis Zanis. Voci che testimoniano e nutrono una memoria che suscita in noi del pubblico una grata e vibrante malinconia per quel rivoluzionario modo di fare teatro, il loro, che segnò un’epoca.

Manuela Kustermann

(ph. Tommaso le Pera)

Loro la creazione di un nuovo linguaggio multidisciplinare che scelse di privilegiare “l’immagine” sulla “parola” e – proprio attraverso l’immagine – tenere insieme tutte le arti: teatro, musica, pittura, danza, cinema. Quella che Giuseppe Bertolucci definì “la scuola romana”.

Un teatro che sceglie di “provocare”: intellettualmente – ancor più che fisicamente – emozioni, turbamenti, domande. Lutti e risvegli. 

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Un teatro che si nutre di immaginario e che lo restituisce in spettacoli che riescono a solleticare il linguaggio inconscio di giovani e di adulti. 

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Un teatro che “si visualizza” in spettacoli storici come A come AliceRisveglio di primaveraL’imperatore della Cina, solo per citarne alcuni, nati dall’arte maieutica di Giancarlo Nanni, che riusciva a far liberare a ciascun interprete frammenti della propria singolarissima creatività. Solo così, attraverso continue improvvisazioni, venivano rilasciate tracce di un inconscio collettivo che Nanni componeva in immagini visionarie. A lui infatti – che veniva dalla pittura degli anni Sessanta e Settanta della “scuola di Piazza del Popolo” (Schifano, Festa, Angeli, Kounellis) – non interessava tanto la recitazione quanto piuttosto il tentativo di composizione di un quadro visivo. Senza la pretesa di “compiere” un’unificazione finale, quanto piuttosto di “evocarla” attraverso la ricerca di sempre nuovi frammenti.

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Evocazione che ieri sera ha raggiunto la Kustermann nel ricostruire i frammenti più significativi che hanno dato, e danno, vita a questo magnifico quadro esistenziale – ancor prima che artistico  – in continua evoluzione che è stato ed è il Teatro Vascello.  E che si è rivelata una testimonianza storica davvero preziosissima. 

Imperdibile soprattutto per i giovani, che a differenza degli adulti non hanno potuto contagiarsi di quell’aria carica di elettricità creativa che animava la Roma di quegli anni.  

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Contagio possibile però ora, proprio grazie a questa straordinaria testimonianza, che si impreziosisce anche del film girato allora da Mario Schifano – e che la Kustermann ha fatto restaurare – relativo alla forza dirompente liberata da uno spettacolo quale fu “Risveglio di primavera” .

Una memoria storica – quella ripercorsa per salienti frammenti dalla Kustermann – che meriterebbe di essere “accolta” in un vero e proprio documentario.

Grazie.

Paolo Lorimer, Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA LEZIONE di Eugène Jonesco – regia di Antonio Calenda –

TEATRO BASILICA, dal 6 al 10 Marzo 2024 –

E’ una danza, un rituale di sublime bellezza la messa in scena de “La Lezione” di Eugène Jonesco per la regia di Antonio Calenda, che ieri sera ha debuttato a Roma nella metafisica cornice del Teatro Basilica.

Teatro Basilica

La prossemica ha la grazia di una coreografia; la vocalità veste i toni del canto; i corpi raccontano ciò che le parole non sanno dire.

Quando i principi della logica saltano, a parlare è la lingua dell’inconscio: quella dove eros thanatos amano darsi appuntamento.

Complice la raffinata drammaturgia delle ombre (disegnata da Luigi Della Monica) che, bisbigliando possibili pericoli, lascia scoperti i nervi della platea.

Così anche la scena (di Paola Castrignanò): elegante e altera cela in sé, al di là della solidità apparente, misteriosi vuoti inquietanti.

E poi i costumi (la cura è di Giulia Barcaroli):  impeccabili  “divise di ruolo” borghesi, che proprio per la loro maniacalità realistica insinuano dubbi sulla realtà stessa. 

Nando Paone (il Professore) e Daniela Giovanetti (l’Allieva)

Di magrittiana bellezza la scelta registica di far sì che l’entrata in scena del Professore – interpretato da un Nando Paone mirabilmente a suo agio tra realismo e surrealismo – sia anticipata dall’entrata del suo “cappello di rappresentanza” (per mano della Governante : un’efficacissima Valeria Almerighi). Non sarà mai indossato ma resterà sempre in scena, come tributo (ipocrita) alle apparenze borghesi.

Nando Paone (il Professore) , Daniela Giovanetti (l’Allieva) e Valeria Almerighi (la Governante)

Nonostante l’ossequiante rispetto delle formalità borghesi, lo spettatore è condotto dal regista nell’individuare  l’insinuarsi sulla scena di inaspettate perversioni alla norma. 

Non ultimo, il fatto che la scena si svolga in un (apparente) studio ricavato da una sala da pranzo: luogo deputato alla consumazione del pasto. Ma anche i contenuti di una lezione richiedono di essere ben masticati da un allievo o da un’allieva (qui da una candida e irresistibile Daniela Giovanetti).  Altrimenti sarà cura del Professore impartire un altro tipo di lezione: una lezione esemplare.

Nando Paone (il Professore) e Daniela Giovanetti (l’Allieva)

Delicatamente erotico è lo stile che il regista sceglie acutamente di seguire per lasciarci fin da subito assaporare come la comunicazione possa prendere un gusto ambiguo, al di là delle regole costruite dalla logica.

Inclusa la stessa tensione tra professore e allieva: in bilico tra il distacco didattico e l’attrazione alchemica. Ma così è: lo diceva già Platone che s’impara solo per seduzione. E lo stesso professore di Jonesco ne è consapevole: più volte si rimprovera di non aver fatto degli esempi “efficaci” difronte alla mancata comprensione dell’allieva. E allora si lancia in una modalità incantatoria che poi vira al parossismo.

Daniela Giovanetti (l’Allieva) e Nando Paone (il Professore)

Perché “insegnare” significa etimologicamente lasciare un segno sull’allievo, lasciare delle tracce.  Jonesco stesso definiva questo suo testo un “dramma comico”: un umorismo che mira a confondere e a contraddire quelle che chiamiamo certezze.

Perché in realtà siamo immersi nell’ambiguità del caos delle informazioni.

Le convenzioni della logica ci aiutano ad intenderci sì, ma dimenticano “le diversità” di cui si compone la verità. 

Valeria Almerighi (la Governante) e Nando Paone (il Professore)

Recensione della proiezione del film ROBERTO HERLITZKA LEGGE DANTE – regia teatrale Antonio Calenda, regia video Mauro Conciatori –

TEATROBASILICA, 2 Ottobre 2023 –

Dice di non saper ringraziare bene, di non “sentire” le luci, di faticare a starci, di rimanere decisamente in imbarazzo. Ancora oggi. Eppure da bambino furono proprio i ringraziamenti di un gruppo di attori sotto le luci della ribalta a folgorarlo al desiderio di teatro.  

Ma ieri sera all’evento a lui dedicato e scelto per aprire la nuova stagione al Teatrobasilica – di cui è “il nume tutelare” – dopo l’appassionante e appassionata dedica del suo ormai inseparabile compagno di viaggio – un po’ il suo Virgilio – ovvero il regista Antonio Calenda, Roberto Herlitzka, come in un’epifania si è manifestato. Seduto tra il pubblico, seguito da un sagomatore, ha salutato e ringraziato. E la sua grazia schiva si è sprigionata rivelandosi in tutta la sua densità. 

Il regista Antonio Calenda

Formatosi come “persona” e come “personaggio” alla scuola di Orazio Costa, Roberto Herlitzka è un autentico amante dello sperimentalismo: quello che alle spalle ha però una vera e propria formazione classica. Perché solo così si può affrontare la novità in modo consapevole.

E in quell’aura trascendentale eppur così caratteristica di uno spazio off qual è quella del Teatrobasilica in San Giovanni in Laterano in Roma – sospeso com’è tra sacro e profano – Herlitzka risplende di totale integrazione. E dà prova ancora di voler continuare a “lanciarsi sul palco come chi viene scaraventato in mare senza saper nuotare”. Con “fresco entusiasmo”. E con autentica spontaneità: quella che è sempre frutto di un lavoro, individuale ed intellettuale, solo alla conclusione del quale si può davvero impersonare quel determinato ruolo con naturalezza cosciente.

Il film “Roberto Herlitzka legge Dante “, che si origina dalla fertile sinergia tra la regia teatrale di Antonio Calenda e la regia video di Mauro Conciatori, è arricchito dalle foto di Tommaso Le Pera.

Di Herlitzka non può non colpire la qualità dell’avvicinamento al testo della Divina Commedia: lo stile inconfondibile con cui lo fa e che è la cifra inimitabile del rapporto tra il suo modo di stare al mondo e il suo desiderio di sapere, di continuare ad apprendere. Ancora. E lascia una traccia. Preziosissima, di cui noi possiamo essere, a vari livelli, eredi e insieme rielaboratori. Perché da certe letture e da certe interpretazioni siamo anche letti, come sostiene Massimo Recalcati: come singolarità ma anche coralmente. E allora quello con Roberto Herlitzka che legge la Divina Commedia di Dante – dal vivo o attraverso la visione del film – diventa un incontro che ha la cifra dell’unicità: di quelli che mettono una cesura tra la vita che era e quella che è e sarà. Di quelli che non si dimenticano. 

Roberto Herlitzka

Come anche il regista Calenda ha con sincera commozione sottolineato, ricordando il suo personale incontro con Herlitzka risalente al 1971: ai tempi in cui presentava la prima italiana de “Il balcone” di Jean Genet con  Franca Valeri e appunto Roberto Herlitzka. 

Perché – ha aggiunto appassionatamente Calenda – la ricchezza di Herlitzka è nella “parola”, che in lui si fa verbo, logos: da cui riesce a “far zampillare” la verità. 

La regia video di Mauro Conciatori privilegia una ricca declinazione di inquadrature in soggettiva che sottolineano la ricerca e lo sprigionarsi di un autentico pathos della narrazione. Eloquentissime le soggettive di spalle, ricavate da un suggestivo gioco di specchi, metafora del teatro e del cinema in quanto metafora base della vita stessa.

Mauro Conciatori

Su un fondale che accosta la densità del muro alla leggerezza dello specchio, seduto sulla poltroncina n.3 del Teatrobasilica, estrapolata dalla platea per essere posizionata sul palco frontalmente al pubblico – presente nell’assenza così come solo il migliore degli amanti sa farsi desiderare – Roberto Herlitzka ha l’allure di una divinità, la cui trascendenza si rende enigmaticamente immanente.

Nei suoi occhi scorre la narrazione che si fa corpo attraverso la partitura di ogni suo nervo. Tutto in lui cerca e trova l’autentica restituzione della parola dantesca. Il respiro conduce della voce i ritmi, le direzioni, la partitura delle vocali, la rottura in commozione.

Roberto Herlitzka
Credit: Photo by Maurizio D’Avanzo

E il pubblico ne resta rapito. Con lui si si meraviglia, con lui si indigna, con lui prova pietà. E al termine del film si libera, scatenandosi in un applauso che non riesce a trovare conclusione.

Consapevole che qualcosa che ha la cifra dello straordinario ieri sera è accaduto.

E con immensa gratitudine ne saremo testimoni.

Tommaso Le Pera

(ph Ivan Nocera – ag Cubo)


Recensione di Sonia Remoli