Roberto Herlitzka: serata in ricordo del talento e della genialità del grande attore

TEATRO BASILICA, 11 Novembre 2024

Si vive tentando di entrare in relazione con qualcuno. Autenticamente. Qualcuno con cui continuarsi a guardare, con curiosa meraviglia. E non si muore davvero se la vita, passando nella morte, continua a generare nuovi inizi. 

La morte di Roberto Herlitzka germoglia meraviglia. Così come era avvenuto in vita. Pur avendo vissuto con ostinata precisione la sua missione teatrale, non smetteva infatti di risultare imprevedibile. E’ la qualità di alcuni: quelli che hanno scoperto il loro desiderio vitale e se ne sono lasciati guidare. Con generosità.

Ieri sera al Teatro Basilica ci si è ritrovati per ricordarlo: una mostra fuori scena accoglie scatti di Tommaso Le Pera, che riescono a raccontare suggestivamente il silenzio di Herlitzka.

Ad una platea gremita di inquieti – desiderosi di occasioni in cui venire a contatto con la sua unicità – si sono resi testimoni del meraviglioso contagio herlitzkiano  il critico teatrale Rodolfo Di Giammarco, il regista Antonio Calenda, il regista cinematografico Marco Bellocchio, l’autore e regista Ruggero Cappuccio. Ciascuno di loro ha scelto di condividere emozioni, sentimenti, frammenti di lavori, aneddoti dell’uomo e dell’artista. Tutti splendidi. 

Ma ciò che davvero si rendeva tangibile, ieri sera, era la sincera meraviglia verso il talento di un uomo e di un artista, che continua a darsi con fertilità in chi lo ha conosciuto.

Antonio Calenda, che ha condiviso con Roberto Herlitzka oltre 50 di vita a teatro, ci ha rivelato di aver individuato in lui lo “Spirito Tutelare del Teatro Basilica”.  

Perché Roberto Herlitzka è “una costruzione sentimentale” e “un moltiplicatore di sogni” ( Ruggero Cappuccio);  è colui che “sa lasciare un segno nel farsi della parola” (Antonio Calenda); “è l’evento della parola” (Marco Bellocchio); “é ossigeno di alta montagna” (Rodolfo Di Giammarco).

Roberto Herlitzka, nella sua delicata “selvatichezza”, nel “darsi implicito” dei suoi sentimenti, c’era sempre: si percepiva la sua attenta presenza.  Anche ora, se ci voltiamo a cercarlo, lui continua a guardarci. Con quel suo piglio meraviglioso. Al quale non vogliamo rinunciare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo I MEZZALIRA – Panni sporchi fritti in casa – scritto da Agnese Fallongo – regia di Raffaele Latagliata

TEATRO BASILICA, dal 15 al 20 Ottobre 2024

I Mezzalira  entrano in scena come in processione: vivono di ritualità e, si sa, le ritualità  sono assai rassicuranti. E depurano così bene il peso di ciò che dobbiamo celare !  

Ma la verità autentica è che siamo fatti di eccedenze: di un’energia così straripante che non riesce ad essere contenuta completamente dentro canoni e regole, un po’ troppo asfissianti.

E una famiglia che, come i Mezzalira, vive di preghiere e di fritture racconta molto di se stessa. 

Agnese Fallongo, Tiziano Caputo

Friggere rende un cibo così succulento, così irresistibilmente buono, da risultare davvero appagante. Le nostre papille gustative sono solleticate dapprima dal sale, o dallo zucchero, con cui si spolvera la superficie, poi arriva la sensazione del croccante e a seguire quella del morbido. Insomma, un piacere molto ricco. 

Dai Mezzalira si frigge per festeggiare ma anche per sopportare le avversità della vita: per far diventare buono e gradevole ciò che in purezza lo è molto meno. Si dice infatti: “fritto, diventa buono tutto!” Metaforicamente la frittura è un abito sotto al quale si cela qualcosa di diverso: il sottotitolo dello spettacolo “panni sporchi fritti” può alludere proprio a questo.

Tiziano Caputo, Agnese Fallongo

“Friggere è un lusso” – dice Crocefissa, la signora Mezzalira che si affida più volentieri alle preghiere, per lavare via la sporcizia dai panni. Pregare non costa niente e “più preghi più Dio ti ascolta”. Del friggere, però, la sua modalità di pregare ha il frigolare  dell’olio che bolle in pentola: è, il suo, un pregare ad alte temperature.  E l’interpretazione della Fallongo è irresistibile, almeno quanto il fritto.

Crocefissa è però un nome davvero invadente, che non può non influenzare il destino di chi lo riceve come nome proprio. Non a caso la ragazza sposa un giovane di nome Salvo che però, diversamente da lei, non ama pregare quanto piuttosto “conoscere se stesso” e quindi non sottomettersi. In quanto tale è per lei – così ossequiosa e che di cognome fa Martire – una croce e una delizia.

Tiziano Caputo, Adriano Evangelisti, Agnese Fallongo

La coppia Mezzalira ha un figlio soprannominato Petrusino, che vuol dire “prezzemolo”, proprio per identificarlo con la sua indole curiosa. A lui, presente in scena – è un fascinoso Adriano Evangelisti a rappresentarlo –  è affidata la narrazione esterna della storia della sua famiglia che, vista dall’interno con i suoi occhi, risulta davvero intrigante. 

Pasqualina invece è la figlia più grande dei Mezzalira che, a differenza di Petrusino è molto appassionata dallo studio, dove ottiene ottimi risultati. Ma è una donna, e per sua mamma Crocefissa le donne devono cucire, non studiare. “Cucire” non allude solo ad una particolare attività manuale ma, metaforicamente, anche ad un particolare stare al mondo, dove si richiede a una donna quel saper imbastire e quel saper congiungere di cui qui né madre, né figlia riescono a dare il meglio. Perché nessuna delle due, in fondo, lo vuole. Crocefissa lo nasconde. Pasqualina no: lei non riesce – a differenza del destino affidatole anche dal nome – a “passare oltre”; non riesce “ad attraversare” questa delusione e ad accettare di ergersi ad agnello sacrificale. Non a caso, forse, il cuore della narrazione in scena si svolge proprio il giorno di Pasqua, occasione interessante per soppesare tradizioni e aprire la via a riflessioni sul rito.

Agnese Fallongo

Il quadro familiare trova completezza con una nonna viva e vibrante, dalla saggezza ancestrale, esperta in terapeutiche fritture. E’ interpretata da un sorprendente Tiziano Caputo che parla con lo sguardo, con quelle torsioni improvvise del busto ( così piene di sottotesti) e con quell’autentica ironia di chi la sa lunga. Davvero una restituzione felice di una saggezza che si ammanta di buon costume ma che conosce e sa percorrere anche altre vie, tutte umane.

Tiziano Caputo e Agnese Fallongo

Fallongo e Caputo, conosciuti e apprezzati qui a Roma la scorsa stagione grazie al Teatro Basilica che ha portato in scena il loro “Letizia va alla guerra: la suora, la sposa, la puttana”, con questo nuovo lavoro riescono a far entrare lo spettatore nelle dinamiche di una famiglia che, più che in una casa, sembra aver trovato alloggio in un gran calderone d’olio bollente, tanto le pluripartiture dei due sono ricche in crepitii e scoppiettii, propri di una gran bella frittura mista. 

La recitazione così casta – eppure erotica – di Agnese Fallongo e Tiziano Caputo riesce a rendere efficacemente – complice anche un suggestivo disegno luci – lo shakespeariano darsi fritto dello sporco, che trova così spesso ospitalità nei nuclei familiari e nella vita stessa. 

Agnese Fallongo, Adriano Evangelist

La qualità della loro recitazione è impreziosita da canti dal sapore ancestrale, che sanno rendere e veicolare il senso del “sacro” meglio delle parole. Va sottolineato, poi, un particolare uso degli oggetti di scena, che prima di essere tali sono scenografie polimorfiche. E poi che dire di quegli effetti ossessivi e piacevolmente pungenti – propri di alcune sonorità ambientali (esteriori e interiori) – resi con un  contrappunto di sfriggimenti e di sfrigolii, ottenuti attraverso percussioni e sfregamenti materici e vocali ?  Geniale !

Lo spettacolo resta in scena fino a domenica 20 Ottobre

Raffaele Latagliata, Adriano Evangelisti, Agnese Fallongo, Tiziano Caputo


Recensione di Sonia Remoli

Serata inaugurale della stagione 2024-2025 del TeatroBasilica, condotta da Antonio Calenda- ospite Alessandro Preziosi

TEATROBASILICA, 26 Settembre 2024

In una calda notte del settembre romano si è atteso con entusiasmo  l’inizio della Serata inaugurale della Nuova Stagione del Teatro Basilica.

Ad aprire i festeggiamenti, il saluto di Antonio Calenda, tra i più prolifici registi teatrali italiani, che nel 2019 ha partecipato alla riapertura dello spazio Sala 1 di Piazza San Giovanni – rinominato TeatroBasilica – dove tuttora collabora attivamente come supervisore artistico e dove ha presentato nel 2020 la sua interpretazione dell’ Enrico IV di Pirandello con Roberto Herlitzka. 

Roberto Herlitzka

Calenda ha iniziato col sottolineare il carattere di “cenacolo” di questa realtà teatrale: un luogo di ritrovo di artisti legati dalla tensione al confronto reciproco e impegnati nella celebrazione del rito del coniugare le radici della tradizione con gli slanci del teatro dell’avvenire.

Quest’anno – a suggello di tale inclinazione – prenderà vita un progetto con l’Università di Tor Vergata su Aristofane, partendo dagli studi del grecista di fama internazionale nonché specialista della drammaturgia greca Benedetto Marzullo. Di lui non si può non ricordare anche che – con la collaborazione di altri grandi intellettuali italiani di quegli anni tra cui Luigi Squarzina e Umberto Eco – nel 1971 creò il DAMS (Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo) e lo diresse da 1971 al 1975.  

Anche quest’anno il TeatroBasilica  ha rinnovato la residenza ai giovani del Gruppo della Creta – ospitalità riservata a chi dimostra una particolare sagacia culturale – con i quali sono stati creati o selezionati gli spettacoli della stagione prossima all’inizio.

Un cartellone quello della stagione 2024/2025 che – sulla scia del padre della medicina Ippocrate – desidera rivalutare il valore terapeutico della frequentazione teatrale. Ippocrate infatti, per mantenere i suoi pazienti in salute, prescriveva loro di trovare il tempo di allontanarsi dalla vita quotidiana per recarsi nell’isola di Kos dove – oltre a riposare e magari anche digiunare – dovevano vedere almeno tre tragedie e una commedia.

Tema centrale di questa sesta stagione del TeatroBasilica  – non a caso denominata “Persona” – è infatti una particolare attenzione e cura verso lo Spettatore in quanto personaggio, individuo, essere umano. Persona, appunto. 

Sono spettacoli di drammaturgia italiana proposti dallo sguardo dell’ultima generazione di teatranti. E proprio per questa particolare scelta vocazionale, il TeatroBasilica si sta affermando quale “spazio del contemporaneo su Roma”, con l’obiettivo di rendersi “bottega del teatro che verrà”. Saranno quindi ospitati per presentare la loro ricerca alcune delle compagnie più interessanti del teatro italiano del futuro come Greta Tommesani e Federico Cicinelli, il collettivo Be Stand, gli artisti di Labirion Officine Trasversali e il Gruppo RMN.

Greta Tommesani

Per la prima volta il TeatroBasilica si aprirà all’ospitalità di una compagnia internazionale: dal Belgio i Poetic Punkers presenteranno la loro ultima produzione “Mario e Maria”.

Poetic Punkers

Brilla poi all’interno di questa caleidoscopica stagione il progetto “La stanza dello Spirito e del Tempo” che proporrà incontri – condotti dagli artisti ospiti in stagione – che stimoleranno la comunicazione tra le pratiche e la comunità teatrale romana. Le giornate di scambio varieranno dai due ai cinque giorni e saranno distribuite per tutta la stagione. 

Archivio-MARCELLO-NORBERTH foto di-MARCELLO-NORBERTH

E poi ancora una cascata di eventi multidisciplinari: la mostra fotografica in memoria di Marcello Norberth; approfondimenti sulla geopolitica del Limes Club; presentazioni di libri; un evento letterario condotto dal geniale poeta e scrittore Davide Brullo; ascolti di musica elettronica curati da Marco Folco e ancora molto altro. 

Alessandro Preziosi e Antonio Calenda

A testimonianza della filosofia del TeatroBasilica, ieri sera ha preso corpo la rievocazione – di fulgente bellezza – di quel rito che alchemicamente sa legare le radici della tradizione agli slanci del teatro dell’avvenire.

Antonio Calenda ha scelto infatti di inaugurare questa sesta stagione del TeatroBasilica assieme ad un suo storico allievo: Alessandro Preziosi. Ed è stato entusiasmante sentire la qualità dell’energia che scorre ancora tra i due: una solida complicità che onora al tempo stesso la tradizione e il testimone critico.

Alessandro Preziosi è l’araldo nell’ “Agamennone” di Antonio Calenda

Calenda – che condivide con Preziosi il fertile fascino per il diritto giuridico (si è infatti laureato con una tesi in Filosofia del Diritto incentrata intorno al concetto di giustizia nell’ Orestea di Eschilo) – ha fin da subito colto nel giovane Preziosi la ricchezza del suo sguardo al testo teatrale: gli veniva dall’esigenza di un’analisi della battuta anche dal punto di vista  della “norma”. E sortiva una restituzione interpretativa plurisemanticamente fascinosa.

Alessandro Preziosi entra in scena onorando il teatro di Eduardo: non solo interpretando con raffinata suspence un brano tratto da “L’arte della commedia” ma facendo sua con vibrante originalità la massima eduardiana che “a teatro la suprema verità è la suprema finzione”. 

E regalandoci una splendida dimostrazione dell’arte dell’incredulità, sulla quale si basa il lavoro dell’attore. 

La serata è proseguita tra monologhi, piacevoli bizzarrie, arguzie e facezie mantenendo, fino a superarle, le aspettative di questa speciale ricorrenza. 

Dalla prima fila della platea si librava il fascino di due grandi ospiti: Francesca Benedetti e Paolo Bonacelli, onorati dall’amorevolezza del ricordo dei due protagonisti in scena.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO di Marcel Proust – trilogia di Duccio Camerini

TEATRO BASILICA, dal 18 al 21 Luglio 2024 –

Per la prima volta in scena la sontuosa totalità dell’opera “Alla Ricerca del Tempo Perduto” di Marcel Proust nella trilogia di Duccio Camerini.

Già nel 2019 Camerini aveva portato in scena l’opera all’Off Off Theatre,  in un unico atto della durata di un’ora, interpretando lui stesso tutti i personaggi. 

Ora in questa tre giorni favolosa al Teatro Basilica l’intenso ed audace attore e regista ha consegnato al pubblico un’operazione colossale con trentotto attori: i suoi allievi del Laboratorio di Arti Sceniche, diretto da Massimiliano Bruno.

Negli anni ’70 già Luchino Visconti e Harold Pinter tentarono di portare a termine l’impresa su pellicola ma non si riuscì a decollare oltre la  sceneggiatura.

Duccio Camerini

L’opera di Duccio Camerini nei giorni appena scorsi “è stata servita” in una libera modalità: allo spettatore la scelta di assaporarla suddivisa “in tre porzioni” (che rispecchiano totalmente la Recherche) oppure goderne parossisticamente in una stupefacente “porzione unica”. Il tutto accompagnato da fiumi di musica dal vivo interpretata da Margherita Fusi, Antonella Franceschini, Samuel Di Clemente e Alessio Mascelloni.

I tre episodi

1° Dalla parte di Swann – All’ombra delle fanciulle in fiore

2° Dalla parte dei Guermantes – Sodoma e Gomorra

3° La Prigioniera – Albertine scomparsa – Il Tempo Ritrovato

sono andati in scena rispettivamente giovedì 18, venerdì 19 e sabato 20 luglioDomenica 21 luglio invece, per chi lo preferiva, si poteva godere della Trilogia completa.

Il fine sguardo registico di Duccio Camerini sceglie di aprire lo spettacolo evocando il potere generativo della “memoria”. Ed è il narratore che, un po’ come il Prospero shakespeariano, ci confida di quale “materia” è fatta la realtà:

“La realtà prende forma nella memoria; tutto non esiste se non nella memoria”

E la “memoria” fa il suo ingresso in scena: é una folla di personaggi che nel valicare il confine scenico – metafora del confine tra il passato e il presente ma anche tra l’inconscio del sogno e la tensione conscia del ricordo del sogno – un po’ si piegano e un po’ tremano per la fatica del passaggio temporale e di coscienza.  Immagine coreografica di poetica bellezza che potrebbe anche alludere ad un’amplificazione del gesto del “piegarsi” del polso nell’intingere la petite madeleine nell’infuso di tiglio. Gesto che, sinergicamente al gusto, apre Marcel alla gioia “metafisica” dell’esperienza della “memoria involontaria”.

Ma poi le sinapsi dei ricordi iniziano ad accoppiarsi e l’ “io” inizia a dare senso all’ “es”. E il passato – così come il sogno – si fa più limpido, aderendo alla scrittura che lo ha evocato. Anzi, amplificandola. Perché nel passato, così come nel nostro inconscio, si celano tracce in attesa di essere riesaminate nel presente. Ma anche tracce che invece resistono, refrattarie ad ogni possibile trasformazione. Tracce irriducibili. 

Musicalmente – questo concetto che regge e quasi paradossalmente mantiene aperta l’architettura dell’opera proustiana – viene tradotto dalla scandalosa musicalità delle aderenze a ritmo ternario di un vorticoso “valzer”. Sovrastato poi dalle note di rottura del “rock”, descritte dalla gravità di un basso elettrico. Note che smuovono, fino a far rotolare pietre che soffocano. Come quelle relative ad un (presunto) corretto orientamento sessuale, ad esempio. Evocato subito dopo nella sezione “Dalla parte di Swann”.

Scenograficamente le due spinte coesistenti di passato e presente, di inconscio e conscio, di sacro e profano, trovano una sublime traduzione nell’architettura del Teatro Basilica, situato nella navata centrale della cripta della Scala Santa di Piazza San Giovanni in Roma.

L’incontro di queste due spinte restituisce magnificamente, a più livelli, l’imprevedibile esito del racconto, che proprio mantenendo l’intreccio tra volontà e abbandono e tra identità e alterità, ne moltiplica il potenziale abbattendo i confini del prevedibile. 

In questa struttura aperta si accoglie con generosità allora il fatto che l’autore possa essere sia il narratore esterno, che il personaggio di Marcel, ma anche Swann, in quanto suo alter ego. In questa particolare dimensione, infatti, così come in quella onirica del sogno cadono i principi della logica: sia quello di identità e di non contraddizione, che quello di causa-effetto. 

manoscritto-Alla ricerca del tempo perduto – Marcel Proust

Deliziosamente maliziose le coreografie: efficacissima la briosa modalità di resa, sapientemente minimalista, dei convegni della “piccola tribù del giovedì”.

Carico di suggestioni poi il ritornare della “sonata di Vinteuil”, restituita da un’ orchestrina che si sviluppa in altezza quasi come una cattedrale di sonorità. In  particolare il ritornare di quella “piccola frase”, inno dell’amore di Swann per Odette: oggetto simbolico per eccellenza – come Gilles Deleuze ha sottolineato – proprio in quanto “oggetto intangibile”, a differenza ad esempio di oggetti simbolo quali la madeleine, i campanili, ecc.

Con accattivanti passaggi di bellezza cinematografica si arriva alla messa in scena della sezione “All’ombra delle fanciulle in fiore”, dove alla passione ancora goffa di Marcel in amore, si aggiunge la sua nomea di “malatino”. E poi il suo modo di amare già così intriso di gelosia, nonostante la leggerezza a cui lo iniziano il turchese fare liquido delle “ragazze in fiore”. 

Sorprendentemente intrigante gli risulterà, invece, la vicinanza prossemica del Barone di Charlus, che contribuirà ad accentuare in Marcel l’indecisione ad accettare il proprio orientamento sessuale. Così ”scandaloso” eppure così ipocritamente diffuso negli ambienti da lui frequentati.

Ma Marcel è vissuto, fin da piccolissimo, a strettissimo contatto con un microcosmo femminile: quello composto dalla sua mamma, dalla nonna Adéle e dalla zia Elisabeth e questo sforzo continuo a mascherare la sua autentica inclinazione non può non tenerlo in costante turbamento. Lo asfissia: l’asma ne è una manifestazione psicosomatica. Così come il disorientamento nell’assumere consapevolezza e responsabilità nei confronti della sua vocazione da scrittore.

Successivamente, i Proust si trasferiscono presso coloro che abitano nell’altra strada e Marcel, come tante volte sognato, può finalmente sperimentare come si vive “Dalla parte dei Guermantes”. Qui la regia di Camerini sa cogliere e restituire, ancora una volta, l’intensità di quelle “azioni” che ci rimandano il sapore delle nuove esperienze del protagonista.

Il modo di gustare la vita in questo salotto prende forma attraverso nuovi “incontri”, spesso trampolino di lancio non solo e non tanto all’interno della “vita di corte”, quanto piuttosto per il recupero di esperienze passate. Splendide, sempre, le restituzioni prossemiche delle dinamiche, i colpi di scena delle rotture dei piani, la sentita complicità degli “a parte”, la sapiente estrosità della comunicazione affidata al cromatismo, l’insinuarsi fascinoso dei contributi musicali, i cambi di scena così fluidamente impetuosi. Un inno alla minuziosità e all’impeto della scrittura proustiana. 

Duccio Camerini

Su tutto splende la restituzione coreografica della seduzione dell’attraversamento dei confini tra vita e morte in occasione della morte della nonna di Marcel. Per una donna così fertilmente nutrita di vita, l’incontro con la morte non può essere nulla di “mortificante”. Piuttosto assume il sapore di un incontro erotico. Il suo è un agonizzare, infatti, sul confine con il godere: godere del piacere di un nuovo incontro, quasi un insolito amplesso con la morte, di cui i familiari hanno un rispettoso pudore.  E da loro, la nuova donna “rigenerata” dall’incontro con la morte, si congeda con un canto di sublime bellezza seduttiva. Un vibrante canto di rinascita, partorito dall’incantesimo di questo ancestrale legame vita-morte-vita. Una magnifica apologia alle intermittenze del cuore, coronata dal desiderio struggente di Marcel a non voler dimenticare ciò che solo apparentemente sembra essere andato perso. Un piacere del soffrire come acme di una nostalgica gratitudine. 

Qualcosa di estremamente diverso dal piacere manipolatorio degli incontri amorosi descritti nella successiva sezione “Sodoma e Gomorra”. Esemplificati scenograficamente, con raffinato e subdolo fascino, dal filo rosso della passione al quale si legano certi amanti, come ad un guinzaglio.

Così come di una sorta di prigionia psicologica ed emotiva – causata dalla gelosia e dal desiderio di controllo – si ammala Marcel: siamo ora nella sezione “La prigioniera”. Marcel sente Albertine sfuggirgli. E non potendola “possedere”, la molla. Ma alla sua mancanza, o meglio al desiderio irresistibile di esercitare un controllo su di lei, non sa resistere. Ne è lui stesso assediato: arriva a vederla anche attraverso delle allucinazioni. E allora torna a cercarla. Ma è troppo tardi.

Quanto è difficile amare? Quanto è difficile cioè amare la libertà dell’altro? 

“Come c’è una geometria dello spazio, deve esserci una psicologia del tempo“ – scrive Marcel. Ma “una malattia intermittente è la gelosia”. Magari la donna potesse essere programmata meccanicamente e poi telecomandata ! La donna è quanto di più “straniero” possa esserci per l’uomo: sembra come una lingua intraducibile. 

manoscritto-Alla ricerca del tempo perduto – Marcel Proust

Alla notizia della morte di Albertine, Marcel cade in depressione – siamo ora nella sezione “Albertine scomparsa” – ma per il desiderio (anche morboso) di continuare a conoscere qualcosa di lei che non smette di sfuggirgli, continua a “investigare” su di lei.  Ma quante Albertine esistono ? Con quale delle sue personalità lui di volta in volta si relazionava ?

Nel mentre di questa indagine, Marcel accetta l’invito per un concerto dai Verdurin: attrazione della serata è l’esecuzione del settimino per violino da parte di Charles Morel, dal cui ascolto Marcel riceve “impressioni” che gli riportano alla memoria la “piccola frase”, il brano legato al suo amore per Odette. Di magico lirismo è la resa scenica di questo momento colmo di commozione. La prossemica d’ascolto degli invitati, l’esecuzione al violino di Antonella Franceschini e il riverbero interiore dell’interprete di Morel fanno della scena un incanto. 

Altra scena di seducente bellezza quella in cui l’anziana zia dei Guermantes sente l’avvicinarsi della morte. Anche lei, come la nonna di Marcel, esige di restare sola durante l’appuntamento con la morte e per incontrarla sceglie “d’indossare” pensieri d’amore. E in effetti la morte la renderà di nuovo giovane: una sorta di rinascita è la sua, suggellata dalla sensualità di un canto scelto per il congedo: lo stesso scelto dalla nonna di Proust.

Arriviamo così all’ultimo volume “Il tempo ritrovato”: Marcel viene ricoverato in sanatorio e smette di scrivere. Ne esce e accetta ancora un invito dai Guermantes. Qui Marcel fa esperienza di come il tempo, che solitamente sembra passare invisibile, lasci invece segni evidentissimi della sua presenza sui corpi. Tanto  da faticare nel riconoscere i compagni salottieri. Ma, proprio nell’osservarli, recupera involontariamente tanti ricordi: non ultimo la profezia di colui che gli vaticinò un impossibile destino da scrittore, ritenendolo privo di mezzi interiori. Ma il ricordo ora non ha più quel sapore mortificante di quando lo visse in gioventù. No, ora – alla luce di tutte le esperienze attraversate e quindi anche grazie a quello che considerava tempo perso e che ora scopre di aver ritrovato sotto nuova forma, questa maledetta profezia risulta gustosamente piccante. Tanto da trarne l’esigenza necessaria per tornare a scrivere. Perché “le forze spirituali vengono con il dolore”. E la stessa morte, ora, sarà la migliore delle sue amanti, musa per eccellenza della scrittura. 

Ed è così che ci si rivela – in una mirabile scenografia a specchio – che i compagni di salotto e tutti i personaggi con i quali Marcel ha intessuto la sua esistenza sono gli stessi che all’inizio della storia erano entrati in scena come “memoria”. E con questa mirabile chiusura circolare dell’opera sembra quasi di sentire ancora il narratore confidarci, come all’inizio:

“La realtà prende forma nella memoria; tutto non esiste se non nella memoria”.

Duccio Camerini – con la complicità nell’adattamento del testo di Marcello La Bella – riesce in una sfida vertiginosa nel tentativo di visualizzare personaggi che vivono in larga misura nella memoria, inserendoli all’interno di una dinamica narrativa, manifesta e segreta, che il racconto di Proust non molla mai. 

E così, partendo dall’affresco di un’epoca apparentemente lussureggiante e ipocritamente lussuriosa, si arriva a portare luce nel sottosuolo di un’umanità oggi ancora più viva che mai. 

Un’umanità che continua a dimenticare la preziosa fertilità della “diversità”, ossessionata dal bisogno di essere “accettata” dai più e quindi necessariamente ad essi “sottomessa”. Prezzo che accetta di pagare pur di non rischiare di essere additata come “diversa” e quindi relegata ai margini. Margini che però da sempre sono i luoghi più interessanti, proprio perché aperti a feconde contaminazioni, a patto che oltre ad essere confini identitari siano anche luoghi d’incontro tra le varie diversità.

In fondo che cosa piaceva dei salotti ? Esserne al centro dell’attenzione. Oppure il gustarsi, assecondanti, il voyerismo. Ma chi è che decide chi guardare e quando non guardarlo più? Qualcuno a cui si è disposti a riconoscere un potere, in cambio di un’effimera sicurezza di protezione. 

Un messaggio esemplare quello che Camerini ci consegna attraverso la riproposizione teatrale di quest’opera-mondo. Un teatro necessario il suo, il cui crogiolo creativo non si limita alla trasmissione di un’ incandescente preparazione attoriale – i suoi allievi brillano sulla scena per freschezza, ritmo e resa del sapore del gesto – ma si cura anche di solleticare il modo di stare al mondo di chi assiste allo spettacolo. Un teatro politico. 

Grazie.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA NOTTE DI VITALIANO TREVISAN – mise en éspace di Andrea Baracco – drammaturgia a cura di Jacopo Squizzato –

TEATRO BASILICA, 27 Maggio 2024

E’ la sua voce ad aprire la mise en éspace curata da Andrea Baracco: una voce così materica eppure così in disequilibrio. Oscura, dolente, contorta. Tenera, a suo modo dolce, musicale.

Una voce necessariamente “incompiuta” per potersi rendere disponibile a generare continuamente nuove aderenze linguistico-morfologiche aspre e ruvide. Come quelle che agitano la vita. 

Una voce necessariamente “incompiuta” com’è la natura della conoscenza per noi umani: “sempre da dilettanti, altrimenti non ci sarebbe letteratura”.  

Una voce necessariamente “incompiuta” perché, come la sua scrittura, visceralmente ossessionata dalla necessità di essere “vera”. E quindi costantemente sul ciglio del precipizio, prossima al crollo.  

Vitaliano Trevisan

Ora, soffiando in scena la sua aura, può prendere avvio la rievocazione del suo stare al mondo, che coincide con la particolare postura della sua scrittura.

Ecco allora entrare in scena coloro che fortemente hanno sentito il desiderio di ricordare l’unicità della vita di Vitaliano Trevisan, ritessendola in un arazzo di cui le loro voci si fanno fili.

E’ così che Jacopo Squillazzo – che ne cura l’intreccio drammaturgico – ci propone di partecipare ad una lettura a ritroso della vita di Trevisan, partendo appunto dall’ultimo libro “Black Tulips” e dalle esperienze legate alla fuga in Nigeria, suo paradiso di autenticità esistenziale. 

E’ Valerio Binasco ad incarnare le parole di questo testo e a rendere la morfologia di un Trevisan appesantito dal continuo essere attraversato dalla vita così come dalla morte. Ce ne parla l’efficace postura di Binasco: una postura rigida, gravata dal carico che sembra materializzarsi sulle sue spalle, che ne restano schiacciate. Ma reggono ancora queste spalle – facendosi “trasparenti” – il peso dei molteplici frammenti che agitano il caos esistenziale.

Valerio Binasco

Ai suoi passi da sessantenne in Nigeria si intrecciano, diversamente ossessivi, quelli del quarantenne Trevisan dei “Quindicimila passi”. Vivono nella voce di Gabriele Portoghese che ne rende lo stupore ironicamente drammatico del constatare che nulla torna nei conti dei passi. E intanto tutta questa fatica del contare gli ha fatto perdere il senso delle mete raggiunte. Ma gli ha permesso, evitando di farsi cogliere di sorpresa, di non sprofondare nell’abisso esistenziale.

Una modalità – questa di inscrivere nello spazio dei passi e della carta il suo distacco dal dolore esistenziale – che l’arte può assumere per rappresentare credibilmente “la pena riflessiva” della vita: quel rimuginare senza orizzonte che non conosce pace per l’anima. “Un’ arte del tempo”: la sola adatta a rendere ciò che è mobile.

Gabriele Portoghese

Dall’arte ossessiva del contare si arriva di nuovo in Nigeria: qui ad abitare Trevisan è l’ossessione cromatica del suo biancore, e quello di pochi altri, su tutto questo paradiso di nero. Dove ci si può ancora permettere di sdraiarsi sulle panchine.

Privilegio che i veneti e i vicentini non approverebbero, ossessionati quali sono da quel tanto fare (“il mal della piera”) senza però riuscire a “sapersi vendere”. Ed è l’espressività dell’affascinante minimalismo mimico di Daria Deflorian a farsi carne nelle parole seminate in “Tristissimi giardini”.  

A lei il compito di “rappresentare” ad esempio il fascino irresistibile di una caduta, come quella che avviene anche in amore, resa con le suggestioni e i ritmi di quella musicalità jazzata propria degli “standards”. Ma Trevisan, e con lui la Deflorian, vanno oltre: qui non c’è il gusto per il gioco ma il riconoscimento di una modalità che rende credibile il pulsare dei pensieri della vita. Ai quali si tende a rimanere legati come ad una catena.

Daria Deflorian

E mentre prosegue l’intreccio della tessitura a 6 mani della vita e della scrittura di Trevisan, noi del pubblico abbiamo come la sensazione di passeggiare accanto a Vitaliano, provando a seguire i suoi passi e le sue fughe, grazie al disegno “libero” dell’arazzo, che intanto si sta componendo. E che rimarrà “fatalmente incompleto”. 

Un’inspiegabilità “che non è un invito a risolvere enigmi, non è un invito ad essere arguti, bensì un ammonimento della morte al vivente: ‘Io non ho bisogno di spiegazioni, (…) pensa solo che con questa decisione tutto è finito’» ( da “Accanto a una tomba”, in Standards, vol. 1, Sironi, 2002).

“Farmi domande, a questo mi attengo”: il lavoro “manuale” della scrittura di Trevisan non pretende infatti mettere ordine nella vita, quanto piuttosto renderne – in modo rigorosamente ordinato – l’intrinseco disordine.

Vitaliano Trevisan

Una notte, quella di ieri sera dedicata a Vitaliano Trevisan – in un Teatro Basilica intasato da tutti coloro che non hanno resistito a tornare a rileggere ancora e ancora lo sguardo di un uomo spigoloso, crudo e illuminante qual era lui  – che non sarà l’unica. 

Questo  progetto, che nasce qui a Roma al Teatro Basilica ed è curato da Carnezzeria (direzione artistica Emma Dante e Aldo Grompone), viaggerà infatti in altre città italiane.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo I MASNADIERI di Friedrich Schiller – regia di Michele Sinisi

TEATRO BASILICA, dall’ 11 al 28 Aprile 2024 –

Sono ragazzi di oggi, ma basta un accessorio e si vestono di passato.

Sono “persona” e “personaggio”: in trasparenza. Si presentano anagraficamente come persone e ci anticipano qualcosa di essenziale del loro personaggio, del suo destino.

Sono voce d’entusiasmo; sono corpi dotati di un eccesso di energia.

Non ci celano nulla, tutto è “a vista”: i cambi d’abito, gli inserti musicali. Le entrate e le uscite non conoscono quinte. Neanche quando i corpi si preparano ad entrare dentro altri corpi, dentro altre posture, dentro altre vocalità.

E’ la storia di padri e di figli, di ieri e di oggi. E’ la storia di eredità affatto interessanti: troppo distratte, troppo proibitive. Che generano figli, testimoni degli stessi eccessi.

E’ un tempo inquieto: come il nostro, come ciclicamente capita si verifichi.

E’ una storia di intrighi e di violenza che non esclude però l’apertura verso “un inno alla gioia”: quegli accordi composti da Schiller nel 1775 e musicati da Beethoven nel 1826 continuano a risuonarci.

Questo dramma teatrale, rappresentato nel 1782 a Mannheim da un giovane Schiller, fu un successo clamoroso: si racconta che durante la rappresentazione alcune signore siano svenute dall’emozione e che gli spettatori si siano abbracciati perché coinvolti emotivamente dall’azione. Qualcosa di simile accadde alla rappresentazione del 1898 di Stanislavskij de “Il gabbiano” di Cechov.

E anche ieri sera, nella sublime cornice del Teatro Basilica, a fine rappresentazione grande è stata la commozione e l’entusiasmo del pubblico.

Gli interpreti del Gruppo della Creta(in o. a.) Matteo Baronchelli, Stefano Braschi, Vittorio Bruschi, Jacopo Cinque, Gianni D’Addario, Lucio De Francesco, Alessio Esposito, Lorenzo Garufo, Amedeo Monda, Laura Pannia, Donato Paternoster – guidati dall’ acuto sguardo registico di Michele Sinisi, riescono davvero molto efficacemente nel trasmettere tutta la potenza e tutta la necessità che anche il nostro secolo – che tende a concentrarsi nel “ruminare il passato” – ha di qualcosa e di qualcuno che favorisca il fermento, proprio come “lievito di birra”.

Una necessità di padri che sappiano essere padri rigorosi ma stimolanti e di figli che ereditino lo stimolo della “legge del padre” per fermentare fertilmente.

E – come già sosteneva vibrantemente Schiller – è il Teatro quella “istituzione morale” capace di rendere fecondo “il gioco” della vita: quello tra padri e figli, tra singolarità e collettività, tra ragione e sentimento.

E ci riesce attraverso “la bellezza” della sua Arte: facendo “cadere le bende dagli occhi” e sublimando “la vanità puerile” in impegno collettivo.

Dando vita così a un nuovo Umanesimo.

Il regista Michele Sinisi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA LEZIONE di Eugène Jonesco – regia di Antonio Calenda –

TEATRO BASILICA, dal 6 al 10 Marzo 2024 –

E’ una danza, un rituale di sublime bellezza la messa in scena de “La Lezione” di Eugène Jonesco per la regia di Antonio Calenda, che ieri sera ha debuttato a Roma nella metafisica cornice del Teatro Basilica.

Teatro Basilica

La prossemica ha la grazia di una coreografia; la vocalità veste i toni del canto; i corpi raccontano ciò che le parole non sanno dire.

Quando i principi della logica saltano, a parlare è la lingua dell’inconscio: quella dove eros thanatos amano darsi appuntamento.

Complice la raffinata drammaturgia delle ombre (disegnata da Luigi Della Monica) che, bisbigliando possibili pericoli, lascia scoperti i nervi della platea.

Così anche la scena (di Paola Castrignanò): elegante e altera cela in sé, al di là della solidità apparente, misteriosi vuoti inquietanti.

E poi i costumi (la cura è di Giulia Barcaroli):  impeccabili  “divise di ruolo” borghesi, che proprio per la loro maniacalità realistica insinuano dubbi sulla realtà stessa. 

Nando Paone (il Professore) e Daniela Giovanetti (l’Allieva)

Di magrittiana bellezza la scelta registica di far sì che l’entrata in scena del Professore – interpretato da un Nando Paone mirabilmente a suo agio tra realismo e surrealismo – sia anticipata dall’entrata del suo “cappello di rappresentanza” (per mano della Governante : un’efficacissima Valeria Almerighi). Non sarà mai indossato ma resterà sempre in scena, come tributo (ipocrita) alle apparenze borghesi.

Nando Paone (il Professore) , Daniela Giovanetti (l’Allieva) e Valeria Almerighi (la Governante)

Nonostante l’ossequiante rispetto delle formalità borghesi, lo spettatore è condotto dal regista nell’individuare  l’insinuarsi sulla scena di inaspettate perversioni alla norma. 

Non ultimo, il fatto che la scena si svolga in un (apparente) studio ricavato da una sala da pranzo: luogo deputato alla consumazione del pasto. Ma anche i contenuti di una lezione richiedono di essere ben masticati da un allievo o da un’allieva (qui da una candida e irresistibile Daniela Giovanetti).  Altrimenti sarà cura del Professore impartire un altro tipo di lezione: una lezione esemplare.

Nando Paone (il Professore) e Daniela Giovanetti (l’Allieva)

Delicatamente erotico è lo stile che il regista sceglie acutamente di seguire per lasciarci fin da subito assaporare come la comunicazione possa prendere un gusto ambiguo, al di là delle regole costruite dalla logica.

Inclusa la stessa tensione tra professore e allieva: in bilico tra il distacco didattico e l’attrazione alchemica. Ma così è: lo diceva già Platone che s’impara solo per seduzione. E lo stesso professore di Jonesco ne è consapevole: più volte si rimprovera di non aver fatto degli esempi “efficaci” difronte alla mancata comprensione dell’allieva. E allora si lancia in una modalità incantatoria che poi vira al parossismo.

Daniela Giovanetti (l’Allieva) e Nando Paone (il Professore)

Perché “insegnare” significa etimologicamente lasciare un segno sull’allievo, lasciare delle tracce.  Jonesco stesso definiva questo suo testo un “dramma comico”: un umorismo che mira a confondere e a contraddire quelle che chiamiamo certezze.

Perché in realtà siamo immersi nell’ambiguità del caos delle informazioni.

Le convenzioni della logica ci aiutano ad intenderci sì, ma dimenticano “le diversità” di cui si compone la verità. 

Valeria Almerighi (la Governante) e Nando Paone (il Professore)

Recensione dello spettacolo ERODIADE di Giovanni Testori – regia Marco Carniti – con Francesca Benedetti

TEATRO BASILICA, 21 Febbraio 2024 –

Non fu con gli occhi il loro primo incontro.

Fu con la voce: quella di lui, calda, tonitruante.

Così è l’orecchio di Erodiade l’ingresso attraverso il quale prende corpo tutta la potenza dannatamente erotica di Giovanni Battista. Ed è questa sua carnale carica vocale che l’Erodiade di Francesca Benedetti riesce ad “ereditare”.

E’ una mirabile Francesca Benedetti quella infatti che ci si da’ attraverso l’oscura sensualità della voce che si scopre carne: quella del Battista, quella che tanto l’aveva “inchiodata”.

E che ora inchioda noi del pubblico.  

Francesca Benedetti

Se per qualche ora Erodiade può finalmente stringere un frammento di quel corpo tanto desiderato e negato, per sempre conserverà in sé quella sua rovente tattilitá vocale e la tenebrosità di quei colori.

È un “laiare” (un lamentarsi, verbo derivato dal termine “lai”) che la Benedetti plasma. Se ne hanno echi sulle mani, sulle tensioni interiori che danno forma ai drappeggi della sua tunica. E poi in quelle trasformazioni del respiro. 

Il trono dal quale parla, finalmente sola con quel che resta di Giovanni Battista, è un’elegante e minimalista installazione che oltre ad essere un trono allude alla stilizzazione di una croce: quella sulla quale lei si offrirà come vittima, in una fusione cromatica disperatamente commovente.

Erodiade, il personaggio biblico spesso messo in ombra dalla sensualità della figlia Salomè, nel testo di Giovanni Testori racconta il suo disperato amore per Giovanni Battista e l’inaccettabile rassegnazione davanti alla sua scelta di morire martirizzato, piuttosto che cedere alle sue offerte amorose. Un’Erodiade vittima, non carnefice.

Francesca Benedetti

La regia di Marco Carniti sceglie con efficacia di incentrarsi sull’ossessione di Erodiade a voler “decidere”: sul suo non rassegnarsi a subire la scelta castrante del Battista. Ad avere anche lei parte attiva, pur consapevole di agire dentro un finale in realtà predestinato.  Suo è il desiderio ossessivo di “decidere” e quindi di “tagliare”, reso con lacerante e compulsiva efficacia anche dalla drammaturgia sonora di David Barittoni.

Francesca Benedetti e Marco Carniti

Una magnifica ossessione che prende forma dalla fusione alchemica che si realizza all’interno del flusso di coscienza che Testori affida ad Erodiade. E che si manifesta attraverso l’inchiodata dirompenza dell’interpretazione di Francesca Benedetti che, come in un basso rilievo, si staglia dal fondale dei suoi stessi pensieri. Un fondale che prende forma attraverso il multiforme scorrere di quei disegni con la stilografica delle oltre settanta posizioni della testa recisa del Battista, che effettivamente nacquero nella mente di Giovanni Testori parallelamente alla gestazione della scrittura di questo lacerante lamento.

Uno spettacolo che onora la ricorrenza del centenario della nascita di Giovanni Testori e la vertiginosa poliedricità della sua parola materica.

Francesca Benedetti è viva e vibrante testimonianza del continuare ad esserci di Giovanni Testori.

L’affluenza straripante e incontenibile ieri sera al Teatro Basilica la prova del suo essere ancora così necessario.

Bisogna amarsi meno,

bisogna lasciare al tempo

l’ingorda gioia d’insegnare

che l’amore non è ricevere,

né dare,

ma lasciarsi prendere,

affondare

—-

Giovanni Testori

(da Non a te nudo amore, di Massimo Recalcati e Nicola Crocetti)

*************************

Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SMARRIMENTO – scritto e diretto da Lucia Calamaro – per e con Lucia Mascino

TEATRO BASILICA, dal 25 gennaio al 4 febbraio 2024 –

Che cosa c’è prima di un inizio?

Che cosa c’è prima di una scelta che taglia via tutte le altre possibilità in cui può iniziare un inizio ? 

Che cosa c’è prima di un “now”?

Lucia Mascino

C’è ciò di cui ci fa dono questo meravigliosamente smarrito spettacolo di Lucia Calamaro.

C’è il caos, c’è l’assenza dei principi della logica, c’è il mondo del sogno, c’è il regno dell’inconscio.

C’è tutto ciò che ci spaventa di più, o che ci imbarazza facendoci sorridere. 

Lucia Calamaro

Autrice e Regista

C’è quello che la metafisica Lucia Mascino provoca in noi, qui parti del suo ‘Io’ e del suo “Super Io”. Parti che lei interroga, cercando di tenerle tutte insieme: come in un condominio esistenziale. 

Ma la Mascino è così fascinosamente smarrita che arriva a contagiarci fino a far diminuire progressivamente la nostra tendenza a mettere argini al suo caos. 

Lucia Mascino

Tutto in lei recita: incluso il bianco che indossa. Inclusi i capelli: così smarritamente acconciati. E poi gli occhi: cosi sbigottiti e calamitanti. Due sirene blu.

Blu come un deliquio momentaneo, immerso in un microcosmo e in un macrocosmo di bianco: il colore che contiene tutti gli altri colori e quindi il più ricco in possibilità. 

Una ricchezza che atterrisce per la difficoltà provocata dalle attese, “dai tanti occhi” e dalla stratificazione dei saperi. Una ricchezza che non aiuta a scegliere, tagliando via tutte le altre direzioni. Una densa consapevolezza esistenziale che a volte ci porta ad invidiare “i comodoni o gli ossessivi”, coloro cioè che sanno sempre cosa fare, in un senso o nell’altro. Senza accorgerci invece di come siamo fortunati a smarrirci: “se non fosse per questo, ma perchè ?” – conclude, complice, la Mascino prima degli applausi finali (scroscianti).

Lucia Mascino

Smarrirsi è l’attesa gestazionale che precede, ogni volta, l’epifania di “un incontro”, di un’ispirazione. E’ una sorta di “atopia socratica”: un sentirsi in nessun posto, un po’ “come dopo che ti hanno dato una botta in testa”- traduce la Mascino. Una sensazione unica, speciale, “da sussurri”, intima: fertile proprio perché vuota e quindi ricca di mancanze. Talmente vera che sembra finta. “E pensare che ci tenevo tanto ad avere una vita normale” – chiarisce con arguzia la Mascino.

Smarrirci é ciò che ci costituisce come esseri umani – sosteneva Hannah Arendt – che proponeva di definirci “natali” e non “mortali: tutti moriamo, è vero, ma anche tutti nasciamo. Tutti iniziamo continuamente. facoltà di ciascuno è proprio quella di poter essere – “ogni volta che il possibile non è più abbastanza” – un nuovo inizio. 

Lucia Mascino

Un “nuovo scatto d’umore” da proteggere, amare e tutelare dal giudizio esterno. Anche con un bel “oggi ho i nervi a fior di pelle, lasciatemi stare”. Perche l’acume è instabile e va ogni volta ritrovato. Perché tanta sensibilità a fior di pelle va recuperata con una “convalescenza”.

Recita l’elegante accessorio indossato dalla scrittrice in scena: una custodia per carta e penna, strumenti di lavoro di chi é in attesa di una nuova ordinazione (ispirazione divina), da servire (pubblicare) al pubblico.

Un testo e una regia, questi di Lucia Calamaro, geniali e profondissimi, resi mirabilmente fruibili dai sagaci sottotesti espressivi della fluida ed epica Lucia Mascino.

E il pubblico ne gode.

Lucia Mascino


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LETIZIA VA ALLA GUERRA: la suora, la sposa e la puttana – di Agnese Fallongo – regia di Adriano Evangelisti

TEATRO BASILICA, dal 9 al 14 Gennaio 2024 –

Spesso la vita ci chiude in una cornice, bloccando la nostra progettualità. O forse no: forse la vita, proprio mettendo un limite, ci ingegna a portare a compimento i nostri desideri per altre vie. Per altre vite.

Agnese Fallongo

L’estrosa circolarità di questa brillante e commovente trilogia drammaturgica di Agnese Fallongo regala un’apparente indipendenza alle tre storie raccontate. In verità, viste nel loro insieme, le storie mostrano numerose connessioni fra loro in quanto elementi di un’opera pensata nel suo complesso, dove ogni progettualità va letta in rapporto con le altre.

Tiziano Caputo e Agnese Fallongo

Le tre protagoniste delle tre storie ad una prima lettura sono legate tra loro dall’aver ricevuto lo stesso nome “Letizia” e dall’essere state “castrate” dallo scenario nel quale si ritrovano immerse. Poi si scoprirà altro. Ma la cosa più preziosa che la drammaturgia e la stessa regia di Adriano Evangelisti sembrano suggerire è che queste donne, al di là degli impedimenti esistenziali, vengono “salvate” e quindi riconusciute nel loro valore, proprio perché le loro storie sono state “raccontate”. Perchè abbiamo dedicato loro la nostra attenzione. Le abbiamo amate.

Etimologicamente “Letizia” è un nome proprio che ci parla di colei che, essendo fertile, crea e dona frutti. Nome omen: un nome, un destino. Le tre figure femminili infatti sanno fare, di quello che gli altri hanno fatto di loro, qualcosa di fertile e di donativo. Nonostante i condizionamenti del microcosmo familiare e del macrocosmo storico-sociale le tre femminilità, simbolo di un’intima trilogia a fondamento della psicologia della donna, proprio nel lasciasi spazio a vicenda, riescono a dare sostanza a progettualità. 

Tiziano Caputo

Mirabile la resa dello spazio scenico, la drammaturgia delle luci ma soprattutto quella affidata ai canti dei due protagonisti in scena (Agnese Fallongo e Tiziano Caputo), dove la malinconia drammatica sa legarsi ad una tenace propositività. Efficacissima la scelta di rendere alcuni canti (accompagnati dal vivo dalla chitarra di Tiziano Caputo) e piccoli monologhi indecifrabili. Ma solo se attraversati dai principi della logica: eloquentissimi invece per la nostra logica “arcaica”. Dei veri gioielli di elegante espressività.

Agnese Fallongo e Tiziano Caputo

Le cornici vuote che abitano la scena, regalando poliedriche prospettive, vengono utilizzate con acutezza (il coordinamento creativo è curato da Raffaele Latagliata) per rendere i vari sottovesti del concetto di “limite”: come elemento che sancisce una separazione; come luogo d’incontro e come confine da oltrepassare.

Agnese Fallongo e Tiziano Caputo

La regia e l’interpretazione dei due attori Agnese Fallongo e Tiziano Caputo regalano una magistrale resa, quasi cinematografica, dei passaggi narrativi (fluidi o a schiaffo), dei primi piani e degli a parte. 

Molto belle anche le scelte comunicative rese dalla prossemica e in generale il duttile e quindi generoso lasciarsi attraversare da parte degli interpreti dalle “anime” dei diversi personaggi.

Tiziano Caputo e Agnese Fallongo

Lo spettacolo resterà in scena al Teatro Basilica fino al 14 gennaio 2024.


Recensione di Sonia Remoli