LA CANZONE DI TETI – L’Iliade, l’amore e la guerra – regia Joele Anastasi

PARCO ARCHEOLOGICO DELL’APPIA ANTICA

27 giugno 2025

Una seducente ed oscura melodia al basso elettrico inquieta gli incantevoli spazi del Mausoleo dedicato a Cecilia Metella, immerso nel leggendario Parco Archeologico dell’Appia Antica. Complice un insistente refolo di vento, la melodia si diffonde persistentemente tra il pubblico, trasportando nell’aria sentori di un imminente cambiamento. Che sa di passato. Che sa di presente.

Mausoleo di Cecilia Metella

Dopo 10 anni si conclude una guerra: gli Achei entrano a Troia e le loro  fiamme uccidono tutto e tutti: indistintamente. Qualcuno fugge. E sarà proprio “un rifugiato” a fondare la città di Roma: Enea, che con sé è riuscito a portare il padre Anchise e il figlio Ascanio.

Mausoleo di Cecilia Metella: lo spazio scenico e la platea

Ci parlano di guerra – non solo quella descritta nell’Iliade – una giovane donna (la fantasmagorica Paola Balbi) e un giovane uomo (il poeticamente tenebroso Davide Bardi), diretti da Joele Anastasi – che non hanno vissuto personalmente l’esperienza della guerra ma che l’hanno “sentita raccontare”. Ieri e oggi.

Ad esempio dai loro nonni. 

Ad esempio da donne come la storyteller palestinese Fidaa Ataya e la storyreller libanese Sarah Kassir, che ora vivono in zone di guerra. 

Ma anche da uno storyteller della Martinica –  Valer’Egouy – che ha aiutato il cast a comprendere le dinamiche psicologiche e sociali della schiavitù. 

Le loro testimonianze sul campo sono entrate costantemente ad impreziosire questo interessante progetto di storytelling di e con Paola Balbi e Davide Bardi: “La Canzone di Teti”, un’audace commistione di storytelling, epica e impegno sociale.

Paola Balbi e Davide Bardi

Uno spettacolo che lega la guerra di oggi a quella di ieri attraverso il racconto di una madre: Teti, la madre di Achille. La sua “canzone” – ovvero il suo racconto poetico, cromaticamente musicato dai diversi ritmi del tamburo, del basso elettrico e dell’armonica a bocca e incastonato nella bellezza sacra di un rito – ci chiama tutti in causa, ci coinvolge, ci tocca nel profondo. Parla di noi. 

Parla di noi come individui appartenenti ad una comunità. 

Paola Balbi e Davide Bardi

E lo fa attraverso la magia del “racconto”, che si fonda sul desiderio di entrare in relazione con l’altro: in uno scambio immediato.

Una ritualità che pone l’accento sulla parola, prima magia dell’uomo. Attraverso la quale avviene la genesi dell’impossibile, che passa per l’intonazione della voce, per la scelta dei verbi, per il ritmo del respiro su cui si regge il suono.

Davide Bardi e Paola Baldi

Si dice che l’uomo prima di parlare abbia cantato, che prima di scriver prosa abbia fatto poesia. Perché tra l’uomo e la poesia c’è un rapporto naturale, fatto di un camminare con occhi pieni di meraviglia.

Che è un pó il modo di stare al mondo del “pellegrino”: dello straniero, dell’errante che compie un viaggio in luoghi sacri e profani. Fuori e dentro di sé.

L’edizione di quest’anno del Festival Internazionale di Storytelling  – evento ideato e organizzato dall’associazione culturale Raccontamiunastoria, la cui direzione artistica è curata da Paola Balbi e da Davide Bardi – è stata infatti intitolata “Muse e Pellegrini”, anche in connessione con il Giubileo 2025, trasformando così Roma in un crocevia si storie, culture e spiritualità.

Prossimo evento

conclusivo del Festival Internazionale di Storytelling

Domenica 29 Giugno 2025 ore 20:00

“Soltanto io ti amo: Pietro e Maria Maddalena”

Performance di Storytelling/Sacra rappresentazione di e con Paola Balbi e Davide Bardi

presso la Basilica di San Sebastiano Fuori le mura (via Appia Antica, 136)

Il racconto appassionato ed emozionante di un pescatore con una famiglia ed una vita normale e di una prostituta con un passato di sofferenza e miseria. Due storie di infuocato amore, grande passione e profonda tragedia, ambientate in un’epoca tormentata dalla guerra di conquista, dalla fame e dalla violenza. Due personaggi in netto contrasto, ma uniti dall’enormità degli eventi che scossero le loro vite. Concrete, forti, emotive, le storie di Maria Maddalena e Pietro parlano di spiritualità passando per i cinque sensi, facendo sentire al pubblico la profondità delle acque su cui Gesù camminò e la polvere che qualcuno lavò dai suoi piedi.


Festival Internazionale dello Storytelling:

un’occasione unica

per perdersi nel potere delle storie

ritrovare il piacere dell’ascolto

e

vivere Roma come non l’avete mai vista.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL VAJONT DI TUTTI – Riflessi di speranza – scritto e diretto da Andrea Ortis

TEATRO AMBRA JOVINELLI, 21 e 22 Novembre 2023 –

È la storia dell’acqua.

L’acqua, risorsa naturale così abbondante in Italia e dono così prezioso, offerto dal suolo che ci ospita.

Un dono scambiato per possesso. 

Un dono che pur essendo abbondante non risulta sufficiente a nutrire quell’ingordigia che a volte offusca il cuore dell’uomo.

Andrea Ortis

Lo sguardo del friulano Andrea Ortis – autore, attore e regista di questo appassionato e appassionante spettacolo – fa sì che sulla scena la storia scorra su due flussi narrativi. Quasi due torrenti d’acqua che a loro modo parlano, ricordano, piangono, testimoniano. Per non dimenticare. Per impedire che prendano ancora forma disastri torbidi e tragici di questa portata.

Il torrente narrativo di Ortis scorre sul proscenio: il suo è uno storytelling puntualissimo nei contenuti – sostenuti anche da una storica e tecnica documentazione visiva – e nostalgicamente poetico nel sentire più profondo.

È un senso della memoria, il suo, forgiato da un desiderio di fedele testimonianza che si vena di accenti di quel lirico languore proprio di chi ha vissuto quell’attraversamento tra il prima e il dopo e che avverte viscerale la consapevolezza che l’uomo tende a smarrire l’intimo legame a sentirsi in armonia con la natura.

Una testimonianza che – scevra dalla rassegnazione – si carica della volontà ad impegnarsi nel rinsaldare una rispettosa continuità tra la storia della natura e quella dei suoi ospiti, presto – sia spera – consapevoli e disponibili a farsi “docile fibra dell’universo” – come scriveva Giuseppe Ungaretti.

Michele Renzullo e Selene Demaria in una scena dello spettacolo

Alla narrazione di Ortis s’intervalla quella di chi è sopravvissuto al dramma e fatica a mandar via quell’insopportabile odore tipico del senso di colpa per essere vivi. Alcune scene sono rievocate mirabilmente come dentro la diga stessa, utero maledetto. E una tremenda emozione ci assale. Ma è in nostro potere riuscire a fare del buio del dramma qualcosa di interessante, di fertile per il nostro futuro. E allora proprio da quell’utero maledetto, che ci lega a non dimenticare, ci può arrivare il dono di una nuova e potente consapevolezza.

Infatti, seppur “Perché sei vivo?” sia la domanda che ossessivamente assilla chi resta, la tentazione a sentirsi in colpa può essere splendidamente sublimata dal pulsante orgoglio a sentirsi eredi e quindi testimoni. Per non dimenticare il passato e quindi non essere costretti a ripeterlo. Perché “la storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare”. 

In un magnifico gioco scenografico di presenze/assenze pluri presenti – regalato da un sapiente uso della drammaturgia delle luci su una superficie velata – riesce ad imporsi allora anche visivamente l’urgenza di raccontare.

Ed è la storia del loro vivere quegli anni ’40 -’50- ’60 ignari che il tempo che li separa dal tragico destino sia segnato non solo da momenti di ritrovata spensieratezza post bellica ma anche da torbide complicità su superbi deliri di onnipotenza.

Jacopo Siccardi, Elisa Dal Corso e Mariacarmen Iafigliola in una scena dello spettacolo

Ecco allora l’avvicendarsi di momenti in cui ci si ritrova insieme anche a cantare, a “godere fantasticamente del proprio corpo unificato» come diceva Roland Barthes. Ed è mirabile l’interpretazione dei ragazzi de La Compagnia della Rancia, dove dalla partitura delle voci riesce ad emergere “una grana” che sa farsi corpo.

Una cifra stilistica degli spettacoli di Ortis questa, dove anche e soprattutto attraverso il canto si raggiunge una potentissima forma di comunicazione con il pubblico.

Ma ad essere rievocate sono anche le scene degli inquietanti luoghi dove si presero superficiali decisioni, nonostante voci autorevoli si fossero battute, prove alla mano, andando oltre il chiudersi in un “Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”. Piuttosto salvando proprio quel valore simbolico così fondamentale proprio della parola “tutti”.

Una parola così carica di potente energia non può finire per farci mollare. “Tutti” infatti ha la forza rivoluzionaria del tenerci insieme, “aggrappati” gli uni agli altri, per essere un’autentica comunità che lotta contro egoistici “a solo”. 

In occasione dell’anniversario dei 60 anni della tragedia che colpì il Vajont il 9 ottobre 1963,

la MIC – International Company, in coproduzione con il Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia e in collaborazione con Compagnia della Rancia, ha scelto di portare in scena, con una tournée nazionale nei più importanti teatri italiani, “Il Vajont di tutti, riflessi di speranza”.

Lo spettacolo, che si avvale del sostegno della Regione del Friuli, dopo essere andato in scena in anteprima proprio sulla Diga del Vajont – nell’ambito degli eventi per la celebrazione dell’anniversario-  è approdato a Roma, al Teatro Ambra Jovinelli.


Recensione di Sonia Remoli