LA LENTE SCURA – di Anna Maria Ortese – regia Lucia Rocco

Racconti romani: un ciclo di opere letterarie di ambientazione romana per un viaggio indimenticabile nella letteratura italiana


TEATRO TORLONIA

dal 5 all’8 Giugno 2025

In uno spazio densamente simbolico – il cui progetto scenico è curato da Marta Crisolini Malatesta – tre aperture fanno da confine al passaggio tra ciò che è interno e ciò che è esterno, tra il sopra e il sotto. Tra il sogno e la veglia. Tra il guardare e l’essere guardati. 

Un passaggio che allude non solo al viaggio in treno della Ortese verso la Capitale ma ad un viaggio interiore. Costellato di aperture che solo apparentemente fanno da confine tra ciò che è più chiaro e ciò che è più oscuro. Una fluidità insolente e  malinconica, a cui alludono le sonorità di Ran Bagno. Così come i contributi video di Alessandro Papa.

E’ un viaggio dove occorre mettersi in ascolto, in silenzio. E guardare dentro di sé. E poi fuori. E ancora dentro. Ancora. Limitando i movimenti, “senza sprecarsi”. 

E’ un viaggio che chiede di essere visto e di lasciarsi vedere attraverso una “lente scura”: un ossimoro. 

Anna Maria Ortese

Anna Maria Ortese sceglie la figura retorica dell’ossimoro per accogliere suggestivamente questa sua raccolta di resoconti di viaggio in giro per l’Italia, e non solo, originariamente usciti su varie testate fra il 1939 e il 1964.

Lo fa per attirare la nostra attenzione: l’inatteso accostamento di termini opposti tende a sorprendere il lettore, invitandolo a riflettere sul significato che si cela dietro la contraddizione. 

Lo fa per aiutare il nostro sguardo a perdersi dietro al suo. Ci vuole infatti qualcosa che faccia arrivare subito la sensazione di un contrasto, di un’opposizione che, pur sembrando paradossale, riveli però una verità più profonda, o una sfumatura di significato nascosta. 

E l’ossimoro, come una lente scura, può essere utilizzato per indagare sugli aspetti contraddittori dell’esperienza umana. Perché è proprio l’accostamento di termini opposti a permetterci di esplorare le complessità della realtà, avvicinandoci alla possibilità di esprimere concetti, che sarebbero difficili da comunicare in un modo più convenzionale. 

Federica Piccolo

Il termine “lente”, infatti, è per eccellenza simbolo di ricerca, di indagine e di comprensione completa della realtà. La lente aiuta a veder meglio, più in profondità, con più chiarezza, evidenziando dettagli che altrimenti sarebbero sfuggiti.

Qui, invece, la Ortese associando al termine “lente” l’aggettivo “scura” raggiunge l’effetto di fermare per un attimo la nostra attenzione. “Ma come?” – ci viene da pensare.

Al di là di ogni facile pessimismo, quello della Ortese è un invito programmatico ultra realistico: il mondo chiede di essere inseguito – e non catalogato – per essere riconosciuto. Occorre leggerlo, anzi “sentirlo”, e tentare di scriverlo come si farebbe con un mistero: nel suo darsi come “oscuro”. Come suggestivamente suggerisce la drammaturgia del disegno luci di questa mise en scène di Lucia Rocco.

Un’oscurità che non è tanto una condanna, né solo una privazione. Ma anche fascino: incanto per ciò che non può essere posseduto appieno. E che quindi va continuamente ricercato. E che se si mostra, non è semplice da descrivere.

Lucia Rocco

E lo spazio scenico immaginato dalla regia di Lucia Rocco ne è una fascinosa visualizzazione. Che aiuta lo spettatore, fin dall’entrata in sala, a liberarsi del superfluo e a rendersi disponibile a guardare il mondo e a lasciarsene guardare, seguendo la “lente scura” della scrittura della Ortese. Di cui Francesca Piccolo si fa interprete, con la complicità di Federico Gariglio.

Riuscire a “cogliere e fissare… il meraviglioso fenomeno del vivere e del sentire” (da Corpo Celeste) è “la legge del desiderio” della Ortese. 

Perché il mondo per lei “è una cosa fatta di vento e voci, fatta di attese e rimpianto di apparizioni, fatta di cose che non sono il mondo» (da In Sonno e In Veglia). Un mondo che si dà come viva relazione fra tutte le creature viventi, da cui non è esclusa la pietra. Così come la farfalla che, posatasi a curiosare sul finestrino del treno, viene salvata dalla Ortese dall’insensibilità del suo vicino di posto, disposto a sopprimerla.

Urgenza della scrittura della Ortese è, infatti, tentare di restituire questa relazione “cosmica”, assecondandone il movimento: per somiglianze, per spostamenti, per metafore.

Francesca Piccolo – Federico Gariglio

In Corpo celeste, la Ortese insiste sulla necessità di restituire al reale «il significato di appartenenza a un’altra realtà, con la quale sembrerebbe necessario, per rinnovarsi, confrontarsi ogni tanto». E anche lo stesso Pietro Citati nella post fazione a “L’iguana” parla di lei come posseduta da “un ardore, un fuoco incontenibile, a cui la letteratura non sembra bastare”.

Anche il particolare scrivere di luoghi della Ortese sembra rispondere ad una sua intima esigenza dispecchiarsi in essi, come in un viaggio dentro se stessa. Quasi, il suo, un “conosci te stesso” alla volta di un luogo che si possa dire “casa”. Sebbene la Ortese intuisca, a qualche livello, come ogni luogo parli di una parte di se stessa; come ogni luogo celi un condominio di sé, pronti a farsi sentire.

Francesca Piccolo – Federico Gariglio

E quando, qui in “Lente scura“, scrive: “Non auguro a nessuna persona giovane e vagamente dissociata come io ero… di attraversare l’Italia in un dopoguerra subito privo di unità e memoria, come io l’attraversai. C’è da uscirne spezzati. Tutto sembra estraneo, meraviglioso e spietato insieme: siete in casa d’altri!” – non si può non andare con il pensiero a quell “io che non è padrone in casa propria” di cui parlava Freud.

Acutamente la stessa interpretazione di Francesca Piccolo sa muoversi su un registro molto vicino al registro della poesia. Dove un sottile e sublime piacere nasce dallo smarrimento e dalla paura per qualcosa di magico, di sacro. Anche quando parla di considerazioni politiche o filosofiche.

La scrittrice mai rinuncerà a posizioni critiche nei confronti dell’ingiustizia sociale: un tenace impegno etico pervade le pagine dei suoi romanzi e dei suoi racconti, così come ben proposto in scena dal sincero appassionarsi di Francesca Piccolo. Né mancherà di essere critica verso quel mondo letterario, dal quale si sente ingiustamente respinta e a cui sente di appartenere. 

E così la Ortese, guidata da una curiosa e mai soddisfatta irrequietezza, lasciandosi trasportare dagli oscuri vagoni di un treno o dai piccoli sedili di una Topolino, ci porta a fare esperienza di come il dopoguerra abbia trasformato l’anima di città straordinarie, avvolgendola in uno spirito triste d’inevitabile decadenza, al di là delle splendide apparenze.

Roma, ad esempio, che ad un primo sguardo ammalia e sembra preannunciare una libertà da capogiro, in realtà risulta immersa nella disattenzione. Che la porta a non generare una borghesia vitale ma solo “un grumo di sangue benestante”; così come senza alcuna tensione è lo spirito del  popolo che, non essendo affamato di cultura, non può pensare di esercitare alcun potere. 

Federico Gariglio – Federica Piccolo

Anche i caffè letterari di Piazza del popolo sono abitati da “gente straziata senza saperlo”. Una città mutilata, “governata chissà da chi”, che riporta alla memoria della Ortese alcuni versi di Eugenio Montale, da “La casa dei doganieri”:

Tu non ricordi la casa dei doganieri

sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:

desolata t’attende dalla sera

in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri

e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura

e il suono del tuo riso non è più lieto:

la bussola va impazzita all’avventura

e il calcolo dei dadi più non torna.

Tu non ricordi; altro tempo frastorna

la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana

la casa e in cima al tetto la banderuola

affumicata gira senza pietà.

Ne tengo un capo; ma tu resti sola

né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende

rara la luce della petroliera!

Il varco è qui? (Ripullula il frangente

ancora sulla balza che scoscende…)

Tu non ricordi la casa di questa

mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

Federica Piccolo

Una poesia che descrive con sublime realismo la condizione dell’animo di una Roma che ha sperso il valore simbolico proprio di una dogana: la sua funzione di confine, capace di regolamentare relazioni. A differenza della Napoli di questo stesso periodo storico, dove la Ortese ha potuto contemplare il perfetto co-abitare del disordine e della bellezza del mondo, fatta di costante attrazione e repulsione. 

Se il mondo è attraversato da contraddizioni che sfidano la sensibilità umana, allora – sembra invitarci a considerare Anna Maria Ortese, con la sua scrittura e con la sua poetica – occorre attenersi a questa realtà, facendosi carico di tale complessità. Senza cercare di  semplificare quello che è complesso e che per significarsi ha bisogno di contraddirsi.

Invito della Ortese che questa mise en scène di Lucia Rocco è riuscita a far entrare nei nostri occhi. Lasciandolo sedimentare, fertilmente.

Si conclude così, ci auguriamo solo momentaneamente, il ciclo di allestimenti della Rassegna Racconti romani: un ciclo di opere letterarie di ambientazione romana, per un viaggio indimenticabile nella letteratura italiana. 

Evento di straordinario interesse per gli appassionati di letteratura, teatro e storia romana. 

Un affascinante viaggio all’interno della magia della parola, primo incanto dell’uomo, curato nella scelta dei testi dal raffinato sguardo di scrittori quali Emanuele Trevi ed Elena Stancanelli. A firmarne le regie sono stati Danilo Capezzani, Maddalena Maggi, Lucia Rocco. 

Sontuoso luogo d’accoglienza, il Teatro di Villa Torlonia che, come auspicato dal Direttore del Teatro di Roma Luca De Fusco, si rivela davvero un congeniale “tempio della letteratura, dove far rivivere il rapporto tra parola detta e parola scritta. Un luogo in cui sperimentare una nuova relazione tra teatro e letteratura”.

Federico Gariglio – Lucia Rocco – Federica Piccolo


Recensione di Sonia Remoli