Recensione FAUST – regia Leonardo Manzan

TEATRO VASCELLO, dal 10 al 22 Dicembre 2024

Il sipario resta chiuso: il “Faust” non può essere rappresentato. 

Se ne può parlare, però: Faust può essere analizzato, portando in scena quel che resta del suo condominio psichico. A noi in platea, il compito dell’ascolto terapeutico.

Obiettivo: evocare e rivivificare, attraverso la magia della parola, il diavolo (Mefistofele). Lui, oggi il grande assente, colui senza il quale il “Faust” non può essere rappresentato. Lui: il produttore, l’impresario. Lui, ora il ”rimosso”: colui nel quale nessuno più crede.

Leonardo Manzan

Questa volta Leonardo Manzan, sagace e mordace osservatore della realtà, immagina di portare in terapia il teatro: un teatro nel teatro dell’inconscio. 

I protagonisti che manda in scena ricordano i pirandelliani personaggi non più in cerca d’autore, quanto di un produttore. Il loro linguaggio è pieno di figure retoriche, di metafore, di allegorie, di metonimie: di quell’enigmaticità colta e creativamente sporca, propria della lingua con cui si esprime il nostro mondo inconscio. Un mondo del quale non possiamo permetterci di fare a meno, pena il blocco creativo. E quindi la stasi generativa della realtà.

Un mondo che non va separato dal suo partner: la razionalità. Faust e Mefistofele hanno bisogno l’uno dell’altro: fertile è che tra loro ci sia un patto, una relazione dialettica. Ma Mefistofele è in crisi d’identità e l’autostima – come si sa – è un dono sociale. Che tira in causa anche noi, fruitori del teatro.

I personaggi di Manzan sono “satolli” di razionalità e carenti di vuoti creativi inconsci, necessari a far eruttare il desiderio. E non aria. Anche noi fruitori del teatro siamo un po’ satolli, un po’ indifferenti, e non a caso Manzan solletica il nostro desiderio ponendogli un fecondo limite: la barriera-transenna-censura delle postazioni dei personaggi in proscenio. 

Ma soprattutto ci manca da morire l’apertura del sipario, che Manzan sceglie di tenere chiuso, privandoci del sogno. Regalandoci in cambio una mancanza che punge, che ci solletica, che solletica il nostro desiderio di azione, di cambiamento.

Noi uomini, come amava ripetere Hannah Arendt, non siamo fatti per morire ma per continuamente “incominciare”. E un modo per recuperare Mefistofele c’è: incominciando con il liberare l’opera-mondo del “Faust” da tutta l’articolazione monumentale con la quale è stata sapientemente costruita. E ripartire, come fece a suo tempo Goethe, dalla Favola del Faust.

Così come scenograficamente si riparte con un “avanspettacolo”: con un rito collettivo e terapeutico nel quale esce il troppo e si recupera l’essenziale.

Senza il diavolo non si va da nessuna parte: “siamo tutti troppo intelligenti per essere felici!”. L’indole umana vive infatti di antitesi, di contrasti, di contraddizioni vitali.

Ma cosa siamo disposti a fare per essere felici? 

Uno spettacolo, questo di Leonardo Manzan – regista la cui cifra si identifica nel suo lavorare per estremi – che con entusiasmo e ironica spavalderia stimola una feconda crisi d’astinenza nello spettatore. 

Uno spettacolo godibile attraverso vari livelli di lettura, perché la ricetta del suo “ragout” è variamente stratificata. 

Uno spettacolo così curiosamente dirompente, da solleticare anche gli animi più atarassici, più satolli. 

Perché oggi serve “roba forte”!


Recensione di Sonia Remoli