– Come 16+29 persone hanno attraversato il disastro delle Ande –
DRAMMATURGIA
Linda Dalisi e Fabiana Iacozzilli


Tutto è respiro, il respiro è tutto.
Questo di Fabiana Iacozzilli è un racconto di respiri.
Un racconto di come il ritmo del respiro può generare gesti che prima ha immaginato.
Un racconto delle tracce che il respiro lascia sui finestrini di quel che resta di un luogo accogliente, divenuto passaggio verso una nuova mèta: la fusoliera dell’aereo del volo 571 dell’aeronautica militare uruguaiana, che trasportava i membri della squadra di rugby Old Christian Club, alcuni amici e familiari. E che il 13 ottobre del 1972 si schiantò sulle Ande.
Un racconto delle tracce che il respiro lascia nelle parole di chi c’era e c’è ancora. Parole che attendono di essere ricordate, ricercate, riesplorate. Per far sì che si esprima ciò che ancora non è stato colto. Come sempre lascia fare il passato.

La regia della Iacozzilli ci riporta allora a quel momento: a immaginare, immersi nel buio, di essere a bordo. Lascia parlare il suono del motore del veivolo, che ad un certo punto stona e poi s’infrange.
E poi “ci vediamo” in quello che appare in scena: una sublime rappresentazione iconografica di corpi traumatizzati, irrigiditi. E, insieme, friabili.

Ma a riemergere riesce il respiro, il soffio vitale, il desiderio. E’ meravigliosamente visualizzato dai performer Andrei Balan, Francesco Meloni, Marta Meneghetti, Giselda Ranieri, Evelina Rosselli, Isacco Venturini, Simone Zambelli che fanno vivere i puppets, regalando loro tutte le variazioni dell’impeto e della ritrosia; della delusione e dell’entusiasmo, della cura e della paura. “Le vediamo”, queste variazioni emotive: quasi fino a toccarle, tanto sono ricche in espressività.
C’è cura, c’è soccorso, c’è conforto, tra i sopravvissuti: ci si assist-e. E’ una particolare partita quella che prende forma: questa volta tra la vita e la morte. E, ci sarà in qualche modo anche un ”terzo tempo”.

Sulla scena si delineano due squadre: da un lato i superstiti, dall’altro i morti. Questi sono a terra, quasi come in “un ruck”. Gli altri sono sofferenti ma ricchissimi in espressività. Sguardi, i loro, di cui si colgono finanche i sottotesti. La sinergia tra la surreale disponibilità delle sculture di Paola Villani e il sensibile contaminarsi con esse dei performer, e’ davvero di sconcertante bellezza. Una magia.
“Quando sei a 4.500 metri” – racconta un superstite in un contributo audio – la mente rallenta e il cuore impenna. Si perdono le coordinate del reale e ci si sente come in un sogno.
Il freddo invece resta reale e fa tremare. Così come i morsi della fame. E pure il rumore di un aereo che sorvola sopra le loro teste. Ma come fare ad uscire dal “sogno” per farsi notare? Allora ciascuno immagina, ciascuno gioca il proprio ruolo, tutti “uniti” per raggiungere un’insolita mèta.

C’è poi chi trova una radio e tutti – ognuno con un proprio assist – concorrono a far sì che funzioni. E poi, ancora, tutti a capire come eliminarne le interferenze. Ignari di andare incontro all’ascolto proprio della notizia dove si dichiara la chiusura delle ricerche su di loro.
Stringe il cuore “vedersi” in loro: vedere nei loro occhi e nelle loro posture la frustrante delusione.
Ma è un attimo. Che lascia spazio alla fiera consapevolezza che ora la responsabilità della propria salvezza è tutta nelle loro mani. Serve immaginare ora: serve riuscire a vedere con la mente quello che si cerca, che si desidera. Serve “passarsi” la speranza dell’immaginare, come se fosse una palla ovale. Serve immaginarsi una ritualità del fare: serve una nuova partita.

Ed è così che ogni giorno – raccontano – sembrava di rinascere: ogni giorno con la sensazione di aver superato un limite impossibile. Molti di loro hanno meno di vent’anni, nessuno ha mai scalato una montagna, anzi la maggior parte di loro è gente di mare che non ha mai visto la neve.
Ma servono assolutamente anche delle proteine: i pochi cibi messi in comune finiscono e si cerca di assecondare l’illusione di masticare qualcosa provando con le suole delle scarpe, con la pelle degli accessori.
L’essere umano si abitua a tutto. Anche a cercare e a trovare Dio “fuori da se stessi, per poter aiutare anche Lui”. Scegliendo di cantare tutte le volte che si ha paura. Cosicchè, nonostante tutto, si possa continuare ad immaginare una mèta.

Anche quando “ci si vede” come un puntino. Anche quando per capire di essere vivi si cerca la propria ombra. Anche quando guardando l’altro per averne cura, si prova terrore specchiandosi nella sua tentazione a mollare.
Una segreta consapevolezza però li sostiene: quella che “ciascuno fa dell’altro un uomo migliore”. E che verso la civiltà si può riuscire ad arrivare insieme. “Insieme”, come insegna il rugby.
Ed è così che alla fine in 16 riescono a salvarsi. Ma solo perché “sono insieme” agli altri 29. Una modalità, un “come”, che la Iacozzilli sottolinea con efficacia già dal sottotitolo.
Come un vero collettivo, i ragazzi infatti prendono, dopo alcuni giorni dal disastro, la decisione di mettere ciascuno a disposizione del gruppo i propri corpi. Anche una volta che il proprio respiro si sarà separato dal corpo: per poter continuare così a giocare ancora “con” la squadra il proprio ruolo. “Sostenendo” cioè chi riuscirà a continuare a tenere unito il respiro al corpo, portando avanti la mèta.

Una storia così vera, che nessuno riesce a dimenticarla.
Una filosofia vitale la cui essenza è alla base dello stesso rugby. Perché una delle caratteristiche più distintive di questa disciplina è la sua natura inclusiva, che predispone alla creazione di comunità solide e unite: attraverso la passione condivisa per il gioco che sa andare “oltre” la squadra.
Passarsi la palla vuol dire infatti che da solo non ce la puoi fare, ma che avanzi solo se riesci ad avere una solida intesa col tuo compagno e ad essere il suo sostegno se scatta lui in avanti. Nel rugby il leader non esiste, perché è con l’aiuto di tutti che è possibile arrivare in mèta.

Consapevoli che “il mondo va avanti grazie a quei pazzi, che immaginano cose impossibili”. Insieme.
Come quella di non arrendersi, finché non si riuscirà a raggiungere la civiltà. Insieme.
E la civiltà arriva. E qui, in scena, è l’incontro con noi della platea.
Un incontro che ci permette di ri-esplorare “insieme” come si attraversa un disastro: un evento che parla della vulnerabilità dell’essere umano di fronte a forze incontrollabili, siano esse naturali o provocate dall’uomo.
Un evento che si dà prepotentemente – per un’avversità degli astri – come un punto di svolta che costringe a ripensare il futuro, la gestione delle risorse, le priorità.
E che diventa parte della memoria collettiva contribuendo a plasmare l’identità di una comunità, con un forte impatto psicologico ed emotivo.

“In quel fuori radicale, dove non ci sono le condizioni per la vita e solo ci si arriva per colpa di una forma di violenza verticale, si palesa la domanda sull’arrivo dell’uomo all’esistenza (Gabriel Galli).
Una domanda che si fa strada nei frangenti più oscuri della vita: quando la vita prende le sembianze di una tragedia. Una tragedia dove non valgono più le regole che ci siamo costruiti con la mente, ma entrano in gioco quelle dettate dal corpo. E dalla capacità di immaginare.

Fabiana Iacozzilli
Cifra stilistica estetica e poetico-filosofica dell’autrice e regista teatrale Fabiana Iacozzilli è il suo darsi attraverso la “contaminazione”: un andare “oltre”, il suo, verso una generosa accoglienza di fertili diversità.
“Contaminare” significa infatti andare al di là del dictat della purezza: fondendo, incrociando, “sporcando”. Rendendosi duttili e pronti ad entrare in relazione con nuovi habitat.
“Contaminare” significa “evolversi”, anziché estinguersi chiudendosi al diverso.
“Contaminarsi” significa “vivere insieme”.
Come ci racconta questa potentissima storia di sopravvivenza, di metamorfosi e di rinascita. Dove la Iacozzilli, per riuscire a raccontare che tipo di filosofia di vita prende forma all’indomani di un disastro, contamina la narrazione scenica, con i linguaggi visivi e la ricerca documentaria; il teatro di figura con le voci delle testimonianze.
Ed è così che – attraverso la complicità della splendida drammaturgia di Linda Dalisi, dei sette performer e dei puppets progettati da Paola Villani – lo spettatore giunge a contattare l’esperienza umana attraversando tutte le profondità delle sue falde sotterranee. “Oltre” ogni comprensione logica. Con amore.

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Recensione di Sonia Remoli
