Recensione del libro TANTE CARE COSE di Massimo De Lorenzo

BIBLIOTHEKA EDIZIONI

Prefazione di Luca Vendruscolo

Sono “care” e quindi preziose le “tante cose”, ovvero i tanti incontri, che Massimo De Lorenzo – noto attore di cinema e di teatro – desidera rievocare in questo delizioso libro sorprendentemente profondo, pubblicato da Bibliotheka Edizioni.

Incontri che l’autore ha vissuto lasciandosi arricchire da donne e da uomini che hanno dato una forma sempre più complessa e piú completa alla sua vita. Donne e uomini che lo hanno messo in contatto con parti diverse della sua psiche, facendo sì che potesse giungere a conoscersi meglio.

E infatti, cosa si augura ad una persona a cui si vuol bene ? “ Tante care cose!”: di fare interessanti incontri, quelli cioè che stimolano a crescere, a migliorare. In ogni momento dell’ esistenza.

“Care” sono infatti le “cose” cifra di un mondo in cui ciò che più si ha di caro non è caro, non avendo un costo economico. Perché quando ci si vuol sentir ricchi davvero, conta proprio ciò che si ha e che non può essere comprato.

Massimo De Lorenzo

E’ “la casualità” a caratterizzare gli incontri indimenticabili che Massimo De Lorenzo ha vissuto e qui rievocato. Ma “suo” è stato il desiderio a far diventare “necessità” ciò che si è presentato sotto le vesti della “casualità”: suo – grazie alla disponibilità ad entrare in un’autentica relazione con l’Altro – l’aver saputo intercettare, proprio in quel particolare incontro, la possibilità “irrinunciabile“ per accedere ai suoi desideri più nascosti, più personali, più veri. Ad esempio, quei desideri d’amore che sanno andare al di là dei confini fissati dal vivere civile e religioso. O anche quei desideri di conoscenza “erotici”, perché al di là del nozionismo: desideri di fedeli tradimenti, necessari per “rifare proprio” un insegnamento, un’eredità.

Desideri, più in generale, quali “ponti” capaci di mettere in comunicazione due linguaggi differenti: quello fondato sui principi della logica (identità-non contraddizione e causa-effetto) e quello libero da questi principi e vicino al linguaggio inconscio dei sogni. Linguaggi che narrativamente danno vita ad una duplice prospettiva: una dall’alto e l’altra che scende nelle profondità, proprio laddove sono restati incastrati alcuni desideri più personali. Con il risultato che, tornando in superficie, si scopre di conoscere meglio se stessi. Per aver “lasciato le vesti” precedenti: quelle che portano a dire – come alibi al non mettersi in gioco – “…nessuno ti vuole bene come la tua famiglia, la Calabria è sempre la Calabria e nessun posto ci rende felice come starcene a casa propria, che noi abbiamo il cibo più buono, il mare più bello e poi la famiglia…”.

E così quella che apparentemente si presenta come una gradevolissima raccolta di mail reali o immaginarie – una collana di perle di saggezza comica e poetica – in verità ha l’essenza di un’esplorazione “in soggettiva”, dove ogni mail narrativamente “è montata a schiaffo” all’interno di una narrazione quasi cinematografica.

Sono mail che non nascono per avere una risposta: Massimo De Lorenzo non scrive a loro (ai suoi destinatari) ma a tutti, di loro. Perché se é vero che é a loro che l’autore si è raccontato e sono loro che hanno saputo ascoltarlo con autentico interesse ( “ci aprivamo la testa con chiacchierate meravigliose”), le sue mail sono piuttosto degli atti di gratitudine alla Vita per avergli permesso di assaporare com’è “ bellissimo perdersi in questo incantesimo”: quello che riesce a distorcere immobili certezze.

Efficacissima anche la scelta di copertina: un raffinato e spiritoso disegno di Livia Alessandrini che raffigura un Massimo De Lorenzo schiacciato da una prospettiva che lo riprende dall’alto. L’immagine s’intitola “Figurante” e può alludere al fatto che assecondare chi ci guarda dall’alto ci schiaccia a vivere da “figuranti” . Solo osando – e quindi essendo curiosi di scendere dentro di noi portando alla luce i nostri desideri più autentici – ci fa evolvere da “figurante” non solo a “personaggio” ma anche a “persona”.

Perché “niente di grande è stato fatto senza passione” – ricorda hegelianamente l’autore. E perché “chi cerca, prima o poi trova, dappertutto “. Se stesso.

Un libro, questo di Massimo De Lorenzo, che ci legge. E che si fa leggere come un prezioso invito a non perdere mai la curiosità a conoscere noi stessi. Ricordandoci di essere sempre grati nei confronti di quegli incontri che ci hanno saputo plasmare contribuendo a valorizzarci o spingendoci a fare conoscenza – e, nel migliore dei casi, “amicizia – con il nostro peggio”, come direbbe Massimo Recalcati.

Perché solo cosí si generano “tante care cose”.

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo 456 – scritto e diretto da Mattia Torre

TEATRO VASCELLO, dal 27 Febbraio al 3 Marzo 2024 –

In principio era il sugo: quello della nonna.

Dal giorno della sua morte, quattro anni or sono, il sugo silenziosamente continua a sobbollire sul fornello, grazie ai continui rabbocchi dei familiari: un rituale ossessivamente rispettato all’interno del quadrato magico di questa trinità etologica.

Tra cura e accanimento, si continua a mantenere in vita questa divinità familiare (che si crede contenere “l’anima della nonna”) nella speranza che prima o poi la cottura alchemica trasformi – e quindi renda digeribile – ciò che ancora risulta indigesto.

Ad esempio il nervosismo carico di dubbi di Genesio (Carlo De Ruggieri), il figlio di Ovidio (il pater Massimo De Lorenzo) e di Maria Guglielma (la mater Cristina Pellegrino), che si rifiuta sommessamente di onorare il rituale familiare.

Cristina Pellegrino (Maria Guglielma, la mater); Carlo De Ruggieri (Genesio, il figlio) e Massimo De Lorenzo (Ovidio, il pater)

ph Alessandro Cecchi

Lui, più dei genitori, è tentato dal solletico del vento: osa sognare evadere. Per tenere sotto controllo la tentazione a desiderare deve fumare, illudendosi così di produrre lui il vento. Oppure deve lasciarsi cadere nell’incantesimo di una ninna nanna, somministrata puntualmente dalla mater nel suo orecchio: un irresistibile racconto sul suo animale totem, il ghiro, tratto da una sorta di bibbia del mondo animale, dove si descrivono tutti i pericoli del sottrarsi da una rassicurante letargia esistenziale.

Ma anche Ovidio, il pater, è particolarmente nervoso a causa del vento: un libeccio che non soffia solo fuori. E lui lo sa. Ma si può domare: nel suo caso risulta efficacemente letargico l’udir il succulento dispiegarsi di un menù – ed è sempre la mater colei che shakespearianamente somministra il farmaco della parola che seduce/manipola nell’orecchio – ideato specificatamente per scongiurare possibili nervosismi da parte di un ospite (Giordano Agrusta) dal quale ci si aspetta una conferma. Misteriosa.

Messo a tacere il nervosismo di Ovidio, ora la famiglia può passare alle prove della messa in scena della cerimonia d’accoglienza dell’ospite: una dimensione meta-teatrale dove il pater si fa director (regista).

Carlo De Ruggieri (Genesio, il figlio), Giordano Agrusta (l’ospite), Cristina Pellegrino (Maria Guglielma, la mater) e Massimo De Lorenzo (Ovidio, il pater)

ph Alessandro Cecchi

E poi c’è Maria Guglielma: lei, oltre ad esser l’unica a detenere il potere di saper insufflare seducenti farmaci, è abitata da un vento di mancata giustizia che nessuno dei due uomini sa domare efficacemente, se non attraverso botte e sputi. Ma i venti delle donne sono diversi: richiedono una cura speciale per essere calmati. E intanto lei sa aspettare.

ph Alessandro Cecchi

Il loro è un microcosmo familiare ancestralmente lontano eppur vicino a noi: dalla prossemica etologica sì, ma nella quale non fatichiamo a riconoscerci. Perché l’odio viene prima dell’amore; perché l’istinto di sopraffazione ci costituisce come esseri umani e l’amore invece va imparato.

Anche di questo ci parlano la drammaturgia e la lingua – cesellata ad hoc per questo spettacolo – di Mattia Torre, che osano spingersi sul confine tra umano e animale.  Ma non sul confine che separa i due mondi; piuttosto sulla frontiera intesa come luogo d’incontro dei due mondi, solo apparentemente opposti. Perché anche il bene è contiguo al male, così come il riso è contiguo al pianto. E spingersi proprio lì dove i due opposti sono così vicini produce uno stato di grazia: feroce e giocosa. Elegantemente irriverente.

Mattia Torre

Perché la catarsi che si produce è una presa di consapevolezza profonda che non spinge il pubblico a rimanere frustrato. Ma a rilanciare. Sempre.

Perché se è vero che siamo stati gettati al mondo in questa crudele precarietà di sopraffazione, dove la famiglia è anche la prima esperienza di crudeltà protettiva e l’imprinting della difficoltà di tessere sane relazioni, è vero anche che esiste una miniera di possibilità a cui attingere e a cui credere sempre. Subito. A cosa nello specifico? “A questo poi ci pensiamo”.

– ph Alessandro Cecchi –

Gli attori in scena – Massimo De Lorenzo, Carlo De Ruggieri, Cristina Pellegrino e Giordano Agresta – sono la stupefacente materializzazione della babele linguistica che riesce ad essere contenuta in questo nuovo idioma, che esprime con esplosiva efficacia una scrittura drammaturgica così materica da risultare quasi metafisica. Dove anche gli oggetti di scena rispondono ad una loro prossemica simbolica. Dove tutto recita. Dove tutto ci è necessario.

Uno spettacolo che riesce a farci morire dalla voglia di vedere come siamo in realtà: al di là delle convenzioni, del quieto vivere, del politically correct. 

Uno spettacolo che ci fa desiderare conoscere la nostra scandalosità: lo scandalo dello stare al mondo. Lo vediamo e insieme ci detestiamo e ci commuoviamo.

Uno spettacolo che ci apre gli occhi sul peggio di noi e in qualche modo ci permette di accettarlo. Non per crogiolarci, tutt’altro.

Per rilanciare. Sempre.

Recensione di Sonia Remoli


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