Recensione dello spettacolo MALEDETTO NEI SECOLI DEI SECOLI L’ AMORE – dal racconto di Carlo D’Amicis – con Valentina Sperlì – regia di Renata Palminiello –

TEATRO LE MASCHERE, dal 24 al 26 Settembre 2024 –

Piccolo Festival di Drammaturgia Contemporanea “Le voci del presente”

– dal 4 Giugno al 10 Ottobre 2024 –

Che cos’è “normale” ?

Che cosa significa che “è normale” che un uomo in coma reagisca a degli stimoli verbali?

Cos’è che fa reagire un uomo – o meglio un cadavere immerso in un sonno letargico – agli stimoli di una presenza fisica al suo cospetto?

“Sentire di essere desiderato dal desiderio dell’altro”, risponderebbe Jacques Lacan.

Perché percepire il desiderio dell’altro ci fa esistere, ci dona un’identità, un valore. E’ un lievito che ci fa vibrare, ci rende tonici: evita il nostro appassimento nell’indifferenziato sopravvivere.

Ed è un po’ anche l’effetto che la perversione seduttiva del desiderio dell’uomo ora in coma è riuscito a sortire sul suo “irraggiungibile” oggetto del desiderio. 

Lei è Lady Mora: colei che ha indugiato nel ricambiare l’amore di suo cugino e che ora si scopre sedotta dalla sua assenza. 

Un’assenza che si materializza attraverso la consegna a lei delle “chiavi” della sua vita. Una vita che ora lui, con subdola raffinatezza, le permette di scegliere se “indossare” o meno.  Abbandonato l’inefficace e ronzante “tu sei Ninni mia”, ora lui si propone come colui che dona quello che non ha.

Lei inizia a parlargli solo perché così le viene detto. Ma parlare ha uno stupefacente magnetismo: la parola è la prima magia nelle mani dell’essere umano. Complice, qui, il pungente sperimentalismo linguistico di Carlo D’ Amicis: una scrittura, la sua, così iper-realistica da divenire quasi metafisica.  Generosa nello stanare tutti i sottostesti e le polivalenze lessicali di cui si gonfiano le sue parentesi tonde, custodi dell’essenza plurisemantica della comunicazione.

“Maledetto nei secoli dei secoli l’amore”, di Carlo D’Amicis, Manni Editori (2008)

La narrazione – affidata alla raffinatezza alchemica di Valentina Sperlì – brilla del potere dell’inaspettato: è la rottura dei piani del suo ritmo, associata a quella repentinità del felino gesto da pantera, a rendere l’ascolto irresistibile. Ecco allora che la presunzione inaspettatamente abdica alla meraviglia; il cinismo sfiora il piano della tenerezza; la ripetitività si scatena nell’improvvisazione. 

E, a qualche livello, Lady Mora scopre di essere disposta a rinunciare a galleggiare sulla superficie delle acque della vita – a differenza dei telespettatori che si rivolgono a lei, cartomante, quasi fosse l’Oracolo di Delfi – per incamminarsi in un profondo percorso di ricerca interiore. Dove si farà trovare nuda, senza difese, disponibile a disattendere ogni antico proposito difensivo di fuga.

“Unica e sola” sì, ma questa volta non nel senso di “insostituibile” ma in quello di “dannatamente sola”.

Non più la presunzione di essere “sole e luna”, quanto piuttosto la consapevolezza di essere drammaticamente irraggiungibile. Unica sopravvissuta. Privata di quella che credeva la sua identità privata. Manchevole.

Non più colei che – al di sopra di tutto e di tutti – detiene un suo cogito: guardo, penso, dico e quindi accade; non più una donna che accorre al capezzale di suo cugino, che non vede da 40 anni, spinta solamente dal senso del dovere. E maledice l’amore.

Ma una donna che finalmente si lascia raggiungere in qualche modo dall’amore. Un incontro, questo, che ora sta cambiando quello che considerava “il normale” andamento della sua vita.

Ora c’è tempo, c’è un nuovo tempo. E allora il suo corpo si muove, come stregato dal tintinnio di quelle chiavi, che lui ha messo nelle sue mani. Esce dalla camera dell’ospedale e va dalla Stazione Termini a Via delle Ninfee: da una chiusura, verso un nuovo inizio. Verso quel luogo dove lui, una volta smesso di inseguirla, si era rinchiuso: Centocelle. 

Perché l’amore è anche un’impostura, è anche una sopraffazione. Ce ne parla con sublimità il suo corpo che ora, finalmente raggiunto dall’amore, cerca di arroccarsi su quella poltrona di cielo. Ed è qualcosa di così insolito: una paura ma anche un che di desiderabile; una fuga mista a un desiderio di essere presa. 

E lei allora si lascia scivolare giù dal cielo fino a terra, fino a imbrattarsi tutta. Accorgendosi di non essere sola: con lei c’è “il testimone” della sua nuova esistenza: Zampa Furio.  Con lui scopre – proprio in quella “cella” dove si era ritirato a vivere suo cugino – un memoriale di tracce d’amore. Ovunque, su qualsiasi occasione di vita. Un luogo intriso di lei e a lei sconosciuto. 

Un luogo a cui finalmente dare ossigeno e in cui ricaricarsi. Un luogo che chiede di essere finalmente nutrito e tirato a lucido. Perché sente che questo luogo sconosciuto, le appartiene profondamente: parla di lei, è anche la sua dimora. 

La di-mora di La dy – Mora: dove “tu più ti allontani, più ti sento mio… Respirandoci”.

Renata Palminiello

La regia di Renata Palminiello rivela tutta l’essenza drammaturgica di questo racconto di Carlo D’Amicis. E ne fa, con la complicità di Valentina Sperlì, un’occasione di teatro fisico e coinvolgente, ispirato al teatro della crudeltà. Un teatro attento a cogliere – con una recitazione quasi intimista – le sfumature più recondite del testo.

Allo spettatore è richiesto, in qualche modo, uno sforzo nel collaborare nel ricostruire il racconto in scena: volutamente non tutto è chiaro e questa enigmaticità chiama ogni spettatore a fare un percorso personale, dentro le tracce seminate dall’interprete.

Perché il Teatro è un luogo che ci permette di vivere diversamente: un luogo che riesce a tirar fuori da ciascuno quell’indomita volontà di vita, che guida i sopravvissuti di ogni distruzione.  

Perché il Teatro ci fa sentire la nostra precarietà, connessa alla nostra inestinguibile capacità di amare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CARA UTOPIA di Maria Teresa Berardelli – con Claudia Crisafio – regia di Marianna di Mauro –

TEATRO LE MASCHERE, dal 17 al 19 Settembre 2024

LE VOCI DEL PRESENTE, Piccolo Festival di Drammaturgia Contemporanea

Lei può fare tutto: ha il destino scritto nel nome.

Pasqualina é infatti colei che sa soffrire, postura esistenziale di chi prende sulle proprie spalle il peso del mondo e nel farlo si scopre vertiginosamente libera, in confidenza con la morte.

Pasqualina Losacco come il mondo, non si è fermata mai un momento, come la notte lei insegue sempre il giorno. Ed il giorno verrà.

E sarà quello in cui incontrerà un grande cuoco, così da diventare anche lei una grande cuoca. Le piace sopra ogni cosa cucinare e mangiare. Gode nel ripetere a mente i piatti che sa cucinare meglio: ricordarli la nutre, in tutti i sensi. 

Pasqualina Losacco ora ha 75 anni: per natura è raffinata come una regina e incarna un’anima che sa squittire. Ce ne parla un suo deliziosissimo ghigno, il suo musetto secco e appuntito, il suo passo piccolo e veloce e il suo curvarsi come per annusare la terra, avendo in testa un’acconciatura di nuvole inquiete.

E’ curiosa, coraggiosa e quindi intelligente. 

Perché Pasqualina è accorta, mette in campo una sorta di saggezza efficace e concreta, che si manifesta nel modo di acquisire e di utilizzare le conoscenze e nel gestire le situazioni in cui si trova. Anche le più traumatiche. La sua è l’attitudine a comprendere le cose nel loro profondo e nel loro contesto.  Gliel’ ha insegnata il suo sogno, quello di cui è impastata la sua essenza: saper ben “cucinare”, verbo cardine della nostra cultura.

Nel descrivere una trasformazione – quella delle materie prime non sempre commestibili, gustose o salubri da mangiare così come sono – l’arte del cucinare infatti ci parla  della necessità di preparare a “far entrare in relazione” gli ingredienti, realizzando ciò che serve alla vita.

Perché non è sufficiente procurarsi le materie prime, occorre “renderle fruibili”. Ed è di stupefacente bellezza come una necessità biologica si traduca in un’attività culturale, estetica e politica.

Chi sa cucinare associa, separa, assimila, valorizza le materie prime, dando vita ad un’alchimia. “Batti bene la carne – diceva la nonna a Pasqualina – che ti purifichi!”.

Perché l’alchimia culinaria è l’arte di separare le parti meno nobili di un alimento, di depurarlo, di perfezionarlo. Ed è una metafora profondissima che ci pervade. Chi cucina purifica “la propria materia” per estrarne l’essenza: saperla unire ad altri ingredienti significa raffinarla ma anche renderla umana, capace di relazionarsi con altro.

Una drammaturgia potente come un rituale magico; incandescente e insieme “teneramente commestibile” nel sapersi avvicinare al sentire del pubblico. 

Claudia Crisafio, l’interprete di Pasqualina, si lascia modellare ossa, tendini e deglutizioni dalle parole selezionate e “cucinate” da Maria Teresa Berardelli: parole conosciutissime ma di cui ora torniamo ad assaporare il fascino, così da lei trasformate, mescolate.

E allora la voce della Crisafio si fa sguardo per contagiarci della meraviglia dell’ineffabile : ed è evocazione. Oppure si fa gusto, per lasciar plasmare il corpo in una metafisica brama di vorace curiosità. Fino a che – come preziosa materia prima – tutto il suo essere arriva a lasciarsi disponibilmente dilatare oppure possedere da movimenti compulsivi.

Un’eccitazione di cui parla il virtuosismo delle sue mani, mosse da una misteriosa diteggiatura nell’atto creativo del dosare, del versare, dell’impastare, dello stendere e del provocare la lievitazione. Una coreografia maestosamente quotidiana. 

E’ l’acuta regia di Marianna di Mauro, la poesia del suo disegno luci, a rendere carismatico ogni istante, incarnando proprio nel quotidiano più ai margini la densità di un sogno. 

Un sogno “caro” come può esserlo “un’utopia”: preziosa, impegnativa e (apparentemente) ingrata. Cifra di un mondo assurdo ed equilibrato in cui ciò che più si ha di davvero caro non è caro, non è acquistabile. 

L’utopia è infatti il sogno di un non-luogo buono, di cui si sa tollerare bontà e irrealtà. Un idealismo spinto e ricco di valori, dove seppur dichiarare un profondo desiderio non necessariamente gli darà luogo, la fedeltà a quel desiderio avrà però un buon luogo di responsabilità nell’ universo interiore di ciascuno. 

Dentro di noi l’utopia non è bizzarra fantasia ma certezza matematica. Come in Pasqualina.

E con pazienza si potrà arrivare lontano: noi stessi siamo i figli dell’utopia di tanti che, saggi, non sognarono un mondo perfetto, ma un mondo migliore.

Uno spettacolo magnetico, energizzante, lirico, politico.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SEE PRIMARK & DIE ! – di Claire Dowie – regia di Dafne Rubini

TEATRO LE MASCHERE, dal 25 al 27 Giugno 20224

Quanto è difficile essere liberi ? 

Quanto ci angoscia poter scegliere ? 

Anzi, dover scegliere: anche scegliere di non scegliere è comunque una scelta.

La libertà è una condanna: siamo obbligati ad essere liberi – sosteneva Jean-Paul Sartre.

Meno male che c’è l’economia capitalistica. 

Lei sì che ci legge nel pensiero: lei ci solleva dall’usare il cervello e quindi ci libera dalla libertà. E quanto ci piace ?! 

Lei si assume tutte le responsabilità e noi ubbidiamo. Senza pensieri, senza dover usare con libero spirito critico la nostra capacità di pensare.

Come recita la filosofia del franchising dei negozi Primark: costa tutto così poco che non devi pensare a cosa scegliere. Puoi comprare tutto, ingordamente. Fino alla nausea. Fino alla morte. 

Martina Gatto

Da qui prende avvio lo spettacolo, che ammicca alla stand-up comedy, diretto con sapiente minimalismo da Dafne Rubini e interpretato da un’esplosiva e penetrante Martina Gatto. La drammaturgia è di Claire Dowie, anche attrice e poetessa: sicuramente uno dei personaggi più divertenti, anticonformisti ed iconoclasti della scena teatrale inglese contemporanea.

Con provocante ingenuità Martina Gatto ci racconta di quel giorno in cui si accorge di non stare bene: non sente più l’istinto di andare a comprare qualcosa di nuovo, sintomo di una “sana e robusta costituzione” nella società consumistico-capitalistica in cui viviamo. 

E sebbene, in verità, non avvesse bisogno di nulla, come si poteva resistere a non andare da Primark a comprare almeno una T-shirt, che generosamente avevano scontato a 2euro e 50 centesimi ? 

Pur non avvertendo più la seduzione di questa opportunità, si sforza di andare comunque. Ma quelle luci così attraenti ora hanno perso il loro potere euforizzante, così irresistibilmente trendy. Quella scioglievolezza che normalmente le si iniziava a generare in bocca varcando le porte d’ingresso, ora le provoca terrore. E più entra all’interno più si sente morire, tanto il consueto piacere ha lasciato il posto a un disagio sempre più invadente. 

Persa la dipendenza all’istinto compulsivo ad acquistare, tagliata fuori dallo spazio incantato del Primark, in quale altro modo sarebbe stata al mondo ?

In realtà, al di là dei confini del tempio del consumismo, lei farà esperienza di una nuova speciale sensazione: quella della mancanza, unica porta d’ingresso ad un autentico desiderare. Non a caso i genitori del dio Eros – ci racconta Platone ne “Il Simposio” – erano Penia (che significa “mancanza”) e Soros (“la via”). La via della mancanza genera eros: il desiderio.

Ed è qualcosa di diverso dall’istinto meccanico a fare qualcosa che fanno tutti per essere accettati e inclusi in quel particolare modo di vivere. Che non è l’unico. 

Ecco allora che con ironica sapienza la protagonista ci racconta di aver scoperto di tornare ad avvertire una mancanza, un senso di vuoto, che inaspettatamente la rende incline a prestare attenzione anche alle piccole cose. Incluse quelle che nel modo di vivere precedente andavano a finire nel cassonetto, solo perché così aveva senso per il sistema economico: continuare incessantemente a produrre per poi indurre il consumatore a continuare a comprare ancora cose, perché sempre “più nuove”.

Uno spettacolo che sa far uso dei toni più scoppiettanti e provocatori per veicolare l’urgenza di riscoprire nuovi modi di vivere, diversi rispetto a quello in cui si siamo impantanati.

Assaporando la fertile tensione delle spinte di cui si compone la nostra possibilità di essere liberi: la spinta a lasciarci guidare e l’ebrezza a dare noi una direzione al nostro sentire. Perchè assecondarne solo una, rischia di essere troppo limitante, fino a diventare distruttiva.

Dafne Rubini (regista) e Martina Gatto (interprete)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SETE di Walter Prete – regia di Lorenzo Parrotto

TEATRO LE MASCHERE, dal 21 al 23 giugno 2024 –

Che uso stiamo facendo oggi della parola “separare” ?

Se nella “Genesi” – fonte di riferimento sulla quale è drammaturgicamente tagliato e cucito lo spettacolo – il concetto di “separare” conserva il significato di un generare distinguendo  due entità nuove ma autonome, oggi invece che cosa sta succedendo? 

Oggi  a “separare” non è più Dio come nella Genesi ma l’uomo in quanto  arrogante possessore del cosiddetto “genio”: quella scintilla creativa, e quindi divina, presente in noi. 

Ma il genio non si possiede: dal genio si è posseduti, si è guidati. E la sua attività – autenticamente creativa – produce bellezza di cui tutti possono partecipare. 

Giorgio Sales

La separazione che effettuano coloro che si auto-definiscono “geni” non è una nuova creazione fondata sul rispetto dell’essenza di un oggetto. No, l’essenza viene letteralmente eliminata, buttata via, privata del suo autentico valore, pervertendo così il significato etimologico della stessa parola “separare” . Al suo posto, ad acquisire valore sostanziale è l’apparenza: quella di una nuova immagine associata arbitrariamente all’oggetto, il cui valore non è quello della cosa in sé ma quello che qualcun altro ha deciso di attribuirle per fini di lucro. Finendo per separarla anche da una fruizione collettiva. 

Ma, concretamente, chi è “il genio”  di cui la sagace penna di Walter Prete ci propone varie declinazioni, interpretate con graffio seduttivo da un Giorgio Sales, diretto con raffinato guizzo da Lorenzo Parrotto

Giorgio Sales

Solitamente sono  influencer: personaggi di successo, popolari nei social network e in generale molto seguiti dai media, capaci di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico. Sono coloro che formano le opinioni dei più, fornendo gratuitamente (in apparenza) consigli, che hanno un retrogusto impositivo. 

Persone che si sentono “Dio” perché siamo noi a farle sentire così, affidandoci a loro. Credendo in loro. Lasciando a loro la facoltà di scegliere – e quindi separare – ciò che davvero ci piace da quello che non ci piace. Tanto che i brand si stanno sempre più avvalendo del supporto degli influencer nelle proprie strategie di comunicazione, finalizzate all’aumento delle vendite.  

Ma chissà perché preferiamo che altri scelgano per noi ? 

Giorgio Sales

Forse perché non abbiamo più un libero accesso ai nostri desideri: ci siamo indeboliti, smarriti, disorientati. E se qualcuno viene e ci dice che lui è sicuro che è bene desiderare determinate cose, forse è meglio così. Lui si prende la responsabilità di desiderare per noi – perché, si sa, la libertà di desiderare non è facile da gestire – e noi eseguiamo. Tanto lo fanno tutti. E per essere uguali occorre desiderare e avere le stesse cose. Sempre “più nuove”, però.

Giorgio Sales

Poi, se uno vuole davvero essere un tipo invidiato da tutti, deve imparare a desiderare ciò che tutti non possono permettersi. E in una totale eterogenesi dei fini, i nostri ”consiglieri” influencer ci creano un nuovo Eden da desiderare, diverso da quello di cui parla la Genesi: una creazione subdola perché nasce dal “separare”, cioè escludere, da un bene essenziale comune – come ad esempio l’acqua – coloro che non sono disposti a pagarlo ad un prezzo stupefacentemente proibitivo.  Un’acqua che ora, così (perversamente) desiderata, è un bene esclusivo di quei pochi che possono non essere tagliati fuori, separati,  da un Eden che oltre ad essere proibito (cioè diversamente immorale) è anche “proibitivo”  (difficilmente accessibile economicamente) . 

Giorgio Sales

Ma come saremo arrivati fin qui ? L’acqua è un bene essenziale, pubblico e soprattutto gratuito. Nasce come un dono, ma a noi oggi forse non interessano più i doni: prezioso è solo ciò che si riesce a comperare ad un prezzo scandaloso. 

E chissà con quale alibi, con quale “altrove da noi” proveremo la nostra innocenza, la nostra estraneità a questa degenerazione?

O forse, come il personaggio principale di questo spettacolo, solo dopo aver vissuto tutto ciò, saremo capaci di tornare a sentire davvero il sapore autentico delle cose.

Walter Prete

“SETE” è il prodotto di un collettivo informale composto da Giorgio Sales (interprete), Lorenzo Parrotto (regista) e Walter Prete (drammaturgo) che ha scelto di affidare alla capacità che solo “il racconto” possiede, di provare a tenere insieme ciò che invece sfugge alla comunicazione attuale. 

Lorenzo Parrotto

Obiettivo raggiuto, trovando il giusto equilibrio drammaturgico, interpretativo e registico tra una graffiante provocazione e un’accattivante critica degli attuali costumi. 

A cui volentieri si presta attenzione, lasciando che l’istrionico Giorgio Sales – dalla densa presenza scenica  e dalla cesellante interpretazione  magneticamente variegata – ci versi nelle orecchie un farmaco, che per sua natura è veleno e cura. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo PASTICCERI – Io e mio fratello Roberto – di e con Roberto Abbiati e Leonardo Capuano

TEATRO LE MASCHERE, dal 18 al 20 Giugno 2024 –

Tutto è “a vista”.

La scena riproduce un laboratorio di pasticceria, dove lavorano “dal vivo” due fratelli. Sono fratelli gemelli. 

Ma qualcosa inizia a sottrarsi “alla vista”: uno dei due non ha nome proprio, prima caratterizzazione di un’identità. Il sottotitolo dello spettacolo recita: “Io e mio fratello Roberto”. E quella che sembrerebbe una privazione, inizia pian piano ad avere il sapore di una iper protezione, con un retrogusto di sopraffazione.

Acuta scelta drammaturgica di anticipare quella che è l’ontologia dei fratelli gemelli: generalmente difficili da distinguere e quindi con un’innata fame d’identità da soddisfare. Quella necessità di sviluppare un “me” separato da un “noi” diventa allora cruciale, alimentata anche dal dover competere fin dall’inizio per risorse condivise nello stesso tempo.

Leonardo Capuano e Roberto Abbiati

E così l’empatia che i gemelli provano l’uno per l’altro può trasformarsi in una lotta interiore per arrivare ad essere individui “unici”. Un mondo sotterraneo, non “a vista”, di emozioni e relativi atteggiamenti di cui, ad esempio, ci parla la balbuzie di Roberto.

Ma siamo in una cucina, il luogo per eccellenza delle trasformazioni, dove non solo i cibi ma anche le emozioni meno commestibili possono diventare pietanze gustose: utili alla vita. Serve l’azione del fuoco, non solo quello del gas ma anche quello dell’anima: quello che si sprigiona dal lasciarsi condurre dalla musica, dall’amore. Dall’improvvisare quando non si ricordano più le parole.

La scena è una stanza – un luogo fisico ma anche della mente – dove si può dar libero corso sia alla propria aggressività (grazie all’uso dei coltelli) che al propria energia sessuale. Un’energia vibrante che ripetutamente però resta bloccata da qualcosa: come l’orologio al centro della parete. Fermo all’orario in cui è avvenuto un terribile imprevisto, per sostenere il peso del quale non sono risultate sufficienti le risorse a disposizione dei due fratelli. Un trauma. 

Roberto Abbiati e Leonardo Capuano

Ma non tutto nella vita può seguire delle istruzioni, come avviene per le ricette dei dolci. E tra queste cose c’è anche l’amore, che non vuole essere controllato. Ma controllare.

Sarà per questo che in amore vince chi “viene dopo”: Roberto, il fratello balbuziente che del lavoro in pasticceria fa fatica a seguire le regole della logica, finendo per dipendere dalla gestione dell’altro fratello, quello “affidabile”.

Ma Roberto è dotato di una diversa intelligenza, che va al di là dei precisi confini fissati dai principi della logica: è un‘intelligenza emotiva la sua, che gli permette di muoversi meglio negli imprevisti poetico-erotici dell’amore, ad esempio. Lui sa stupirsi (per questo può sembrare uno che “viene dopo”) e di conseguenza sa produrre stupore. E il suo sguardo, anche quando è fisso, è creativamente perso.

Roberto Abbiati

Roberto Abbiati, l’interprete, è i suoi occhi. Parlare con la voce è secondario per uno come lui: non se ne sente la mancanza. E la sua balbuzie, pur essendo un “blocco emotivo”, in realtà viene come trasformata in una preziosa gemma che caratterizza la sua individualità. Ben oltre i suoi baffi. Quando poi parla, gli esce una vocina piccola piccola ma così suadente, da veicolare meravigliosamente un’abilità (inconsapevole) nell’arte dell’uso della parola. Tanto da sedurre, in primis, il suo stesso fratello.

Ma lui, così rigido nella sua individualità, nella sua egoità, non si permette di goderne; anzi rimprovera Renato di un “cattivo” uso delle parole, che lo riducono “a un burro”. Se invece sapesse quanto è irresistibilmente amabile quando si lascia spalmare dalle parole di Roberto! Ma lui ha ancora bisogno di credere che un vero uomo deve essere efficiente e ricco in nerbo: “Io sono io e lui è mio fratello Roberto, che arriva sempre dopo”.

Leonardo Capuano e Roberto Abbiati

In verità il meno identificato dei due fratelli è proprio lui: ancora così traumaticamente legato a suo padre e ai propri rigidi confini personali. E Leonardo Capuano, che lo interpreta, sa rendere con sensibile efficacia questo suo intimo dissidio, colto così bene da Roberto:“ Mio fratello non è nato simpatico, parla bello sciolto e mi legge nei pensieri”. E’ un uomo pervaso da una forte carica erotica che agisce nella manualità che necessariamente si sprigiona in una cucina, metafora della donna ideale: la mamma.  Ma la sua manualità non riesce a decollare fuori dai luoghi comuni delle ricette seduttive. Si fida solo di se stesso e delle sue bavaresi alla fragola e non ce la fa ad incuriosirsi fino a farsi preda del mistero che incarna una donna. Lui sa essere protettivo con le sue donne (le bignoline) e con suo fratello: ma la protezione è una forma di controllo non di arrendevolezza, di scioglievolezza.

Roberto Abbiati e Leonardo Capuano

Per questo è così spaventato dall’effetto che gli suscitano le parole di Roberto: lo fanno sentire perso, disorientato. Gli fanno perdere la memoria: e si blocca. E così lo spettacolo. Come l’orologio, che ricorda ossessivamente, ma silenziosamente, qualcosa di incontrollabile. Di cui non riescono a parlare tra loro i due fratelli. Ma con noi del pubblico sì, in teneri a parte. Questa esperienza familiare traumatica, come a suo modo può esserlo l’amore per una donna, richiede però di essere ancora ben “amalgamata” – dolcemente sì, come ordina il fratello a Roberto – ma anche rendendosi disponibili a una trasformazione.

Di cui si hanno i primi segnali nella modalità di preparazione dell’ultimo dolce della serata: una torta Charlotte, alla quale i due fratelli gemelli lavorano finalmente a quattro mani, senza subordinazioni. Un “noi”, dove trova libera espressione lo stile e quindi l’identità di ciascuno dei due pasticceri.

Leonardo Capuano e Roberto Abbiati

Uno spettacolo gustoso, profumato, eccitante, commovente, sorprendente: ingredienti follemente amalgamati all’interno di una drammaturgia calvinianamente leggera, portata ogni volta alla giusta temperatura da due interpreti irresistibili.

Leonardo Capuano e Roberto Abbiati


Recensione di Sonia Remoli