Recensione dello spettacolo GLI ESCLUSI – Insane Situation Procedure – di Roberta Calandra – adattamento e regia Valentina Ghetti

TEATRO DI DOCUMENTI, dal 26 al 29 Novembre e 1° Dicembre 2024

Sono come gocce che si staccano da un liquido comune: è il brano musicale che li introduce a presentarli attraverso questa immagine.

Sono spiccatamente diversi e per questo “esclusi” dalla normalità. 

Chissà perché non li definiamo invece “esclusivi”? Forse perché non siamo consapevoli che il loro sapere è precluso ai più; forse perché non riconosciamo in loro un valore prezioso. Insostituibile.

La regista Valentina Ghetti


Non c’è futuro nella separazione, nel diabolico atto dell’ escludere. È nell’inclusione, nell’integrazione, che sta il futuro: un futuro più saggio, più sacro. Al di là dei sussiegosi valori identitari. 

La sofferenza – figlia della disattenzione e del non ascolto – “ha scolpito” i loro corpi e le loro menti. Ma loro sanno ancora interrogarsi: sanno chiedersi se un cambiamento sarà davvero possibile. Anche per loro, apparentemente così bloccati, così incastrati. 

Si lasciano attraversare dagli stimoli previsti dagli esperimenti in programma: ma lo fanno creativamente. Paradossalmente questa loro “presentazione-esibizione” diventa l’occasione per tenere insieme le loro diversità. Non per continuare a classificarle.

E’ la parola, la prima magia di cui imparano a disporre: è il raccontarsi, tentando di tenere insieme tutto ciò che sfugge verso diverse direzioni.

Poi imparano ad ascoltarsi. Come nessuna delle loro famiglie “illustri” è riuscito a fare: loro “i figli di“,  vip del mondo della cultura e della politica. Ma le loro famiglie così esclusive, li hanno inclusi nelle file degli ultimi.

Sono Eduard, il figlio di Einstein; Lucia, la figlia di James Joyce; Rosemary figlia di Joseph P. Kennedy; Giorgio figlio di Edoardo Agnelli; Albino il figlio di Benito Mussolini e Aldo il figlio di Palmiro Togliatti.

Il senso di vergogna – alimentato dai loro genitori – li ha nutriti modificando i loro caratteri fisici e psichici. Un nutrimento cesello di disagio, di condanna sociale.

Perché la vergogna è il sentire del fallimento, dell’errore privato dell’occasione del ritentare. Ancora e ancora. E’ l’inadeguatezza rispetto al proprio ruolo. È molto più dell’imbarazzo: la vergogna tocca corde profonde, identitarie.

Eduard, il figlio di Einstein (interpretato da Alessio De Persio) è un brillante musicista. Intercala i suoi racconti a delle improvvise risate, che hanno perso il confine con il pianto. 

Lucia, la figlia di James Joyce (interpretata da Camilla Ferranti) è un’appassionata di danza. Indossa dei bellissimi guanti verdi, fatti di squame: ciò che resta di un abito che lei stessa si era confezionata. Per resistere.

Rosemary, figlia di Joseph P. Kennedy  (interpretata da Caterina Gramaglia) è una dolcezza: ogni parte del suo corpo vive di torsioni, riccioli di grazia spettinata. 

Giorgio, il figlio di Edoardo Agnelli (interpretato da Dario Masciello) è un tipo stylosissimo e fragilissimo.

Albino, il figlio di Benito Mussolini (interpretato da Leonardo Zarra) è un esperto di arti di difesa personale. La sua insicurezza lo spinge a nascondersi, continuamente.

Aldo, il figlio di Palmiro Togliatti (interpretato da Luca Di Giovanni) è un affascinante intellettuale, rigidamente solitario.


In tutti si sente che sono delle menti decisamente eccezionali. E gli interpreti in scena riescono a renderne liricamente tutta la loro insolita bellezza.

Si chiedono l’un l’altro da quale Paese vengono, loro da sempre esuli dalle loro origini.

Ma attraverso il desiderio di raccontarsi, stimolato dalle diverse occasioni sensoriali, ognuno scopre di non essere solo nella propria diversità ma anche parte di un tutto, di una comunità. “Mi ha fatto bene conoscerti” – si dicono.

L’autrice Roberta Calandra

Nelle “note di sala ” dell’autrice Roberta Calandra e della regista Valentina Ghetti si invita noi del pubblico a osservare scientificamente queste loro reazioni ai diversi stimoli. Ma è impossibile: c’è in loro una poesia che seduce e ti porta a stare “con” loro. Ed è bellissimo. E doloroso.

Mi ha fatto bene conoscervi.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL GUARDIANO di Harold Pinter – regia di Duccio Camerini

TEATRO LO SPAZIO, dal 16 al 19 Novembre 2023 –

Se l’acutezza di spirito di Harold Pinter è riuscita a provocarci ad immaginare negli ipotetici panni di un “guardiano” un ladro; il mordace sguardo registico di Duccio Camerini riesce a solleticarci a riflettere su come i panni del “ladro” possano essere vestiti da Mick – una delle vittime del furto – “lasciando in mutande” il ladro.

Ed è vero, è proprio così: per natura l’istinto alla sopraffazione ci unisce tutti. È ciò che più profondamente costituisce un essere umano. Sì, l’odio viene prima dell’amore: ci fonda.

L’ amore no. L’ amore – e quindi l’accoglienza, la condivisione, la misericordia, l’amicizia, l’altruismo – è tutto da imparare. Così come il concetto del “custodire”: dello sviluppare la fiducia a lasciare in custodia qualcosa di nostro ad un altro. 

Ma cosa c’è da custodire in una stanza dove regna la fatiscenza e il caos ?

L’interno.

Qui, nel penetrante sguardo registico di Duccio Camerini, “il territorio da segnare” è un teatro abbandonato, roccaforte su un “esterno” minaccioso.

Ma cosa c’è di più accogliente di uno spazio teatrale? Uno spazio dove “deve” esserci qualcun altro che viene dall’esterno, per poter dar vita all’epifania del teatro?

In un’allucinata metateatralità, qui il living dei personaggi è un “territorio segnato” da un quadrato impermeabile. Ma un teatro non resta mai davvero asettico, abbandonato: per sua natura è permeabile, osmoticamente comunque visitato da presenze, da “fantocci” continuamente nuovi – spesso fedeli – che desiderano guardare, assistere, condividere, proteggere. Custodire.

Lo sguardo registico di Camerini non manca di valorizzare anche l’altra forma – oltre quella territoriale – in cui si esprime l’esigenza dei personaggi pinteriani di “segnare il territorio”: quella linguistica. Quella dei significanti: lo spazio nascosto e sottostante il significato delle parole. Uno spazio “interno” autentico e sofferto. Così lacerante che nessuno dei personaggi può e vuole sostenerne il peso: né il mittente riesce a tradurlo in una comunicazione intima e sincera; né il destinatario riesce ad accoglierlo ascoltando davvero la confessione dell’altro. Laddove l’ascolto è la condizione base per permettere ai sintomi della sofferenza di trasformarsi in parole. Non appena uno dei tre pare tentare di raccontarsi, l’altro si distrae a fare altro oppure parla contemporaneamente anche lui. Evitando che si lasci spazio al silenzio, presupposto che onora la parola dell’altro. “Guardiano” è quindi ciascuno dei tre protagonisti, nell’accezione riflessiva che ciascuno “si guarda” dall’Altro.

La vita, sembra dirci lo spazio teatrale, è una partita, dove le squadre avversarie, o i contendenti, sono realmente divisi. La separazione infatti è il presupposto di ogni partita. Non a caso Mick, il fratello di Aston, presentandosi all’ospite inatteso Davies (il ladro) lo accoglie con la provocazione: “A che gioco giochiamo?”. E a quante partite scoprirà di dover giocare Davies, in una metateatralità del gioco della vita !

In una visione registica che riesce a far coabitare ritmo ed eloquenti silenzi, fedeltà ed opportuni tradimenti, Duccio Camerini scende anche in scena vestendo i panni di un Davies carismatico e scoppiettante, che sottovaluta l’altruismo rappresentato da Aston (un Leonardo Zarra credibile nella sua vellutata e ossessiva sofferenza) e la diffidenza del fratello Mick, resa con efficace isterica violenza da Lorenzo Mastrangeli.

Uno spettacolo che – nell’apparente freddezza – brucia di passione.  

Uno spettacolo che cela e rivela verità esistenziali.

Perché il Teatro ci salva. Sempre. È la nostra roccaforte da dove “guardare” la Vita.

Come nel Teatro così nella Vita, infatti, ci “deve” essere l’altro per esserci un noi.


Recensione di Sonia Remoli