Recensione a LA DIVA DEL BATACLAN – regia, drammaturgia e liriche Gabriele Paolocà

Musiche originali Fabio Antonelli

con Claudia Marsicano e con Gabriele Correddu


Lo spettacolo si apre con la pronuncia di una sentenza di colpevolezza verso colei che si è spacciata come una sopravvissuta alla strage del Bataclan del 13 Novembre 2015.

A lei si ispira l’irresistibile Audrey di Gabriele Paolocà, interpretata da una candida e perturbante Claudia Marsicano, che incanta lo spettatore con il suo caleidoscopico appeal. E con una voce da sirena di Ulisse, che sa raggiungere profondità segretamente orrorifiche.

(ph. Manuela Giusto)

Per la Legge dello Stato lei è uno sciacallo: una donna che si è approfittata di un trauma collettivo per trarne profitto personale.

Per la legge dell’umano stare al mondo – sulla quale l’autore e regista Gabriele Paolocà investiga con sollecita cura – Audrey è anche una donna tentata dall’opportunità, in qualche modo offerta dai social, di cogliere l’occasione di continuare a crearsi una nuova identità (ma non più in solitaria), per poter essere – ora finalmente – oggetto di quelle attenzioni da sempre a lei negate. 

Gabriele Paolocà

Con acuta genialità Paolocà immagina e mette in scena un sistema concentrico di cortocircuiti drammaturgici, per arrivare a solleticare lo spettatore laddove meno se lo aspetta. E lo fa provocando quei continui cedimenti emotivi, che sanno smuovere le prime considerazioni dello spettatore sul modo di reagire di questa giovane donna.

Un personaggio ispirato al fenomeno delle cosiddette “false vittime” fiorite, successivamente al trauma collettivo del 13 Novembre 2015, quando Parigi fu colpita da una serie di attentati terroristici di matrice islamica, poi rivendicati dall’Isis. Il più sanguinoso e tristemente noto dei quali, avvenne al Teatro Bataclan, dove era in corso il concerto del gruppo americano «Eagles of death metal»: vi morirono novanta persone.

La solidarietà e l’attenzione con le quali per la prima volta furono investiti i sopravvissuti, i parenti e i conoscenti delle vittime, grazie al clamore mediatico, sollecitarono nell’animo umano reazioni di partecipazione emotiva di varia intensità. Non ultima, una sorta di cortocircuito emotivo tale che, per alcuni, coloro che furono toccati da vicino da tale tragedia divennero occasione di invidia.

Attraverso la sua appassionata indagine, Gabriele Paolocà ci invita a prestare attenzione a questa insolita reazione – ma in dosi omeopatiche presente nelle corde di ogni essere umano – accompagnandoci nel conoscerla meglio: andando un po’ più in là della prima analisi dei fatti.

Per “seguire” Audrey occorre infatti “accettare la sua amicizia” osservandola più da vicino: scendendo sotto la prima impressione che ci suscita e iniziando ad averne cura. Cioè immaginando di “avere a che fare” con lei. Mettendo così in campo la possibilità di un secondo sguardo che – proprio come una seconda chiave di lettura – ci può permettere di aprire varchi, che altrimenti rimarrebbero chiusi. 

Ed è allora che Audrey inizia con l’arrivarci anche come un personaggio dalla verve shakespeariana: che fino al momento della strage vive la sua quotidianità di bambina e di ragazza “seguendo” e assecondando la fulgida musa della fantasia. Per esistere e resistere alle brutture di un passato familiare di deplorevole violenza.

“Seguendo” l’invito shakespeariano, lei riesce infatti a vedere, ad esempio, la mamma come una duchessa e le lenzuola, dalle quali mai si separa, come una dorata distesa di grano.

Finché crescendo non entra in scena lui: il computer e la rete di “connessioni” e di “sguardi” offerti dai social network.

Ora la valvola di esistenza e di resistenza del raccontarsi attraverso la lente della fantasia shakespeariana assume nuovi connotati.

Ora la rete social permette al suo personaggio shakespeariano di varcare quel sipario, dove prima era come in solitaria attesa, dietro le quinte.

Ora, pirandellianamente, il suo personaggio in cerca d’autore incontra la complicità pubblica offerta da altri “sopravvissuti”. Anche loro colpiti da vicino da una forma di violenza e in attesa di elaborare un lutto familiare. 

(ph. Manuela Giusto)

Ed è così che, in un continuo e fertile attentato ai rigidi principi di identità e di non contraddizione e di causa-effetto propri della logica, Gabriele Paolocà  ci porta a sentire il fascinoso bilico del nostro stare al mondo.

Lo fa mandando in scena una concatenazione di cortocircuiti drammaturgici, che coinvolgono sinergicamente la regia, la drammaturgia e le liriche (di sua cura), così come la composizione delle musiche (di Fabio Antonelli), lo spazio scenico (di Rosita Vallefuoco), il disegno delle luci (di Martin Emanuel Palma), la drammaturgia fisica (di Carlo Massari), i costumi (di Anna Coluccia).

(ph. Manuela Giusto)

Nello specifico ci ritroviamo coinvolti in cortocircuiti come quello che scaturisce dal contatto tra l’innocua briosità del musical e l’efferatezza rock della tragedia; oppure dal contatto tra l’ingenuità di una bimba mai riconosciuta nel suo esistere e la perversione del suo chiedere (e ottenere) attenzione da patologica manipolatrice narcisista. Ma ci ritroviamo coinvolti anche nel cortocircuito che scaturisce dal contatto tra la realtà da rifiuto organico delle origini di Audrey e la sua abilità trasformativa capace di fare, ad esempio, del suo letto, un vitale luogo d’incontro con la fantasia.

E poi il cortocircuito finale: quello che paradossalmente passa dalla fulvida fantasia shakespeariana, all’eccitante occasione d’incontro offerta dalla postazione pc.

(ph. Manuela Giusto)

Cortocircuito ben visualizzato anche cromaticamente da quel rosa morbidamente immaginifico, che diviene poi brillante e impudentemente shocking lasciandosi attrarre dalla scabrosità del nero. E che ci parla di ciò che “esiste” ma soprattutto di ciò che “resiste” (nel bene e nel male) nel nostro stare al mondo di esseri umani.

Lei, Audrey, un Amleto dei nostri giorni che – in bilico tra l’essere e il non essere – è portata a scegliere di esserci non essendoci.

E se l’inizio dello spettacolo si apriva con una lapidaria condanna alla quale con soddisfazione aderivamo, alla fine dello spettacolo qualcosa vacilla nel giudizio iniziale. Qualcosa è cambiato. E ci arriva la sensazione che essere rigidamente al sicuro nelle nostre idee, ci “acceca” nella capacità critica. E umana.

Questa generosa faglia si verifica perché “nel mentre”, ovvero tra l’inizio e la fine dello spettacolo, Gabriele Paolocà – con la complicità di Claudia Marsicano e di Gabriele Correddu (un intrigante servo di scena nonché fulgente personificazione della musa della fantasia) – attenta costruttivamente i nostri confini difensivi.

Proponendoci , attraverso questa sua indagine drammaturgica, la testimonianza di un possibile “stare insieme aperto”. 

Un fare comunità cioè dolce e devastante, perché racconto di un insieme distinto, che partecipa di un valore che è insieme onere e dono. 

Un fare comunità che si basa sul tenere viva l’attenzione su “ciò” e “chi” è stato e ora non è più. Ma che resta. Grazie alla diponibilità di accettare di parlarne in tanti modi differenti.

Un fare comunità realizzabile attraverso un uso sempre migliore dell’apertura critica offerta dalla cultura. E quindi anche dal Teatro.

Perché, per noi esseri umani, “non è possibile esistere, se non in rapporto all’Altro”.


Recensione di Sonia Remoli