ANTIGONE – regia Roberto Latini

TEATRO ROMANO DI OSTIA ANTICA

19 Luglio 2025

Teatro Ostia Antica Festival

Il senso del passato

Al di là dei meccanismi “confortevoli” della tragedia classica – dove si puó far conto su una “distribuzione delle parti” che protegge lo spettatore dal riflettersi nelle intime e contraddittorie responsabilità proprie di “ciascun” personaggio – la rilettura innovativa dell’Antigone di Sofocle da parte di Jean Anouilh è un testo – qui tradotto da Andrea Rodighiero  e adattato da Roberto Latini – che sceglie di rinunciare al meccanismo della suspense tragica, per andare a sagomare l’attenzione dello spettatore sulla luce delle ombre, proprie del diverso modo di stare al mondo di ciascun personaggio. 

Roberto Latini

Ciascuno in bilico tra il suo essere uomo e il suo essere umano: ciascuno costituito da una propria dose di “sentire” fatto di solidarietà e di opportunismo; di compassione e di indifferenza; di comprensione e di giudizio; di perdono e di odio; di cura e di disattenzione; di gentilezza e di violenza.

La regia di Roberto Latini visualizza con intensa efficacia questa tensione d’indagine di Jean Anouilh, mettendo in scena una strada – topos dell’eredità paterna di Antigone – ma sollevando i personaggi dal dover accordarsi  su quel “cedere il passo”, che aveva contraddistinto la storia di Edipo e (metaforicamente) anche quella dei suoi fratelli Eteocle e Polinice. Lo fa cioè trasformando quella che era una libera scelta, nella “regolamentazione” di  uno stop. Nello specifico, la fermata di un bus. Sul quale però Antigone si sente libera di scegliere di non salire. Mai.

Perché regolamentare una libera scelta non spegne, né anestetizza, il sentire umano. 

Perché non è vera solo la considerazione che “tutte le scelte che hai fatto ti hanno portato adesso qui” ma anche che “tutte le scelte che non hai fatto ti hanno portato adesso qui”.

Lo stesso Creonte, che in veste di “re” condanna l’ostinato sentire di Antigone, si chiede come “umano” – e scopre di desiderarlo anche lui – se mai qualcuno sarebbe disposto a morire per lui, pur di dar voce ad un sentire esuberante la Legge e al di lá del suo effettivo “merito”` quale destinatario del gesto.

Un sentire che, proprio in quanto “esuberante” rischia di perdersi,  sfociando in una pulsione di morte. Così come rischia di essere risucchiato in un meccanismo di mortifera manipolazione – dove in cambio di una pseudo sicurezza si cede il proprio pensiero critico – il sentire di coloro che “con indifferenza” aderiscono alla Legge.

E’ un rapporto – questo tra la Legge e il sentire umano – che parla intimamente di noi. E a noi. 

Non a caso il Teatro ne fa l’oggetto privilegiato della propria indagine.

Ecco allora che la regia di Latini sceglie di fare di ciascun personaggio “un corpo di voce”, capace di rendere magnificamente il vicendevole insinuarsi delle tensioni securitarie nel sentire esuberante dei protagonisti della storia.

La stessa scelta di distribuzione dei personaggi non è quasi mai univoca e la duplice partitura rende con avvincente efficacia il riflettersi – e quindi il visualizzarsi – di aree dell’animo di un personaggio nell’altro.

Le opportunitá offerte dallo spazio scenico del Teatro romano di Ostia vengono poi esaltate nel loro valore simbolico rendendole aree dell’animo dei protagonisti. Ad esempio, lo spazio dell’orchestra ospita l’area più enigmaticamente sotterranea non solo di Antigone – la cui restituzione da parte del Latini attore si incide nello spettatore per una sublime bellezza vertiginosamente aerea – ma anche degli altri personaggi. 

Anche i costumi – curati da Gianluca Sbicca – esaltano i colori e le morfologie vocali dei personaggi, la cui unicitá del volto è parzialmente celata da una maschera omologante – che ricorda quelle antigas del periodo bellico della Seconda Guerra Mondiale. Maschera alla quale possono rinunciare  quando scendono nell’area sotterranea della propria  psiche. 

Nell’area superiore del palco – area della cittá di sopra, ordinata dai principi della Legge di Stato e simbolo dell’area psichica dell’io – le posture e i gesti della voce/corpo dei personaggi si esprimono attraverso  la meccanicità dell’obbedienza, alludente a quella di marionette i cui fili sono gestiti dall’opinione pubblica della cittá: un agglomerato di mezzi di comunicazione uniformante. La cura delle scene é di Gregorio Zurla.

Le musiche e i suoni di Gianluca Misiti, nonchè la drammaturgia delle luci di Max Mugnai, sono anch’essi sensuale corredo acustico di una messa in scena sapientemente versata nelle orecchie dello spettatore.

E che inizia così:

Roberto Latini

Ecco. Questi personaggi stanno per rappresentarvi la storia di Antigone…”.

L’ “Ecco” che apre il prologo è un vero e proprio “ecce homo”: come a dire “eccoli, guardateli, sono proprio questi personaggi qui, questi davanti a voi, che fanno la storia (oltre che il mito) di Antigone”. 

Ed é la voce solenne e suadente di Francesca Mazza che – come in un reportage esistenziale – ci rivela ritratti acuminati di personaggi assai riconoscibili: a noi vicini, prossimi.  

Vale qui la pena ricordare che Anouilh fu trascinato a scrivere la sua “Antigone” non appena appresa la notizia dell’atto del giovane Paul Colette – atto rivendicato senza porsi a rappresentante di alcuna idea politica – con il quale aveva attentato, senza fortuna, alla vita del vice di Philippe Pétain (che allora governava la Francia di Vichy) conquistandosi le percosse della polizia, una condanna e la deportazione.

Personaggi quindi – quelli annunciati nel prologo – che non hanno nulla di rassicurante: escono fuori dai confini della tragedia e ci vengono a graffiare. O ad accarezzare, complici. E ci sussurrano – spogliandoci delle nostre maschere – quali sono le ombre che ci costituiscono. E così, denudati, restiamo a guardarci.

Francesca Mazza

Accorgendoci come non ci sia davvero niente di rassicurante nelle nostre tenere e vigliacche esigenze di sicurezza. 

Intenzione dell’autore è  quella di non lasciarci “tranquilli”, come se la storia non ci riguardasse davvero, o come se ce la potessimo cavare con una rassegnazione furba: indifferenti, senza dubbi, senza turbamenti, “sempre innocenti, sempre soddisfatti di noi stessi e della giustizia… senza immaginazione”.

Intenzione dell’autore è contaminarci dell’urgenza ad andare a “scovare” – un pó come fa Emone – l’Antigone che è in noi, in tutti noi. Perché ora la nostra Antigone l’abbiamo nascosta “laggiù nel fondo” della nostra anima. Un pó troppo in fondo, forse. Come Creonte. 

Silvia Battaglio

Ma anche come Ismene: una sorella incline sí al conversare e all’omologarsi ma anche a quella meditazione solitaria propria del personaggio del “messaggero” (nella doppia partitura un’interessante Silvia Battaglio).

Solo ora, così predisposti gli spettatori attraverso un prologo spietatamente poetico, la recita può iniziare.

Manuela Kustermann

“Da dove vieni?” – è la voce insieme stridula e rauca della meravigliosa Nutrice di Manuela Kustermann, solo lei capace di intuire l’essenza volatile di un’ Antigone – “dal passaggio più leggero del passo di un uccello” – che fin da piccola piangeva pensando che c’erano tante bestioline, tanti fili d’erba nel prato e che non si poteva prenderli tutti. 

Lei, la Nutrice, una donna dalla sensibilitá ancestrale: “marmotta”  e “cane da guardia” si definisce. E si rammarica di non esser riuscita ad essere stata sufficientemente attenta nel controllare la “tana” da lei scavata. Sente, infatti, a qualche livello, l’attrazione pericolosa di Antigone per la notte, per il mondo di sotto. E questo “la manda in oca”: la rende goffa e confusa.

Sente che é una bambina che si sta improvvisando adulta, senza passare per l’adolescenza. Una piccola Antigone che non vuole avere ragione ma che si ostina a fare ció da cui si sente chiamata. Senza voler scendere a compromessi. “Ancora troppo piccola per tutto questo”: essere catturata e insieme essere per la prima volta se stessa.

Orgogliosa come “un piccolo Edipo”, Antigone é consapevole che il re di Tebe “deve” farla ammazzare “senza volerlo”. Perché questo significa essere un re. Ma, se oltre ad essere un re é anche “un essere umano”, deve farlo in fretta: solo questo lei gli chiede.

Creonte (qui, una coinvolgente Francesca Mazza)  comprende la richiesta di Antigone  e le confida: “avrei fatto come te, a vent’anni. È per questo che mi bevevo le tue parole. Ascoltavo dal fondo del tempo un piccolo Creonte magro e pallido come te e che non pensava ad altro che a dare tutto anche lui”.

Ora, invece, Creonte é un uomo che “gioca al gioco difficile di guidare gli uomini”. Un gioco difficile, il suo, non essendo guidato dalla passione ma solo dalla spinta all’esecutivitá, propria di “un operaio sulla soglia della sua giornata”. 

E’ un re che ha paura, Creonte, e che rimpiange la sua vita di prima: quella ribelle dei vent’anni e quella precedente alla morte di Edipo: una vita noiosa e libera da responsabilitá.

Non immune dalla paura é la stessa Antigone, che cerca il calore umano dello “sfregarsi” in un abbraccio, prima di ogni momento particolarmente difficile. E lo chiede apertamente: alla Nutrice ma anche ad Emone e finanche alla guardia (qui un’Ilaria Drago efficace in entrambe le partiture).

Ma un nuovo “Ecco” apre l’epilogo affidato alla vocalitá decisa e vellutata di Manuela Kustermann.

“Ecco, senza la piccola Antigone, è vero, sarebbero stati tutti più tranquilli. Ma adesso è finita”.

E ritorna l’attenzione puntata proprio su quei personaggi che Anouilh ci aveva posto di fronte al momento del prologo e che, senza la storia di Antigone, sarebbero stati “tranquilli”: senza turbamenti. Anche gli spettatori senza la storia dell’ Antigone di Anouilh sarebbero stati piú “tranquilli”: non sarebbero stati sollecitati a rispecchiarsi nelle diverse aree contrastanti del sentire dei diversi personaggi coinvolti nella storia.

Ma la vita non ci chiede di essere “tranquilli”, men che meno “indifferenti”, come invece fanno le guardie: atteggiamento con cui Anouilh non a caso chiude il testo. Loro si curano solo di giocare a carte, ovvero di giocare ai soldi.

Ma ogni fine contiene anche un nuovo inizio: é il senso del passato.

E allora Jean Anouilh chiude con un paradosso per dare vita a un nuovo enigma: chi sono coloro che invece di avere cura del rispetto della giustizia, amano giocare ai soldi?

Ma soprattutto: chi sentirá l’esigenza di decifrare questo enigma, di interpretarlo, di farlo risuonare in se?

Roberto Latini. Foto ©Masiar Pasquali

Attraverso questo spettacolo Roberto Latini ci fa dono, ancora una volta, di una splendida testimonianza dell’esigenza di prenderci cura di noi. Di tutti noi.

E lo fa indirizzando il nostro sguardo su chi – precedendoci – ha dovuto giá “scegliere le domande da infilare nelle tasche del tempo, dell’età, della speranza” –  come scrive splendidamente lui stesso, nelle note di regia allo spettacolo.

Domande che ci parlano di un desiderio che custodisce “una veritá vera, scomoda, incapace, parziale”. E cioé che “la nostalgia del vivere é precedente a tutti noi”.

Per questo, noi che ora siamo vivi, possiamo evitare di “dolcemente dimenticare” le tracce e le rovine lasciate da chi ci ha preceduti: é questo  quel “senso del passato” di cui questo Festival ha cura di parlarci. Perché quelle tracce e quelle rovine chiedono continuamente di essere riesaminate.

Perché il nostro passato – come ci ricorda Latini nel suo finale – é il risultato non solo delle scelte che abbiamo fatto, ma anche di quelle che NON abbiamo fatto.

Perché il passato é “un affare che ci riguarda”.

-.-.-.-.-

Recensione di Sonia Remoli

EDIPO RE – adattamento e regia Luca De Fusco

TEATRO ROMANO DI OSTIA

dal 2 al 6 Luglio 2025

Travolgente successo al Teatro romano di Ostia per la prima dell’ Edipo re di Sofocle nell’adattamento e regia di Luca De Fusco, traduzione Gianni Garrera.

Luca De Fusco

(ph. Tommaso Le Pera)

Uno spettacolo con Luca Lazzareschi, Manuela Mandracchia, Paolo Serra, Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta – in prima nazionale dal 2 al 6 Luglio – che inaugura la prima edizione del Teatro Ostia Antica Festival- Il senso del passato.

Lo sguardo dello spettatore – incastonato nell’area Archeologica degli scavi e insieme solleticato dall’invitante brezza salata del ponentino romano- inizia a fare esperienza di quella ritualità propria del rapporto tra libertà e necessità, di cui il testo di Sofocle – qui tradotto dal filologo Gianni Garrera – ha cura di descriverci.

Emerge così, dal crepuscolo estivo, una scena sempre più ammiccante e notturna. Modulata in diversi livelli di scale, che ospitano presenze simboliche. Alludenti a identità segretamente celate sotto la formalità borghese di tre cappelli magrittiani e in una testa in gesso velata, sempre di magrittiana memoria, splendida allusione al rapporto dell’uomo con la conoscenza. 

Una scena essenziale e simbolica – curata dall’elegante estro scenografico di Marta Crisolini Malatesta, qui artefice anche dei costumi – che richiamandosi alle potenzialità dinamiche insite in una concezione scenica visionaria come quella di Adolphe Appia, va al di là della mera messa in scena di un testo letterario. E si apre al potere della luce come elemento visivo, capace di creare un’atmosfera: mutando assieme alle azioni e alle emozioni dell’attore. 

Concezione scenica efficacemente in sinergia con l’estetica surrealista magrittiana, in grado di insinuare dubbi su oggetti, paesaggi ed esperienze della più concreta e banale vita reale, proprio attraverso un maniacale realismo espressivo. Ne scaturisce così un paradosso dall’illusionismo onirico, perfetto per dare ospitalità alla tragedia dell’Edipo re, così come immaginata dallo sguardo registico di Luca De Fusco. 

Ecco allora che, furtivamente, lo spettatore si trova calamitato in un misterioso avvio, che coincide con l’introduzione a una dimensione altra. Attraverso un disegno luci atmosferico e narrativo – la cui cura è affidata a Gigi Saccomandi – entra in scena il linguaggio onirico/inconscio della luce insinuante delle ombre, accompagnato dalla misteriosa cromaticità di una tessitura drammaturgica al violino – le musiche sono di Ran Bagno – il cui virtuosismo, incarna quel quid di trascendentale, fascinoso e conturbante.

Complice una creazione video-scenografica che, come uno specchio, rimanda e visualizza surrealisticamente l’habitat inconscio della psiche dei personaggi  – le splendide creazioni video sono opera di Alessandro Papa – anche lo spettatore viene gettato nella situazione traumatica della carestia e della successiva peste, in cui è immersa Tebe. Edipo è il re, e a lui le varie aree della sua psiche, nonché la popolazione di Tebe, chiedono salvezza, liberazione.

L’adattamento e la regia di Luca De Fusco partono da qui, per  concentrarsi sulla fragilità delle dinamiche conoscitive di Edipo, così simili alle nostre. Non a caso Freud fece della storia di Edipo il fulcro dell’esplorazione delle modalità psichiche umane. 

Luca Lazzareschi

L’Edipo di Luca Lazzareschi è magnifico nel suo darsi in una sventurata ostinazione, che però non smette mai di commuoverci. Perché ci appartiene intimamente. Ce ne parla la sua postura così solenne eppure così tormentata: tutta incentrata nella tensione tra il suo ergersi da sapiente, la sua falcata sicura e il suo modo poi di abbassare il capo, proprio di chi viene colto e avvolto dalla confusione e dal dubbio. E lui, anziché restare in questo tunnel di fertili incertezze tutte da esplorare, le scaccia per poi inevitabilmente imbattervisi inconsapevolmente. E poi c’è la sua vocalità: così chiara e piena di ritmo, sicura fino all’impertinenza. E poi arrendevole, mortifera e mortificante.

E ancora, atterrisce e affascina il relazionarsi chiuso di Edipo verso Creonte (qui un efficace Paolo Serra), con il quale non riesce ad allacciare un equilibrio di posizioni divergenti. Edipo è il primo detective nella storia del romanzo giallo – come la lettura registica di De Fusco sa sottolineare – ma la sua capacità di indagine è efficace solo formalmente: Edipo sa chiedere attraverso un editto, sa da chi può farsi aiutare per ricavare indizi dalle tracce, ma poi non ce la fa a scendere ad analizzare le loro profondità.  

Paolo Cresta (secondo Nunzio, secondo Corifeo) – Luca Lazzareschi (Edipo) – Alessandro Balletta (terzo Corifeo) – Francesco Biscione (primo Corifeo)

Incantevolmente struggente è la visualizzazione che di questo concetto ci offre la regia di De Fusco, quando sceglie di far prendere in mano ai tre Corifei (Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta) la testa di gesso velata. Per poi svelarla.

E’ una tendenza tutta umana, infatti, quella per cui ci si affanna nella curiosità insaziabile di sapere, per poi rimanere sorpresi nello scoprire che siamo capaci di sopportare solo piccole dosi della verità che ci si mostra.

Manuela Mandracchia (Giocasta) – Luca Lazzareschi (Edipo)

E’ l’effetto che ogni volta l’oracolo ha su coloro che a lui si rivolgono, come ad una sorta di arcaico psicoanalista, quando sono in una crisi tale che non sanno da dove cominciare a dipanare la nebbia dei dubbi. Ad esempio quando Edipo scopre di essere stato adottato: l’oracolo non risponde alla sua domanda su chi sono i suoi genitori biologici ma gli dice che è importante che lui consideri – e quindi metta in relazione con le sue aree psichiche migliori – anche la realtà che dentro di sé esiste una tendenza che lo spinge ad uccidere suo padre, per poi sostituirlo nel ruolo di marito con la madre. 

Ma Edipo è così turbato da non riflettere bene sul significato metaforico del consiglio. Lo prende invece alla lettera e crede che la cosa migliore sia sfuggire dai genitori adottivi. Così qui: quando Edipo manda Creonte a chiedere all’oracolo come fare per liberarsi dalla peste e poi ascolta il responso, inizia a fare fatica a rimanere concentrato sulle prime testimonianze. Perché sente che si sta avvicinando ad una verità grande, difficile da accogliere e da mettere in relazione con la propria autostima. Sente, che proprio nell’indagare, è se stesso che sta cercando. Ed è di straordinaria bellezza tragica. 

Luca Lazzareschi (Edipo, Tiresia, Servo di Laio, Nunzio)

L’acme del disagio si raggiunge con Tiresia – qui reso attraverso una seducente ed efficace proiezione video, che ne fa una creatura volatile che dondola imprigionata in una gabbia. Lui che era un esperto dell’ arte divinatoria analizzando il comportamento, il canto e la direzione del volo degli uccelli . Assai avvincente la sua vocalità: dalla musicalità cantilenante distorta, vagamente gracchiante eppure così divina. 

Nella profonda lettura di De Fusco anche Tiresia  – così come il Servo di Laio e il Nunzio, essendo coloro che a qualche livello conoscono la verità – divengono aree diverse della psiche di Edipo, le quali entrano in tensione con la prepotenza del suo ”io”. Che – come sosteneva Freud – “non è padrone in casa propria”. Infatti la tensione con l’area psichica rappresentata da Tiresia diviene così ingombrante, da far arrivare Edipo a sospettare un complotto contro di lui da parte dello stesso Tiresia e di Creonte.

Luca Lazzareschi (Edipo) – Manuela Madracchia (Giocasta)

Non lo convince a desistere dall’andare ciecamente avanti nella sua ricerca, neanche l’approccio di Giocasta (qui una suadente Manuela Mandracchia, meravigliosa nube cumuliforme), che versa nell’orecchio di Edipo il dubbio che in fondo gli oracoli non sono poi così puntuali. E che preferibile per lui sarebbe, scegliere “il meglio” piuttosto che “la verità”.

E così Edipo impara, e noi con lui, che nessuno in quanto “figlio” può essere padrone delle proprie origini. Tutti noi, sosteneva Jacques Lacan, veniamo al mondo “a mollo nel linguaggio dell’altro”. E il nostro primo “altro” sono i nostri genitori, dai quali Edipo non eredita altro se non un abbandono e un (mancato) infanticidio. Eredità che ripeterà, non accettando di “conoscere se stesso” nel bene e nel male, così come di non poter conoscere tutto. Tra l’altro, sostenere massicce dosi di verità non è affatto semplice: Jung diceva ai suoi pazienti psicotici che “è bene non aprire tutte le porte: quello che può uscire, rischia di catturare la mente senza restituirla”. 

Ma se è vero che per Edipo, e per noi umani, fare esperienza di “libertà” significa conoscere se stessi nel bene e nel male ed accettarsi, dietro ad Edipo c’è anche “il destino” che parte dalla violenza subita da suo padre da parte dei Dioscuri di Tebe e poi a sua volta ripetuta da Laio su Crisippo. 

E’ per questo che l’oracolo dice a Laio che, se avrà un figlio, ne verrà ucciso e diverrà lui marito a sua madre. E Laio anziché decifrare questo messaggio metaforico, pensa di evitarne gli effetti dapprima proteggendo i suoi rapporti e poi consegnando il neonato affinché venga ucciso. Edipo sopravviverà e quando, scoprendo di essere un figlio adottato ne andrà a chiedere informazioni all’oracolo, lui stesso cadrà nello stesso errore di non decifrare l’oracolo ma di sfuggirne gli effetti interpretandolo letteralmente. E così, sconvolgendo i rapporti “sociali” di parentela, Edipo – che aveva risolto l’enigma della Sfinge – finirà per darà origine lui ad altri enigmi, del tipo: “chi è colui che ha un padre che è anche un suocero? Chi è colui che ha una madre che è anche una moglie? Chi è colui che ha fratelli anche come figli? Tanto che, nelle “Fenicie”, Seneca mette in scena un Edipo vecchio e disperato a cui fa dire: “Se io da qui raccontassi ciò che ho fatto della mia famiglia, proporrei enigmi più inestricabili di quelli della sfinge”. 

(ph. Claudia Pajewski)

Accattivante lo sguardo registico di Luca De Fusco nel suo scegliere di indagare, fino a visualizzare negli occhi dello spettatore ciò che Edipo tende ad allontanare da sè.  

Lui stesso, il regista, un detective nel consultare e interrogare il passato.

Scoprendo di essere capace di cura e di responsabilità nel presente e nel futuro, così da tenere alta la consapevolezza di chi siamo, da dove veniamo e fino a dove abbiamo la possibilità di spingerci.

Per non perdere niente di ciò di cui è fatta la nostra vita. Niente e nessuno. 

Da questo sguardo di cura sul passato che si riflette sul presente, prende forma anche il desiderio della realizzazione del Teatro Ostia Antica Festival-Il senso del passato: il Festival che a Roma ancora non c’era e che è stato fortemente immaginato da Luca De Fusco – ci confida Il Presidente della Fondazione Teatro di Roma Francesco Siciliano nel suo discorso di apertura, alla prima di “Edipo re”. Un nuovo inizio a cui la comunità romana ha risposto con grande entusiasmo.


Dopo i grandi successi dei primi due appuntamenti

“’Antigone di Mendelssohn” direttore Francesco Lanzillotta 

e

“Edipo re” per l’adattamento e la regia di Luca De Fusco

il Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato

prosegue con

“Antigone” di Jean Anouilh per l’adattamento e la regia di Roberto Latini. 

il 18 e il 19 Luglio 2025


Recensione di Sonia Remoli