Recensione dello spettacolo SETE di Walter Prete – regia di Lorenzo Parrotto

TEATRO LE MASCHERE, dal 21 al 23 giugno 2024 –

Che uso stiamo facendo oggi della parola “separare” ?

Se nella “Genesi” – fonte di riferimento sulla quale è drammaturgicamente tagliato e cucito lo spettacolo – il concetto di “separare” conserva il significato di un generare distinguendo  due entità nuove ma autonome, oggi invece che cosa sta succedendo? 

Oggi  a “separare” non è più Dio come nella Genesi ma l’uomo in quanto  arrogante possessore del cosiddetto “genio”: quella scintilla creativa, e quindi divina, presente in noi. 

Ma il genio non si possiede: dal genio si è posseduti, si è guidati. E la sua attività – autenticamente creativa – produce bellezza di cui tutti possono partecipare. 

Giorgio Sales

La separazione che effettuano coloro che si auto-definiscono “geni” non è una nuova creazione fondata sul rispetto dell’essenza di un oggetto. No, l’essenza viene letteralmente eliminata, buttata via, privata del suo autentico valore, pervertendo così il significato etimologico della stessa parola “separare” . Al suo posto, ad acquisire valore sostanziale è l’apparenza: quella di una nuova immagine associata arbitrariamente all’oggetto, il cui valore non è quello della cosa in sé ma quello che qualcun altro ha deciso di attribuirle per fini di lucro. Finendo per separarla anche da una fruizione collettiva. 

Ma, concretamente, chi è “il genio”  di cui la sagace penna di Walter Prete ci propone varie declinazioni, interpretate con graffio seduttivo da un Giorgio Sales, diretto con raffinato guizzo da Lorenzo Parrotto

Giorgio Sales

Solitamente sono  influencer: personaggi di successo, popolari nei social network e in generale molto seguiti dai media, capaci di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico. Sono coloro che formano le opinioni dei più, fornendo gratuitamente (in apparenza) consigli, che hanno un retrogusto impositivo. 

Persone che si sentono “Dio” perché siamo noi a farle sentire così, affidandoci a loro. Credendo in loro. Lasciando a loro la facoltà di scegliere – e quindi separare – ciò che davvero ci piace da quello che non ci piace. Tanto che i brand si stanno sempre più avvalendo del supporto degli influencer nelle proprie strategie di comunicazione, finalizzate all’aumento delle vendite.  

Ma chissà perché preferiamo che altri scelgano per noi ? 

Giorgio Sales

Forse perché non abbiamo più un libero accesso ai nostri desideri: ci siamo indeboliti, smarriti, disorientati. E se qualcuno viene e ci dice che lui è sicuro che è bene desiderare determinate cose, forse è meglio così. Lui si prende la responsabilità di desiderare per noi – perché, si sa, la libertà di desiderare non è facile da gestire – e noi eseguiamo. Tanto lo fanno tutti. E per essere uguali occorre desiderare e avere le stesse cose. Sempre “più nuove”, però.

Giorgio Sales

Poi, se uno vuole davvero essere un tipo invidiato da tutti, deve imparare a desiderare ciò che tutti non possono permettersi. E in una totale eterogenesi dei fini, i nostri ”consiglieri” influencer ci creano un nuovo Eden da desiderare, diverso da quello di cui parla la Genesi: una creazione subdola perché nasce dal “separare”, cioè escludere, da un bene essenziale comune – come ad esempio l’acqua – coloro che non sono disposti a pagarlo ad un prezzo stupefacentemente proibitivo.  Un’acqua che ora, così (perversamente) desiderata, è un bene esclusivo di quei pochi che possono non essere tagliati fuori, separati,  da un Eden che oltre ad essere proibito (cioè diversamente immorale) è anche “proibitivo”  (difficilmente accessibile economicamente) . 

Giorgio Sales

Ma come saremo arrivati fin qui ? L’acqua è un bene essenziale, pubblico e soprattutto gratuito. Nasce come un dono, ma a noi oggi forse non interessano più i doni: prezioso è solo ciò che si riesce a comperare ad un prezzo scandaloso. 

E chissà con quale alibi, con quale “altrove da noi” proveremo la nostra innocenza, la nostra estraneità a questa degenerazione?

O forse, come il personaggio principale di questo spettacolo, solo dopo aver vissuto tutto ciò, saremo capaci di tornare a sentire davvero il sapore autentico delle cose.

Walter Prete

“SETE” è il prodotto di un collettivo informale composto da Giorgio Sales (interprete), Lorenzo Parrotto (regista) e Walter Prete (drammaturgo) che ha scelto di affidare alla capacità che solo “il racconto” possiede, di provare a tenere insieme ciò che invece sfugge alla comunicazione attuale. 

Lorenzo Parrotto

Obiettivo raggiuto, trovando il giusto equilibrio drammaturgico, interpretativo e registico tra una graffiante provocazione e un’accattivante critica degli attuali costumi. 

A cui volentieri si presta attenzione, lasciando che l’istrionico Giorgio Sales – dalla densa presenza scenica  e dalla cesellante interpretazione  magneticamente variegata – ci versi nelle orecchie un farmaco, che per sua natura è veleno e cura. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello studio ANDROMEDA (o della memoria ritrovata) – scritto e diretto da Francesco d’Alfonso –

SPAZIO DIAMANTE, 10 Maggio 2024 – Festival inDivenire

Come ci affascina l’essere ricordati !

E come può essere affascinante anche “farsi memoria”: ricercare i frammenti sparsi di storie e tentare di riunirli attraverso il racconto ! 

Come erano soliti fare gli aedi greci o i cuntisti siciliani. E come ha fatto anche Francesco d’Alfonso in questo studio, di cui è drammaturgo e regista. Sua cura e sua passione sono state quelle di tentare di dare una possibile forma all’ Andromeda: la tragedia di Euripide andata persa, di cui si conservano non più di quaranta piccoli frammenti.

Francesco d’Alfonso immagina allora che, in una sorta di rituale magico-cosmologico che si avvale del potere demiurgico della parola, il racconto di un cuntista – del quale si ode la voce fuori campo (quella di Gabriele Cicirello) – riesca a scongiurare il rischio che si perda la memoria del mito di Andromeda.

E’ sarà così allora che la tormentata chiusura con la quale si apre la scena, che così tanto allude alla sublime bellezza del blocco marmoreo dell’ “Andromeda” di Auguste Rodin per rendere lo stato di dimenticanza in cui attualmente si trova il mito, potrà sbocciare nella mirabile completezza del ricordo.  

Andromeda” di Auguste Rodin

Il potere vivificante del racconto dona movimento alle acque del mare così come alle costellazioni del cielo, in un mondo “dove la terra confina col cielo, e il cielo col mare“. Ne nasce una danza che disegna onde e cinge gruppi di stelle generando una spuma che si materializza sulla scena attraverso voluttuosi drappi (i costumi sono curati da Elina Maria Vaakanainen),  materia sulla quale prende vita una suggestiva coreografia di movimenti scenici, le cui interpreti sono Giada Primiano, Federica Bisceglia, Sofia Russotto.

Il mito racconta che la madre di Andromeda, Cassiopea, si fosse macchiata del peggiore dei peccati di cui si potevano macchiare gli umani: quello di hibrys (ovvero superbia, tracotanza). Dichiarò infatti che sua figlia Andromeda era più bella delle stesse Nereidi, le quali, offese, riferirono il fatto a Poseidone, che per punirla fece invadere le acque del territorio etiope da una creatura mostruosa. Consultato l’oracolo Ammone per trovare una possibile espiazione al peccato della moglie, a Cefeo fu detto di sacrificare la propria figlia in pasto al mostro. E così si fece. 

Ecco allora che la scena lascia intravedere la tormentata Andromeda incatenata ad uno scoglio, in attesa di essere divorata dal mostro.  Di lei al di là della sublime bellezza della sua postura non possiamo non notare la modernità del ragionare: così libero e così angosciato. Che non conosce rassegnazione. “Chi sono io ?” – osa chiedersi – “perché sono così infelice?… la giustizia mi ha abbandonato”. 

Francesco d’Alfonso rende con efficacia in questa sua drammaturgia le dinamiche psicologiche che abitano i personaggi di Euripide,  espressione di un’umanità così inquietamente moderna, rispetto ai personaggi delle tragedie di Eschilo e di Sofocle, rassegnati alla volontà divina.  

Davvero espressiva Eny Cassia Corvo, interprete di Andromeda: nonostante il corpo preda delle catene. Dilaniante la sua lucidità nel definire l’atteggiamento passivo dei suoi genitori, rassegnati a “condurla viva al sepolcro”. Una madre che le fa dono e danno di una straordinaria bellezza. Un padre, da lei amato sopra ogni creatura, che non fa nulla per sottrarla alla morte. E la consegna al supplizio di una non meglio definita attesa.

Ma all’improvviso, di ritorno dall’impresa vittoriosa contro Medusa, arriva lui: Perseo, “colui che osa andare per l’aria del cielo”. E subito ne resta rapito dalla bellezza, pur così imprigionata nei movimenti; pur così stravolta dalle lacrime. Ne è preso a tal misura che “per poco non dimenticò di battere nell’aria le ali”. 

La regia di Francesco D’Alfonso sceglie di non far risaltare la pesante immobilità in cui si trova costretta Andromeda rispetto alla leggerezza di cui è dotato Perseo, che Euripide faceva arrivare come un deus ex machina.   Chiede e ottiene che il Perseo di Giorgio Sales la convogli tutta nella mobilità degli occhi, nella vibrazione degli sguardi, nella vaporosità dei colori della sua voce. Anche nel ballo di intenzioni e di promesse che si scambiano, la potenza incandescente della loro tensione è tale che non serve che si tocchino. La regia di Francesco d’Alfonso lavora in sottrazione e coglie nel segno.

L’amore tra Andromeda e Perseo fu tale che durò oltre la morte: dalla terra al cielo. Perché l’ardire del loro vivere fece sì che Atena li consegnò al mondo delle stelle. 

E se è vero che la costellazione di Andromeda è facilmente individuabile nel cielo boreale soprattutto tra settembre e gennaio, è parimente vero che alimentare il ricordo, ovvero riportare al cuore le storie che rischiano di andare perse, è la cifra della nostra umanità. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dei docufilm QUINDI ARRIVAMMO A ROMA La seconda nascita della città eterna e IN QUEI GIORNI DIVENNE ETERNA Roma città degli opposti vangeli

Cosa rende divino l’umano e l’umano divino?

In che modo l’eternità plasma la storia?

Qual è il legame quasi inafferrabile, e insieme carnale,

che fa di Roma quel teatro dove l’eternità va in scena ? 

Forniscono un’interessante risposta a queste domande i due docufilm ideati dal Vicariato di Roma e interpretati dal raffinato carisma di Andrea Lonardo: il personaggio principale che, un po’ come il Virgilio dantesco, ci guida in due affascinanti percorsi – quelli proposti dai due docufilm appunto – alla scoperta dell’intimo legame tra la cultura pagana e quella cristiana. Culture originanti la città prescelta per divenire eterna: Roma.

Andrea Lonardo

Nel primo docufilm Quindi arrivammo a Roma. La seconda nascita della città eterna” (diffuso sul canale YouTube di Romartecultura dal Luglio del 2022) la narrazione si incentra intorno alla risonanza che ebbe, nella Roma decadente del periodo ellenistico, l’arrivo delle figure cristiane di Pietro e Paolo. Ad impreziosire l’originale percorso narrativo, contributi esterni di personaggi autorevoli, quali Giovanni Maria Flik (Presidente emerito della Corte Costituzionale); l’attore e regista Carlo Verdone e Alfonsina Russo (Direttrice del Parco archeologico del Colosseo).

Andrea Lonardo

Nel secondo docufilm “In quei giorni divenne eterna. Roma città degli opposti vangeli” (diffuso sul canale YouTube di Romartecultura dal 20 luglio u.s.) la narrazione verte intorno all’incredibile eco che ebbe, nell’aurea Roma di Augusto e Tiberio, l’ambiguità legata ai termini “salvatore” e “vangeli”. Preziosa qui l’amichevole partecipazione di Amedeo Feniello dell’Università de L’Aquila.

Luca Nencetti, Giorgio Sales e Giuseppe Benvegna

Entrambi i docufilm sono il frutto dell’appassionata sinergia tra diverse forme espressive: quella del documentario, quella del film e quella del teatro. Infatti, agli splendidi testi redatti da Andrea Lonardo (autore oltre che attore principale di entrambi i docufilm) si intrecciano sapientemente sia l’accuratissima regia cinematografica di Alessandro Galluzzi, che la regia teatrale e la direzione artistica, ricche in sensibilità, di Francesco d’Alfonso. La produzione è di Valerio Ciampicacigli per Ulalà Film

Ma ciò che li rende così unici, oltre all’elegante e certosina cura estetica – mai fine a se stessa ma sempre a servizio di un fine etico e divulgativo – è l’originalità dei contenuti sui quali gettano luce, portando alla ribalta quelle feconde interazioni dialettiche tra cultura pagana e cultura cristiana indispensabili per rileggere in modo originale la storia e la spiritualità di Roma. E non solo, perchè da esse ha preso avvio la stessa cultura occidentale.

Senza la lettera di San Paolo ai Romani, ad esempio, non ci sarebbero stati né Agostino, né Lutero, che si fecero portavoce della necessità di una salvezza che non dipende solo dall’uomo. Inoltre è dall’affermazione di Gesù “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” che nasce il principio della laicità : ogni vera religione deve rispettare la libertà dello Stato e ogni vera politica non ha il diritto di arrogarsi un potere assoluto, disgiunto dal bene .

La stessa scelta del titolo del primo docufilm “Quindi arrivammo a Roma” pur essendo una citazione da “Atti degli Apostoli” (28,11-16.30-31), non può non far risuonare nella mente e nel cuore dello spettatore quell’ “Allora uscimmo a rivedere le stelle” dantesco (c. XXXIV, v.139) presagio – lì come qui -di un nuovo cammino di luce e di speranza. 

In entrambi i docufilm la narrazione cinematografica del regista Alessandro Galluzzi tende a prediligere uno sguardo riflessivo, dove i piani sequenza e le riprese in soggettiva godono di uno status fondamentale, alimentando suggestioni poeticamente decadenti alla Paolo Sorrentino e momenti di suspence alla Alfred Hitchcock.

L’ io dello spettatore vede, infatti, con gli occhi del personaggio diegetico ed è proprio la forma del suo sguardo a condurlo nella forma linguistica della storia raccontata, punteggiata da panoramiche a schiaffo che ripropongono la necessaria naturalezza del battito delle palpebre dello sguardo. Non mancano gli spostamenti più poetici resi, soprattutto nelle scene di teatro, con assolvenze e dissolvenze, anche incrociate. Il tutto sempre con un effetto visivamente eloquente, tale da mantenere desta l’attenzione e alta la tensione emotiva.

Francesco d’Alfonso

Allo sguardo cinematografico si lega armonicamente la scelta dei tappeti musicali di entrambi i docufilm, curata abilmente da Francesco d’Alfonso, il quale si orienta opportunamente verso l’utilizzo di melodie prevalentemente eseguite con strumenti ad arco. Strumenti, e quindi mezzi, più adatti a veicolare proprio quella originalità – a volte “ruvida”, altre volte “lieve” – della narrazione e quindi della dialettica tra sacro e profano. Archi portatori di quell’appassionato rigore, che sa come muoversi e trovare un equilibrio tra spirito apollineo e spirito dionisiaco. 

Giorgio Sales

Ma allo sguardo cinematografico di Alessandro Galluzzi, Francesco d’Alfonso sa conciliare, oltre ai tappeti musicali più appropriati, anche un’accorta ed efficacissima regia teatrale, dove alla solenne staticità degli attori, resa vibrante da un’appassionata interpretazione vocale – sono tutti giovani professionisti diplomati all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico – si lega un mirabile uso caravaggesco della luce.

Luca Nencetti

Luce che sa essere sia divinamente epifanica ma insieme anche inquietantemente umana, riuscendo così a far affiorare anche quel “lato oscuro” connaturato all’essere umano. Quel lato che Socrate attribuiva all’ignoranza insita nell’uomo e che Paolo, con sguardo assai più moderno, rintracciava in quel tendere, tipico dell’essere umano, verso qualcosa a cui però, per natura, non riesce ad arrivare.

Giuseppe Benvegna

Splendido il ritmo che il regista Francesco d’Alfonso richiede ai suoi attori e che loro sanno come rendere: con quella leggerezza, di cui parlava Italo Calvino, che riesce ad accogliere anche il più profondo dei pathos.

Chiara Ferrara e Matilde Bernardi

La scena che rievoca la Passione delle due cristiane Perpetua e Felicita (nel primo docufilm ) ne è un seducente esempio: qui estasi mistica e ferina passionalità riescono a raggiungere un equilibrio che incanta.

Matilde Bernardi e Chiara Ferrara

Nel secondo docufilm, invece, il regista osa andare oltre arricchendo l’interpretazione richiesta agli attori con suggestioni coreografiche di sublime bellezza. Come quando sceglie di visualizzare l’ambiguità venutasi a creare su chi fosse il vero “salvatore”: l’Imperatore Augusto, che come tale si auto-appellava, o quel bambino nato in quegli stessi anni da una vergine in Galilea?

Matteo Santinelli e Marco Tè

La scelta registica di far interpretare questa scena (ricavata dal testo della “Ecogla IV” di Virgilio) a due attori uniti di spalle -quasi personificazione degli “opposti vangeli”- per poi disgiungerli, sembra alludere anche al mito platonico delle metà, raccontato per bocca di Aristofane nel “Simposio” di Platone.

Marco Tè e Matteo Santinelli

Una separazione fertile se finalizzata alla ricerca dell’altra metà (ovvero dell’altro “salvatore”) consapevoli che una coesistenza senza sopraffazione può essere possibile. Come fece il Tevere, accogliendo nel suo fluire i gemelli fondatori di Roma insieme a Pietro e Paolo, che in quel fiume battezzarono i primi cristiani della metropoli edificata da Romolo e Remo. Una resa scenica questa della “Ecogla IV” di Virgilio di un’efficacia estetica ed emotiva potentissima.

Un altro magnifico esempio di potenza coreografica lo si trova nella scena che fa rivivere un passo dell’iscrizione augustea di Priene: qui la scelta registica fa sì che all’attore sia chiesto di assumere una postura plastica che, nella sua naturale eleganza, ricorda moltissimo “Il Pensatore” di Rodin.

Giorgio Sales, Giada Primiano, Matteo Santinelli e Roberta Azzarone

E ancora, come non rimanere catturati dalla potenza espressiva degli attori nella scena ispirata a “La Salomè” di Oscar Wilde? Qui la tensione emotiva raggiunge picchi energeticamente sanguigni, macbethiani !

Roberta Azzarone e Matteo Santinelli

Roberta Azzarone, Giorgio Sales e Giada Primiano

Roberta Azzarone, Giada Primiano e Giorgio Sales

Matteo Santinelli

E infine, ne “Il Vangelo secondo Pilato” di Éric-Emmanuel Schmitt, ricca in acume è la scelta del regista d’Alfonso di vestire “il suo” Pilato in tailleur bianco: il colore che contiene tutti i colori, il colore che non sceglie. Come fece Pilato. E la luce va a cercarlo: illuminandolo in tutta la sua interezza.

Giorgio Sales

I docufilm sono stati ideati dal Vicariato di Roma e curati dall’Ufficio per la pastorale universitaria e dall’Ufficio per la pastorale del tempo libero, del turismo e dello sport. In redazione Annalisa Maria Ceravolo, Claudio Tanturri e don Francesco Indelicato, direttore dell’Ufficio per la pastorale del tempo libero, del turismo e dello sport.

Andrea Lonardo

Il format dei due docufilm è pensato per quanti vivono quotidianamente la città e il centro storico, in particolar modo per gli studenti delle università romane, oltre che per pellegrini, turisti e guide turistiche.

Ma soprattutto i due docufilm nascono dall’esigenza di offrire a chiunque la possibilità di avere “chiari gli occhi e luminosa la mente per veder la meraviglia”. Quella lasciata da due magnifiche eredità: quella classica e quella cristiana. “Con tutta franchezza e senza impedimento”.


Recensione di Sonia Remoli


Ricordate che eravate violini – Meditazione notturna per una voce sola –

TEATRO BELLI, 5 e 6 Aprile 2023

Sa già tutto: sa che si sta approssimando la sua fine; sa che scriveranno su di lui che è stato un poeta, alcuni; un idiota, gli altri. Sa che lo dipingeranno e lo riprodurranno su pietra.

Ma non sapeva quanto potesse essere straziantemente dolce essere un Uomo. E com’è bella la Terra; bella da morire. Per questo trova così difficile separarsi da tutto ciò.

Si tortura chiedendosi perché suo Padre non risponda al grido d’aiuto del Figlio. Ma soprattutto lo ossessiona il dubbio di chi sia lui ora. E se riuscirà, solo con le sue umane forze, ad essere all’altezza della situazione.

Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”

Questo è il Cristo che emerge dalla drammaturgia di sublime bellezza diretta da Francesco D’Alfonso: un Cristo che sente irresistibile l’esigenza di dedicare tutto il tempo che gli resta a meditare, a riflettere su ciò che ora lui è diventato, dopo questa esperienza di travolgente “umanità”.

Il musicista Lorenzo Sabene, il regista e drammaturgo Francesco D’Alfonso e l’attore Giorgio Sales

Perché restare presente a sé stesso, senza lasciarsi andare totalmente alla disperante angoscia dell’attesa, può aiutarlo a prendersi cura di sé stesso. Solo lui può farlo. Solo lui può dedicarsi quell’attenzione unica, speciale, che riuscirà a fargli sostenere il peso della disattenzione altrui.

È la sua, una meditazione notturna di rara bellezza: come può essere bello ciò che è umano, intriso contemporaneamente, cioè, di bene e di male.

Il Figlio fatto Uomo si cerca e “si legge” nelle ore della sua “passione”, quelle notturne – dal crepuscolo all’alba – attraverso le parole laiche di altri Uomini, che di lui parleranno. Poeti e scrittori come J.L. Borges, J. da Todi, K. Gibran, M. Luzi, A. Merini, E.E. Schmitt.

Prende vita così una consapevolezza filiale e umana che risplende di disperazione. Un Gesù che ha paura. Che non sa attendere. Che è divorato dall’ ansia: non ultima quella da prestazione. Che piange.

In una stanza. Senza riuscire a fare a meno di ascoltare musica: quella di J. S. Bach, di F. De Andrè, di J. Dowland, di S. Weiss, di S. Landi, di M. Lauridsen, di A. Piccinini, di M. Ravel e di F. Valdambrini. “Sepolto” sotto infiniti fogli: quelli dei libri che parleranno di lui. Senza smettere di cercarsi in uno specchio: e trovandoci, dentro, anche noi del pubblico.

Ma a lui non basta: avanza fin sulla ribalta per sentirci più vicini. Noi, invece, “la sua presa” vocale, la sentiamo ancor meglio del tatto. Più che se ci toccasse. Ci cattura: ci fa suoi; scaccia qualsiasi altro pensiero dalla nostra mente e dal nostro cuore. Esiste solo lui e ciascuno di noi. E la sua meditazione diventa anche la nostra.

Ha lo sguardo seducentemente duro, subdolo, avvelenato dall’angoscia. Non è il volto dei pittori. Ma si danna chiedendosi se ancora lo ameremo. Se lo invocheremo.

“Com’è forte la paura contro la grazia!”- si ripete.

E poi al Padre: “perché non intervieni ?” .

Abbandonato: “stordito da un assordante silenzio”.

E pensare che questo era il suo “sogno”: diventare “uomo” .

Ma com’è possibile che proprio un sogno l’abbia trascinato verso questa fine? Una fine che gli fa così paura? Com’è possibile essere traditi dalla legge? Com’è possibile essere traditi con un bacio?

La meditazione di Cristo prende avvio in simbiosi con la tonalità armonica minore dell’ammaliante accompagnamento musicale di Lorenzo Sabene, dove l’azione sinergica di liuto, torba e chitarra è insieme balsamo e graffio. Ma poi sale in un crescendo fino alla tonalità armonica maggiore. È un Cristo che s’affanna e ansima. Quasi come una belva. E anche noi del pubblico ci scopriamo a cambiare frequenza di respiro.

Lorenzo Sabene

Un Cristo-Uomo che perde la sua “centratura”, il suo equilibrio: accade al suo corpo ma anche alla parola, alla voce.

Arrivano i soldati: lo catturano, lo processano e lo crocifiggono.

E lì, sulla croce, il Figlio di Dio “sbiancò come un giglio”.

Lo depongono e lo coprono con un bianco sudario. Meravigliosa la coreografia di gesti fisici e vocali alla quale Giorgio Sales dà vita con questo velo bianco: quasi una danza con qualcosa che sembra ma non è. Ma a breve si rivelerà.

Complice di raffinata efficacia drammatica, un disegno luci attento e sapiente che ci accompagna, contrappuntisticamente, fino alla rinascita. Fino alla resurrezione.

Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”

Ma è un attimo. Il sipario si chiude e in noi resta più che la gioia, la voglia disperata di stare ancora con Lui nei momenti della “passione”. Forse perché ora, attraverso questa meditazione laicamente sacra nella quale siamo riusciti a sintonizzarci, abbiamo scoperto il desiderio e la capacità di essere presenti a noi stessi. Di osservare e di osservarci. Anche nel dolore.

Francesco D’Alfonso

Una splendida occasione di bellezza, ci offre questo spettacolo di Francesco D’Alfonso, rievocando la ciclicità visceralmente sacra degli indimenticabili giorni della Passione Cristo.

Due perle, i camei fuori campo di Roberta Azzarone e di Lorenzo Parrotto.

Giorgio Sales ci strazia. Ma non possiamo farne a meno. Riesce ad essere tutto e il contrario di tutto. Suo, è il profumo dell’attore.

Giorgio Sales

” Voi che siete oppressi ed esalti nel male,

ricordate che eravate violini

pronti a suonare le ragioni del mondo ”

(Alda Merini, Cantico dei Vangeli).

La dolce ala della giovinezza

TEATRO QUIRINO, dal 31 Gennaio al 12 Febbraio 2023 –

Il sipario si apre su una scena piena di vuoti.

Vuoti con i quali il regista, scenografo e costumista Pierluigi Pizzi, figura di intellettuale umanista animato da passioni che ruotano intorno alle arti visive, è stato capace di dipingere il silenzio che domina un adattamento apparentemente pieno di parole.

Pierluigi Pizzi, regista dello spettacolo “La dolce ala della giovinezza”

Come Edward Hopper seppe ritrarre la solitudine della società americana della sua epoca, diventando uno dei maggiori realisti americani del XX secolo, così Pizzi in questo adattamento mette in scena soggetti dallo sguardo così perso da sembrare non interagire tra di loro. Gli ambienti e gli sfondi sono sì luoghi reali presi dalla vita di ogni giorno ma vanno “oltre” la loro forma concreta, trasmettendo un senso di solitudine, di malinconia e d’incomunicabilità.

Elena Sofia Ricci accoglie i fragorosi applausi per la sua interpretazione nello spettacolo “La dolce ala della giovinezza”

Architetture geometrizzanti sono immerse in un sofisticato gioco di luci fredde, taglienti, e volutamente ‘artificiali’ ( ligth designer Pietro Sperduti). Hanno colori brillanti ma non trasmettono vivacità; sono reali ma in esse c’è qualcosa di metafisico, alla Giorgio De Chirico. Sono pareti, quelle che ci propone Pizzi, esteta colto e raffinato, piene di finestre di diversa natura. La finestra è l’anima di un edificio, il luogo dello sguardo per eccellenza, capace di rivelare il modo di intendere il mondo.

Edward Hopper, Sole di mattina (1952)

Un focus metafisico: ciò che permette lo sguardo dall’interno verso l’esterno, così come dall’esterno verso l’interno. Tensioni visive separate e allo stesso tempo collegate dalla finestra, attraverso la quale, tuttavia, lo sguardo del personaggio non riesce ad uscire all’esterno, in quanto imprigionato nel proprio mondo interiore. A tal punto che lo spettatore vive la contrastante condizione di colui che è invitato dentro l’intimità della scena, ma poi è respinto fuori dalla chiusura introspettiva del personaggio.

Elena Sofia Ricci in una scena dello spettacolo “La dolce ala della giovinezza”

E sempre più prepotentemente arriva allo spettatore un senso di inquietudine. E di impazienza: tema, questo, particolarmente caro al regista Pizzi che oltre a costituire un aspetto della sua natura “impaziente e nomade”, fu oggetto della sua Lectio magistralis in occasione della Laurea honoris causa in Scienze dello spettacolo, conferitagli nel 2008 dall’Università di Macerata.

 Pierluigi Pizzi alla cerimonia per la sua Laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Macerata

Immerso nel silenzio è l’incipit dello spettacolo, dove a parlare sono i ricordi della diva del cinema Alexandra del Lago, in fuga dalle sue immense insicurezze. Pierluigi Pizzi affida l’interpretazione di questo iconico ruolo della continua ricerca dell’oblio come anestetico al male di vivere, ad una Elena Sofia Ricci piena di grazia nella sua ondivaga inquietudine.

Elena Sofia Ricci (Alexandra Del Lago) nello spettacolo “La dolce ala della giovinezza”

Pizzi la immerge in un tempo che sembra non passare mai; che sembra essersi fermato, congelato in una perenne attesa. Interessante allora il guizzo registico di rendere il passare del tempo attraverso una cadenzata discesa del sipario che, quasi come un orologio, “segna” la coordinata temporale. Un succedersi cronologico delle azioni affatto rassicurante, come sottolineato dalle dolcemente ossessive note musicali composte da Stefano Mainetti.

Stefano Mainetti, compositore e direttore d’orchestra

La dolce ala della giovinezza” di Tennessee Williams, che debuttò a Broadway nel 1959 ma fu conosciuta dal grande pubblico per l’adattamento di Richard Brooks (1962), che aveva, fra gli interpreti Paul Newman e Geraldine Page, narra la storia di Chance Wayne (qui interpretato da un ambiguamente disinvolto Gabriele Anagni ) che torna nella sua città natale in Florida dopo aver fallito il  tentativo di sfondare a Hollywood come attore.

Gabriele Anagni (Chance) e Elena Sofia Ricci (Alexandra Del Lago) in una scena dello spettacolo “La dolce ala della giovinezza”

Diventa allora un gigolò e s’accompagna alla stella (in declino) del cinema Alexandra Del Lago, non più giovanissima e per di più depressa, drogata e alcolizzata. Il ritorno di Chance trova ragione nel desiderio di riconquistare il suo primo vero amore e finalmente sfondare come attore, grazie all’ancora benefico lasciapassare della diva.

Gabriele Anagni e Elena Sofia Ricci

Personaggi, che qui nell’adattamento di Pizzi ( un po’ come nei quadri di Edward Hopper ) risaltano più che per la brutale intensità propria del testo originale, piuttosto per la feroce passività del crogiolarsi nel ricordo delle aspettative deluse, dei sogni disattesi, delle persone lasciate alle spalle. Un ricordo che resta però ancora aperto in un’attesa che prenderà differenti epiloghi.

Gabriele Anagni e Elena Sofia Ricci in una scena dello spettacolo “La dolce ala della giovinezza”

Elena Sofia Ricci e Gabriele Anagni sono affiancati sulla scena dalla complicità di Chiara Degani, Flavio Francucci, Giorgio Sales, Alberto Penna, Valentina Martone, Eros Pascale e Marco Fanizzi.

Il cast dello spettacolo agli applausi

Qui l’intervista ad Elena Sofia Ricci su Repubblica