DAIMON – L’ultimo canto di John Keats

TEATROLOSPAZIO, dal 2 al 5 Febbraio 2023 –

Prendendo posto in sala, lo troviamo seduto sul palco. Di spalle, su un cubo di marmo. Legge un’iscrizione: la “sente”. Non parla, così sembra. Ma le parole più belle sono quelle che naufragano nel silenzio. Si sta lasciando guidare dal suo “daimon”: lui sa cosa è più fertile per “fare anima” . Di Gianni De Feo fin da subito ci arriva la fascinazione della sua “percezione”. La sentiamo.

Gianni De Feo nell’intro allo spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Poi si alza, si volta e dà inizio alla sua seducente narrazione: un ripercorrere a ritroso i momenti del palesarsi, subdolo o manifesto, di un singolare “daimon”. 

In perfetta corrispondenza con il “fare anima ” di James Hillman, De Feo, che oltre ad interpretare l’appassionante testo di Paolo Vanacore ne ha curato anche la regia, dà vita ad un meraviglioso montaggio pluri-disciplinare collegando ed enfatizzando il potere della narrazione a contributi artistici di varia natura: dalla musica alla pittura; dal canto alla danza.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

La musica è quella che si immagina esca da una radio degli anni ’20 e viene scelta per fare “da tappeto” alla narrazione, seguendone simbolicamente i diversi climi. Per la pittura, De Feo sceglie di proiettare delle tele del pittore Roberto Rinaldi: davvero di forte espressività. Il canto e l’accenno a degli eleganti passi di danza arrivano con l’entusiasmo di un’amabilissima sorpresa: De Feo rivela dei colori vocali molto interessanti e dà prova di un’intensissima interpretazione avvalendosi di un accattivante uso delle mani che, in alcuni momenti, ricorda la magia delle “mudra”.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Come nelle poesie di Keats, De Feo riesce ad evocare gli oggetti nelle sue molteplici qualità mediante l’accostamento di diverse sfere sensoriali. In questo modo le immagini risultano così vivide che non solo se ne immagina la fisicità ma si riesce a partecipare della loro vita intima.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Il testo di Paolo Vanacore immagina di ripercorrere il riappropriarsi della vocazione, “dono dei guardiani della nostra nascita”, da parte di un bambino che nasce dall’ondivago fluttuare delle onde di “un hotel di passaggio” di Atlantic City e che lascerà un’indelebile traccia di bellezza sulla Terra.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

È un teatro di narrazione colmo di intima poesia, quello in cui s’immerge Gianni De Feo. Rompendo continuamente i piani, quasi fossero onde da fendere. E ci trascina con lui. Ne “sentiamo” il carisma, ne apprezziamo il ritmo, il “farsi anima” dei gesti. Dei silenzi. Della parola. Non si può non percepire infatti la bellezza con la quale De Feo riesce a riprodurre le figure di suono (specie assonanze e suoni vocalici) che abbondano nei versi di Keats e che donano musicalità e grande freschezza espressiva. Particolare attenzione pone De Feo all’utilizzo delle vocali che, così come amava Keats, sono impiegate alla stregua di note musicali, separando quelle chiuse da quelle aperte. E, così sedotti da tale bellezza, non possiamo non “lasciarci andare”. Naufragando. Paghi del nostro esserci venuti a cercare. 

Recensione dello spettacolo GLI UCCELLI di Dafne Du Maurier -adattamento Roberto Scarpetti – a cura di Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni –

TEATRO INDIA, 3 e 4 Agosto 2022 –

Entrano insieme, attraversando velate nuvole, uniti dal comune intento della narrazione. Sono Uccelli che si appollaiano in diagonale sulla sinistra del palco; Umani che si stanziano nel centro; Suoni che si sintonizzano sulla destra.  

Rievocano “l’inverno del loro scontento”, quando dalla notte del 3 dicembre, tutte le nuvole, sepolte nel petto profondo del mare, iniziarono ad incombere minacciose. Un vento di ghiaccio a salire. Gli intenti a mutare. E gli Uccelli ad essere “sempre più agitati e fruscianti come seta”.

Nell’omonimo racconto di Daphne Du Maurier, a cui lo spettacolo si ispira, non sono stati gli Uomini ad andare a chiedere agli Uccelli di prendere il governo delle loro città, come nella celebre commedia di Aristofane. No. Qui gli Uccelli, animati da una fame senza desiderio, sembrano stregati da un incantesimo. Costretti “con regole assegnate” e “codici di geometrie esistenziali”. Ubriachi di moto: il vento li anima, il vento è il segnale che precede i loro attacchi. Vento che gli interpreti rendono magnificamente nella voce; attraverso un’accurata prossemica ed esteticamente con ventagli neri, di piume.

La scrittrice Daphne Du Maurier

Gli uomini li guardano ma non sanno osservarli: solo Nat Hocken (colui che ripara cancelli e rafforza argini) sa farlo. Solo lui si rende conto che stanno “cambiando le prospettive al mondo”. Ma come Cassandra non viene creduto. Gli Uccelli hanno modo così di invadere le città, come gli Achei di uscire (apparentemente) all’improvviso dal cavallo di Troia.

Li vediamo anche, gli Uccelli: inquietantemente disegnati e proiettati su teli di velatino. Sono bianchi, sono neri, sono piume, sono becchi: “mescolati in strane amicizie, in cerca di una specie di liberazione, mai soddisfatti, mai fermi…come uomini che temendo una morte prematura, per reazione si buttano a capofitto nel lavoro oppure impazziscono”. La strana agitazione degli Uccelli risalta con evidenza anche perché le città sono molto tranquille e apparentemente si sentono ben protette. Appese alla routine quotidiana, alla musica della radio o ai comunicati-oracolo, trasmessi di tanto in tanto. Che questa volta non sono frutto dell’appassionata recitazione di Orson Welles, quando la sera del 30 ottobre del 1938, convinse mezza America che i marziani avevano dichiarato guerra alla Terra, dando vita a “La Guerra dei Mondi” !

Aleggia un’incomprensibilità della natura umana che ricorda “l’immensa complessità e la confusione dell’andare avanti degli uomini” raccontato con disperata malinconia in “Uccellacci e uccellini” da P.P.Pasolini.

Particolarmente accordati gli attori (Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Stefano Scialanga e Camilla Semino Favro): la voce di ognuno, “corpo” più di un corpo. Sofisticatamente efficaci i costumi dei tre “Uccelli” , riempiti da posture e piccoli scatti assai credibili.

Suggestivo il contributo sonoro di rumori e strida di uccelli (l’elettronica è di Alessandro Ferroni) deformati e ritmati come in una partitura e malinconicamente accompagnati dalla chitarra elettrica di straziante bellezza di Fabio Perciballi.

La regia di Lisa Ferlazzo Natoli e l’adattamento di Roberto Scarpetti hanno saputo restituire efficacemente il clima d’attesa, le atmosfere ossessive e il finale inquietantemente risolto nella minaccia di un’attesa ulteriore. Particolarmente persuasiva, inoltre, l’idea di coniugare metaforicamente la narrazione a tinte gotiche con il clima di rilassatezza, da club degli anni ’40.

La scrittrice Daphne Du Maurier

Recensione di Sonia Remoli