Recensione LA PULCE NELL’ORECCHIO – regia Carmelo Rifici

TEATRO VASCELLO

dal 28 Marzo al 6 Aprile 2025


Un’idea alla quale non si riesce a smettere di pensare, essendo stato versato nelle nostre orecchie un sospetto per far sì che diventi un assillante dubbio, è quella che si è soliti definire “una pulce nell’orecchio”. Un’idea così disperatamente insinuante, da risultare simile all’effetto provocabile da una pulce che, una volta entrata nell’orecchio e muovendosi per uscirne, non fa altro che ricordare continuamente la propria fastidiosa presenza. 

Drammaturgicamente l’idea rappresenta un’occasione per costruire uno spassosissimo e super adrenalinico meccanismo tragicomico – e Georges Feydeau (1862-1921) ne era un grande maestro essendo, oltre che attore e drammaturgo, anche orologiaio, ingegnere, appassionato di matematica e del gioco degli scacchi. 

Georges Feydeau

Esistenzialmente rappresenta invece una dinamica relazionale, che sottende shakespearianamente alla conoscenza di una certa inclinazione tutta umana: quella alla sopraffazione. Inclinazione con la quale tutti veniamo, fin da subito, gettati al mondo. Per “sopravvivere”. 

Aprirsi a “vivere” – e quindi ad amare – è un passaggio esistenziale successivo, che richiede un desiderio e un impegno educativo verso l’arte di entrare “in relazione” con l’altro. Cercando sempre nuovi equilibri per non sopraffare e per non restare sopraffatti.

Ecco allora che il sospetto – generato dalla pulce nell’orecchio – rappresenta una postura esistenziale che ci parla del nostro istintivo difenderci dall’essere oggetto di “uno scacco” da parte dell’altro. Qui in questo testo, nello specifico, tutti sospettano di aver subito un tradimento. Perché, sebbene l’occasione nasca dal sospetto e dai relativi fraintendimenti riguardanti una singola coppia (Raimonda e Vittorio Emanuele) chi ne viene a conoscenza ne resta come contagiato “a specchio”, cadendo nella trappola del dubbio di esserne a sua volta oggetto.


“Essere traditi” è un trauma-tabù che ci mette decisamente in allarme. Nasce come un sospetto, che poi può gonfiarsi fino ad assumere connotazioni via via sempre più invadenti. 

Ma “tradire” è un impulso naturale ed istintivo.

Carmelo Rifici

Ed è questa la pulce che intende introdurci nell’orecchio il regista Carmelo Rifici, che insieme a Tindaro Granata ha curato la traduzione, l’adattamento e la drammaturgia di questo spettacolo: indirizzare la nostra attenzione sulla potenza difficilmente controllabile della nostra psiche.

Spettacolosa visualizzazione ne è la volutamente disorientante scenografia, solo apparentemente un tradimento allo stile del vaudeville tutto porte, armadi e letti sfatti alla Georges Feydeau. Qui, infatti, il regista Rifici chiede all’acuto estro di Guido Buganza di realizzare una scena aperta, destrutturata, proprio per poter essere disponibile a rendersi continuamente modulabile. Adattabile alle diverse esigenze che le aree della nostra psiche, come turbolenti condòmini di un hotel, reclamano. Divertentissimo, il sapiente gioco registico attraverso cui queste aree di volta in volta, a seconda delle situazioni emotive, vengono “abitate” dagli interpreti in scena. Una coralità attoriale dalla musicalità matematica assai efficace e trascinante. 

12 attori (alcuni chiamati a un doppio ruolo) donano infatti una vitalità folle a 15 personaggi che convivono in uno spazio franco: regno dell’equivoco, del doppio, di una babele di lingue e di difetti. E che non si capiscono quasi mai fra loro, ma proprio per questo si guardano con curiosità, si cercano, s’inseguono. 

Sono: Giusto CucchiariniAlfonso De VreeseGiulia Heathfield Di RenziUgo FioreTindaro GranataChristian La RosaMarta Malvestiti; Marco Mavaracchio; Francesca OssoAlberto PirazziniEmilia TiburziCarlotta Viscovo.

“Sono il primo a divertirmi quando posso sistemare faccia a faccia due personaggi che non dovrebbero mai incontrarsi. La comicità è la riflessione naturale di un dramma” – ci rivela Carmelo Rifici.

Al centro degli elementi modulari della scenografia, resta l’archetipo dell’armadio che – in una concatenazione di dinamiche surreali, che vanno al di là dei principi della logica (ovvero il principio di identità e di non contraddizione e il principio di causa-effetto) – può essere non solo un armadio ma anche una lavagna, una cabina telefonica e molto altro ancora. Insomma un crogiolo di soluzioni creative, proprie del linguaggio creativamente inconscio della nostra psiche. 

Una creatività fuori dall’ordinario che ci permette di non dimenticare come al di là di ogni ipocrisia sociale ed esistenziale (vedi un presunto controllo egoico sulle altre parti della nostra psiche) noi siamo in verità curiosissimi di provare e gustare tutto. Proprio come avviene nel teatro che va in scena ogni notte nei nostri sogni. Potenzialmente liberi da gabbie logiche e moralistiche.

E dalle pareti separatorie di porte, armadi, o compartimenti di altra natura. Come quella rappresentata dal palato, ad esempio: una parete che se forata non permette l’espressione fonetica delle consonanti. E Tindaro Granata nel ruolo di Camillo ci rende tutta la tenera disperazione di chi si sente un diverso e quindi “uno sconosciuto”: non a caso, qui in Rifici, prende sembianze che alludono a quelle di Charlot. Come lui è infatti un pò l’emblema dell’alienazione umana.

Ma è innegabile, anche, come il suo linguaggio “manchevole” sappia risultare – a chi lo ascolta con curiosa attenzione – comprensibile, seppure al di là delle “pareti” della logica. 

Rifici chiede inoltre ai propri attori di essere così accoglienti da offrire ospitalità alla multiforme natura del linguaggio, rendendone i colori più intraducibili verbalmente attraverso la musicalità seducentemente inquietante di strumenti musicali, in osmotico dialogo con la scena.  

Una scena che con sagacia elegantemente giocosa Guido Buganza immagina e realizza ispirandosi argutamente alla concezione scenica di Adolphe Appia (1862 – 1928), che scardinò il senso della messinscena, generando un’attenzione tutta nuova verso la componente emotiva del linguaggio scenico. Dove il regista non è più l’unico artefice della trasmissione del messaggio del testo letterario: anche la scenografia e la drammaturgia luminosa vi concorrono, andando al di là della precedente funzione esclusivamente realistica. 

Nasce così la nuova architettura del “palcoscenico plastico”, in cui i fondali e le quinte dipinte sono sostituite da praticabili posti su piani diversi e da scivoli che permettono all’attore  movimenti che rivelano plasticamente l’apparenza eternamente fluttuante del mondo fenomenico. Un teatro, il suo, non tanto della “rappresentazione” quanto della “relazione tra attore e spettatore”. Uno spazio sempre meno “edificio” ma sempre più “una questione di valori”: necessario strumento linguistico ed espressivo di un ritmo scenico.

Quel ritmo che, qui in Rifici, è immanente e trascendente il contesto teatrale – ricco com’è di riferimenti extratestuali quali “Tanto rumore per nulla” di Shakespeare, “I giganti della montagna” e “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello e ancora la Maieutica socratica.  E che diviene una denuncia giocosamente perspicace della nostra ipocrisia esistenziale, nonché del nostro impoverimento esperienziale su “ta erotika”: quelle “cose dell’amore”, di cui Socrate parla nel “Simposio” di Platone.

Affinché il nostro vivere soggettivo e civile sia sempre meno ossessionato da pretese di sicurezza protettiva: imparando a stare al mondo senza “bretelle”, insomma. Progressivamente meno sospettosi nell’investire tempo e risorse per “assicurare” l’altro.

Perché l’altro è uno sconosciuto sì, ma uno straniero che ci assomiglia, più di quanto immaginiamo. Decisamente prezioso per conoscere meglio noi stessi.

Perché “la primavera non è mai troppa”.

Ma soprattutto perché “nessuno muore mai veramente”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo PROCESSO GALILEO – di Angela Dematté e Fabrizio Sinisi – regia di Andrea De Rosa e Carmelo Rifici

TEATRO VASCELLO, dal 19 al 27 Gennaio 2024 –

Quanti racconti si possono fare intorno ad un argomento ? C’è davvero qualcosa di certo e sicuro a cui possiamo ancorare i nostri racconti – sospesi nello sforzo di comunicare – e annodarli come corde a un mantegno ?

Quanto bisogno abbiamo noi esseri umani di sentirci al sicuro, confinando idee e nozioni in leggi e costruendoci intorno scienze?

Ruota al centro di questi “massimi sistemi” il “dialogo” proposto dallo spettacolo “Processo Galileo”, interessante esempio di sperimentazione teatrale. E’ infatti la risultante di un lavoro fertilmente sinergico che vede registi Andrea De Rosa e Carmelo Rifici; autori Angela Demattè e Fabrizio Sinisi, dramaturg Simona Gonella; attori di grande esperienza Milvia Marigliano e Luca Lazzareschi; giovani e talentuosi attori Chaterine Bertoni De Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi e Isacco Venturini. E poi raffinati artigiani quali: Daniele Spanò per le scene, Margherita Baldoni per i costumi, Pasquale Mari per le luci e GUP Alcaro per il progetto sonoro.

Uno degli oggetti d’indagine di questo lavoro accende l’attenzione sul nostro modo di reagire di fronte ad un trauma: a quel tipo di evento inaspettato nei confronti del quale ci troviamo senza i mezzi adeguati per affrontarlo. Traumatico sulla Chiesa fu l’effetto della rottura dei cieli aristotelici da parte delle teorie galileiane ma traumatico fu anche l’effetto provocato, sulla giovane divulgatrice scientifica in scena, dal lutto per la perdita della madre. E qualcosa di simile abbiamo vissuto noi tutti in occasione della pandemia da Covid 19.

Nello specifico, idee che andranno a dare forma a questa corale sperimentazione furono alimentate negli autori proprio dal trauma provocato dall’estremo smarrimento in cui ci gettarono i periodi di quarantena.

La stessa scienza medica subì “ una rottura del proprio cielo” ma, diversamente da quello che accadde a Galileo, non le fu ingiunto di uscire di scena. Tutt’altro: si é rimasti in balia delle varie teorie sostenute dai virologi, in attesa di conferma.

In che cosa consiste allora davvero “un processo” – ovvero un progredire – per noi esseri umani ? Raggiungere nuove scoperte basterà a farci sentire al sicuro ? E se sì, per quanto tempo ?

Quanto incide, nell’ontologia del concetto di scienza, il desiderio – sano e ingannevole – dell’uomo ad avanzare faustianamente nel sapere? Si possono arginare le derive narcisistiche del desiderio di sapere ?

A questo riguardo lo spettacolo mette in scena un acuto dialogo tra la tensione quasi ossessiva ad avanzare nel sapere e la più consapevole tensione contadina ad inserirsi all’interno dei ritmi e dei traumi (ad es.metereogici) della terra.

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Devi sapere che il verme

non dice niente alla terra su cui striscia

e la nuvola ignora

di essere la madre della pioggia.

Dovremmo congedarci subito

dalle nostre futili arroganze.

Siamo tutti povere ignoranze.

(da Canti della gratitudine, Franco Arminio)

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Ma allora, desiderare ci rende liberi o ci spinge verso un “cattivo infinito” ? Un infinito cioè molto vicino al subdolo desiderare proprio dell’ imperativo capitalista al “sempre nuovo”, che in verità – lungi dall’essere libero – è manipolato da un dictat egemonico? 

Tra conservatorismo e scientismo il dialogo può essere integrato con il recupero della sacralità del sapere ancestrale legato alla terra.

La componente razionale non è la sola a costituirci: anche quella irrazionale va ascoltata e nutrita. È la disperata consapevolezza a cui giunge la divulgatrice scientifica in scena, che di fronte al trauma della morte della propria madre si scopre indifesa. Tradita e abbandonata dai suoi riferimenti iper razionalistici.

La scena si offre nella forma di un’enigmatica istallazione razionalistico-visionaria che lascia lo spettatore libero di immaginare più habitat: ad esempio una porzione del globo terrestre in cui le terre emerse si avvicendano alle acque. Oppure lo stare al mondo in uno spazio iper controllato, iper confinato e saldamente ancorato ad un perimetro di mantegni. O ancora una sorta di serra di orti dove si coltivano prodotti agricoli grazie alla complicità dell’ illuminazione artificiale e della bellezza matematica della musica di J. S. Bach. Uno spazio che pare abbia rinunciato alla fertile magia del mistero.

Resta la poesia di una candela dal sapore macbettiano, a memento mori.

Intriganti le scelte prossemiche che regalano magnifici effetti cinematografici ed iconografici. Complici le scelte di Margherita Baldoni, relative ai costumi: efficacissimi anche cromaticamente.

Potentissima l’interpretazione di Galileo Galilei fatta propria da Luca Lazzareschi : il corpo della sua voce si declina tra la veemente inquietudine dello scienziato e la tenue vocazione al rispetto della legge propria di un padre. 

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali

Tremendamente passionale, austera e solenne ma anche provocatoriamente comica Milva Marigliano nella sua doppia partitura di personificazione del Sant’Uffizio e di madre di Angela.

Dalla grazia tenace di madonna quattrocentesca, l’interpretazione di Roberta Ricciardi in qualità di figlia di Galileo. 

Intimamente raffinata e spudoratamente sensibile il personaggio di Angela, la divulgatrice scientifica interpretato da Chaterine Bertoni De Laet.

Interessanti ed efficaci anche gli interpreti Giovanni Drago, allievo di Galileo e Alberto Venturini , Alberto il figlio di Angela.

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali

Un intreccio di trame narrative, fluttuanti tra storia e visionarietá, coinvolgono il microcosmo di ciascuno spettatore. E’ un invito a non dimenticare. Ma soprattutto a non smettere mai di avere uno sguardo critico su ciò che ci accade.

Ad avere cioè un nostro racconto da legare e da mettere a cimento con quello di altri. Anche perchè se qualcosa ci è rimasto dentro del periodo della pandemia è che nessuno di noi si salva da solo.

E questa polifonica rappresentazione ne è uno splendido esempio.

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali