Recensione di METADIETRO – Rezza Mastrella

con Antonio Rezza

e con Daniele Cavaioli

La vita è un viaggio tempestoso e pieno di avventure, dove la nostra libertà ha modo di esprimersi e saggiarsi. 

Ma la nostra libertà – come sottolineano con dissacrante comicità Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Leoni d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia 2018 – sembra prediligere, soprattutto in questo frangente storico, le rassicuranti limitazioni tracciate dalle boe della volontà di un altro.

Anziché, quindi, rimanere solleticati dalla possibilità di affrontare continue sfide personali, preferiamo consegnare la nostra libertà nelle mani di chi, in cambio del nostro “stargli dietro”, crediamo possa offrirci una sensazione di durevole sicurezza.

Antonio Rezza – Daniele Cavaioli

Concetto efficacemente visualizzato, in questa nuova creazione del duo artistico RezzaMastrella, nel passaggio narrativo dall’epopea paradossale di un viaggio per mare – dove i componenti della ciurma sanno ancora reagire (anche se solo individualmente) al fare manipolatorio dell’Ammiraglio, decidendo quando distanziarsene – al visionario viaggio spaziale, dove un Capitano perde anche quest’ultimo residuo di egoica capacità critica, spalmando la propria volontà “dietro” quella dell’Ammiraglio.  

Una tendenza del nostro stare al modo dove, più o meno consapevolmente, ci deprediamo della preziosa occasione di avvalerci del “diritto” a manifestare un dissenso: un rifiuto ad obbedire a certi ordini dettati da un altro.

Una creazione questa di “Metadietro” il cui valore si fonda sulla capacità di andare oltre l’oggetto fisico per rappresentare idee ed emozioni, che il linguaggio logico non può esprimere.

E così, attingendo a simboli universali – quali quello del viaggio – trasforma l’atto creativo in un ponte tra il mondo sensibile e quello astratto, dando forma originale ad una ricerca di senso.

Parlano di questo anche le scelte cromatiche, le forme e i materiali selezionati da Flavia Mastrella per questo suo nuovo habitat, frutto ogni volta di un accurato studio sul diverso darsi “deformato” della comunicazione sociale.

Efficacemente pungente l’idea di legare l’habitus, ovvero le modalità manipolatorie, del personaggio dell’Ammiraglio al colore blu: un colore un tempo considerato dei degenerati e dei barbari ma che poi ha conquistato tutti.

Un Ammiraglio siffatto (che in scena è un Antonio Rezza che “è. E non ha mai smesso”) saccheggia infatti l’esperienza del viaggio dei suoi aspetti caratteristici, che ne fanno una preziosa occasione di trasformazione, di crescita interiore, di scoperta di sé e di superamento dei propri limiti. 

Incluso l’ammutinamento: come si legge nelle note di regia, in un viaggio esistenziale “l’ammutinamento è sempre auspicabile in un organismo sano”. Perché l’ammutinamento rappresenta un po’ le nostre difese immunitarie, che si attivano quando qualcosa dall’esterno mette in pericolo un equilibrio interiore. Difese che sono metafora della protezione del Sé e quindi del mantenimento di quellintegrità e di quell’equilibrio, che rendono organismo capace di affrontare le sfide che la vita presenta.

Antonio Rezza sceglie allora – com’è nella sua cifra estetica – di lavorare in questa sua creazione con Flavia Mastrella intorno al concetto di “gioco”: un gioco che parla di un dramma intriso di divertimento, capace di indurre lo spettatore a smarrirsi.

Così da veder cadere le maschere all’interno e all’esterno di sè stesso. Così da essere solleticato da stimoli capaci di attivare nuove modalità di viaggio, che sanno incontrarsi anche con fertili derive.

Un gioco quello portato in scena dal duo RezzaMastrella che sa erompere sulla scena come una felice invasione barbarica, capace di generare continui corto-circuiti su modi di fare intrisi di pregiudizi. Alla scoperta di spiegazioni sempre nuove e mai rigidamente compiute.

Che arrivano allo spettatore sotto forma di frammenti. Così come frammentaria è la precarietà della verità, così come frammentaria è la percezione del sè e del mondo.

Frammenti che provocano nello spettatore non un senso di rinuncia o di rassegnazione, ma uno stimolo all’esplorazione e alla ricostruzione di un proprio senso personale.

Antonio Rezza – Flavia Mastrella

Perché RezzaMastrella sono generatori di clamore, di risveglio comicamente drammatico, di coralità.

Perché i loro spettacoli sconfinano, si s-proteggono dalle sovrastrutture, cercando e ottenendo un contatto epidermico con “i corpi” degli spettatori, tale da improvvisare anche su di loro un’acuta regia.

Flavia Mastrella – Antonio Rezza

“Con che speranza cerco il dialogo, se è più facile cambiare canocchiale che idea?” – si chiede sul finale l’Ammiraglio. Se i legami sono divenuti guinzagli, se si finisce col preferire al contatto dei corpi la modalità di sfioramento di apparecchiature?

Quale esperienza di libertà racconteremo dopo?

Quella del nostro essere “stati dietro” a qualcun altro?

Daniele Cavaioli – Flavia Mastrella – Antonio Rezza


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ANELANTE – di Flavia Mastrella e Antonio Rezza – con Antonio Rezza –

TEATRO VASCELLO, dal 14 al 19 Gennaio 2025 –

—-

Che cosa ci rende “anelanti” ?

Parlare.

Commentare.

Improvvisarci opinionisti.

Anelando divenire, magari, rispettabili influencer: massima realizzazione per essere considerato un personaggio di successo. E quindi in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico. 

Perché anche a questo aneliamo: essere guidati nelle nostre scelte.

Tanto che non riusciamo neanche più a tenere spento il cellulare a teatro, come se i nostri commenti o quelli dei nostri influencer non si potessero permettere di chetarsi per la durata di uno spettacolo.

Ecco allora che Antonio Rezza, consapevole di questa improrogabile urgenza, persuaso di un qualcosa che non può essere silenziato o messo a tacere, apre lo spettacolo proprio con l’entrata in scena dello squillio di una suoneria. 

Che lascia “parlare” come motivo di apertura: quale furor dionisiaco per una composizione erotica, ovvero come base musicale da cavalcare e sulla quale comporre il testo dello spettacolo. 

Scritto con i piedi, ovvero immaginificamente digitato attraverso una danza, eseguita in un habitat di scrittura creativa, generato dalla fulgente fantasia di Flavia Mastrella. Un habitat principale dove tutto è lineare, geometrico: dove tutto è bianco oppure nero, dove sei “in” o sei “out”: senza spazio alcuno alla diversificazione, propria di uno spettro di sfumature tridimensionali.

Diversificazione che trova accoglienza, apparentemente, in un habitat secondario, di sfondo, senza spessore: un ambiente “jungle”, elogio dell’irregolarità e dell’apertura alla trasformazione, attualmente in crisi d’identità.

Habitat visualizzazione del nostro egocentrismo attivo o passivo: da influencer o da follower, a seconda della posizione che ci si piega ad assumere. Perché questo nostro inarginabile bisogno di dire (o di riferire) la “nostra” opinione su tutto, senza un’autentica conoscenza e senza ascoltare davvero l’altro con personale spirito critico, è la pulsione più potente che attualmente ci abita. 

Ed è così che lunghe catene dimostrative – alle quali con verace surrealismo Antonio Rezza dà forma – e principi lontani dal senso comune vengono preferiti all’esprit de finesse, che si fonda sul sentimento e sull’intuizione. Predisposizioni quest’ultime che avvicinano, muovendoci a compassione l’uno verso l’altro. E non indifferenti come “due rette che si incontrano solo all’infinito”, oppure come seguaci disposti ad offrire l’una e l’altra “guancia”, in cambio di riflessioni paranoiche narcisisticamente auto-referenziate.

Se siamo disposti a dar via la libera espressione dei nostri desideri, in cambio di qualcuno che si assuma la responsabilità della loro gestione, poco importa -insiste Rezza – che Dio esista o meno.

Siamo comunque orfani di padre, in una società dove il senso della legge – del quale il padre si faceva testimone – è “evaporato”. Così, da un lato ci fanno credere che possiamo desiderare (anelare) tutto ma in verità finiamo per lasciare che a decidere sui nostri desideri siano altri. Perchè scambiamo il godere con il desiderare, postura esistenziale quest’ultima che sola rende ricca la nostra vita. Non di follower ma dell’espressione del nostro talento personale.

In scena un penetrante e fantasmagorico Antonio Rezza si avvale della complicità di multiformi interpreti quali Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara A. Perrini, Enzo Di Norscia.

Particolarmente efficaci gli habitat a cui  ha dato origine lo slancio creativo di Flavia Mastrella,  sui quali sono carismaticamente declinati i costumi degli interpreti in scena, a seconda del loro habitat di appartenenza.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo BAHAMUTH di Flavia Mastrella e Antonio Rezza – con Antonio Rezza –

TEATRO VASCELLO, da 7 al 12 Gennaio 2025

Secondo una leggenda cosmologica araba il Bahamuth sarebbe uno dei sostegni del mondo. Nello specifico è un pesce colossale che regge sulla propria schiena un gigantesco toro che, a sua volta, sostiene un’enorme pietra di rubino, la quale fa da pedana per un angelo di dimensioni tali da reggere sulle proprie spalle il mondo. Il Bahamuth è immerso in un lago che non ha nessun supporto se non oscurità, e non è noto cosa ci sia al di sotto dell’oscurità.

Cosa può essere oggi quel qualcosa che sostiene il mondo?

Può essere la nostra relazione con l’Arte, nelle sue varie forme.

E quindi anche il Teatro di Rezza e Mastrella.

Flavia Mastrella, Antonio Rezza

Relazione-sostegno, specchio per creative esplorazioni: capace di stimolare continui nuovi equilibri, necessari a farci carico del peso esistenziale. Senza, senza una relazione-sostegno tra Uomo e Arte, sprofonderemmo nel buio.

Assaggi di questa teoria, ieri sera l’acuto estro del duo Mastrella-Rezza ci ha ripetutamente proposto: in vari momenti dello spettacolo, infatti, siamo stati lasciati senza il Bahamuth (senza il sostegno della nostra relazione con l’Arte). Sprofondati nel buio, nel silenzio, nell’attesa, nell’ignoto. 

E ci siamo affannati: un continuo tossire, quasi a chiederci mutuo soccorso; un irrefrenabile istinto a ridere, per vincere l’imbarazzo e migliorare il tono dell’umore, già preda dell’ansia.

Lasciati soli nell’oscurità e nell’ignoto tendiamo infatti a perderci, a scivolare giù: a non trovare un orientamento, un efficace sostegno per riemergere. Stabilendo connessioni con l’Arte invece riusciamo a fare del buio un nutrimento e quindi l’origine di una spinta verso un nuovo inizio. 

Ecco allora che lo spettacolo “Bahamuth” di Antonio Rezza – liberamente associato al “Manuale di zoologia fantastica” di J.L. Borges e M. Guerrero – è “partorito” ed ospitato da un habitat, immaginato demiurgicamente da  Flavia Mastrella, riflettente un’umanità sganciata, disconnessa dalla relazione con l’Arte. Un’umanità che, avendo abdicato al mantenere in vita questo nesso per lasciarsi sedurre da spinte narcisistiche, rivela tratti (e analogie) di fantastica bestialità.

Lo stesso Borges sosteneva che “I mostri nascono per combinazione di elementi di esseri reali, e le possibilità dell’arte combinatoria sono quasi infinite”.

Come il manuale borgesiano, “Bahamuth” di Rezza-Mastrella è ambientato in una sorta di giardino, la cui fauna è composta da variazioni di umanità, combinata con caratteristiche animali

Come nel centauro si coniugano cavallo e uomo, nel minotauro toro e uomo, l’infinita possibilità combinatoria fa sì che dal sagace estro di Rezza prendano vita personalità ibride come, ad esempio, l’uomo-gallo-cane, che sceglie di vivere simulando una paralisi, per il gusto di vedersi servito ad ogni squillo di campanella e ad ogni voglia capricciosa.

Di fantastica bellezza è l’occasione di essere resi partecipi al prendere vita in Rezza di questa creatura, attraverso una continua metamorfosi del suo respiro. Che progressivamente diviene una mistura di suoni arcaici, i quali solo alla fine si costringono ad entrare nei principi della logica, divenendo una forma di comunicazione comprensibile al nostro codice linguistico.

Da questo crogiolo di combinazioni alchemiche, prende vita in Rezza anche il personaggio del nanetto, e ancora il signor Porfirio e la sua signora, la donna in-cinta, l’uomo a cucù: tutti gravitanti intorno a quell’habitat delle meraviglie edificato da Flavia Mastrella. Così irreale, eppure così disponibile ad essere descritto come fosse reale.

Uno spettacolo geniale, fruibile a vari livelli, portatore di un messaggio che oggi, più che mai, abbiamo bisogno di non dimenticare. Un inno alla vita e al suo habitat, dove nessuno si fa da solo, né si salva da solo.

E’ rimanendo nel vibrante flusso relazionale con l’Arte che riusciamo a fare del “nostro peggio” (dei nostri aridi individualismi) occasione di vita creativa, fertile, produttiva, gratificante. Umana: perché animata dal gusto e dal desiderio di conoscere e quindi di imparare. Insieme. Continuamente.

Non a caso (forse) Antonio Rezza dichiara di non aver (mai) scritto questo ed altri suoi spettacoli. Perché nulla vive davvero, se viene fermato, chiuso. 

Manolo Muoio, Antonio Rezza, Neilson Bispo Dos Santos


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di IO – con Antonio Rezza – spettacolo a più quadri di Antonio Rezza e Flavia Mastrella –

TEATRO SAN RAFFAELE , 24 Ottobre 2024

Veniamo gettati al mondo come note su di un pentagramma.

Senza sceglierlo. 

E poi finiamo spesso per preferire al concertarci, il far emergere la nostra singolarità.

Il risultato dell’habitat immaginato dall’estro poeticamente surreale di Flavia Mastrella è un pentagramma di note-monadi, dove ogni “nota” di tessuto è una scena, che il genio poliedrico di Antonio Rezza abita – e in qualche modo indossa come un “habitus” (un modo di essere) – penetrandovi dentro da feritoie, tagli, buchi. Vuoti relazionali ai quali si riesce ad accedere, nonostante il predominare dell’istinto alla sopraffazione.

Antonio Rezza

Con seducente ferocia verbale, parossismo gestuale e fantastico lavoro mimico, Rezza dà vita a situazioni di quotidiana perversità – figlia della tracotanza di tanti “io” – che oscillano dalle pretese genitoriali sui figli, all’incuria di certi ambiti medici; dall’egoismo galoppante, alla nichilistica mancanza di autostima; dalla manipolazione attiva a quella passiva; dalla totale sottomissione, all’autoerotismo.

Antonio Rezza

Perché intorno al nostro ”io” edifichiamo la principale certezza sulla quale ci affanniamo a dare forma alla nostra vita. Ma che, proprio in quanto certezza, rende impossibile qualsiasi forma di fertile accoglienza esterna e quindi di crescita personale e sociale.

Perché si cresce solo quando permettiamo a qualcosa o a qualcuno di mettere in crisi le nostre certezze: avere la certezza di “pensare di essere quello che si è” equivale ad una forma di ignoranza.

Per esserci conoscenza, deve esserci “dubbio”: solo così arriviamo a conoscere qualcosa in più, e di diverso, su noi stessi.

Flavia Mastrella e Antonio Rezza

Ad Antonio Rezza e a Flavia Mastrella però concediamo la possibilità di mettere in scena il teatro del nostro inconscio. Che non conosce né etica, né principi della logica: è un linguaggio enigmaticamente onirico e sapientemente surreale che Rezza sa tradurci nella sua barbara misericordia, che così tanto ci diverte. Chiave efficace per coinvolgerci e quindi farci raggiungere da certi contenuti altrimenti repellenti. 

Antonio Rezza

Ieri sera la sala del Teatro San Raffaele era stracolma di spettatori così eccitati nell’attesa di poter entrare in relazione con il loro Rezza, che prima ancora che varcasse la scena hanno dato avvio ad un preludio interattivo alla performance. Una sorta di minuetto di applausi e relative entrate-uscite di scena di Rezza, che giocava sull’interpretare l’applauso come coronamento della conclusione dello spettacolo. E non suo possibile inizio.

Antonio Rezza

Per tutta la durata della performance, la relazione con il pubblico è stata una continua ed intensissima partitura di trovate imprevedibili, di stupefacenti sorprese e acute provocazioni – in primis quella a non fidarsi di chi ama assecondarci – sulle quali si è sovrapposto un contrappunto di risate e di applausi. Interminabili.

Flavia Mastrella e Antonio Rezza


Performazione Sociale 2024

Spettacoli e Laboratori per avvicinare il pubblico alla arti performative


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SPORES PROJECT, Trasformazioni artistiche tra poesia, scienza e nuove tecnologie – spettacolo itinerante di un collettivo di artisti di grande spessore –

LA PELANDA, Ex Mattatoio di Testaccio – 8 e 9 Ottobre 2024

L’8 e il 9 Ottobre u.s. anche Roma è stata contagiata da spore di creatività che si sono liberate nell’aria: l’epicentro si è verificato in prossimità degli spazi della Pelanda, presso l’Ex Matttatoio di Testaccio ma poi il raggio di diffusione è stato tale da non essere quantificabile. Certo invece è che, per loro natura, le spore di creatività sono capaci di sopravvivere alle più avverse condizioni ambientali. E riprodursi.

Il Romaeuropa Festival ha ospitato infatti l’ultima tappa di Spores Project: trasformazioni artistiche tra poesia, scienza e nuove tecnologie.

Progetto vincitore di “Europa Creativa 2022”  focalizzato sull’intersezione tra sperimentazione intermediale, arti performative, sostenibilità e innovazione audiovisiva.

Uno spettacolo itinerante composto da un collettivo di artisti di grande spessore come Federica Altieri, Flavia Mastrella, Antonio Rezza, Maria Letizia Gorga, ACRE+Michael Thieke, Eugenio Barba, Julia Varley, Valerio Magrelli, Paola Favoino, Ashai Lombardo Arop, Giovanna Zanchetta, Claudio Ammendola, Valerio Peroni e Alice Occhiali, i quali hanno performato insieme a giovani promesse come: Giuliano Logos, Gabriele Ratano, Riccardo Gadenzi, Cora Gasparotti, LOTTA, Sharxx, Gioia Perpetua, Sacha Piersanti, Daniele Torracca Oriana Cardaci, Valentina Pacifici, Carlo Ronzon i, Yurii Khadzhymiti, insieme ai ragazzi dei corsi di formazione “Spores” e insieme agli allievi della Palestra delle Emozioni (313).

A tutti gli artisti appartenenti ai diversi ambiti dell’arte performativa è stata chiesta una rielaborazione del concetto di Creatività.

La Pelanda dell’ex Mattatoio di Testaccio

Ecco allora che in questa due giorni di fertili contagi il viaggio dello spettatore nel “Paese della Creatività” ha avuto inizio con un’immersione sonora e il suo possibile riflesso visivo.  Un po’ come se il ritmo e le sonorità sprigionate venissero creativamente visualizzate – oltre che sulle pareti del locale – anche sulla tela di possibili muri osmotici, in dialogo con i muri reali. E poi ci sono i corpi degli spettatori: anche loro superfici carnali coinvolte nel gioco del riverbero e della proiezione. Una splendida sinergia tra il suonare uno strumento e insieme l’essere uno strumento che si lascia suonare. Tra il possedere e l’essere posseduti. Tema comune – e diversamente declinato – di tutte gli incontri di contagio creativo della serata.

Lungo le vie di questo caleidoscopico Paese può capitare di incontrare chi in intimo dialogo con la luna intonasse un melanconico canto, seduto sul davanzale della propria finestra di casa e chi invece scegliesse di riportare in casa una protesta che prima aveva fatto girare lungo le vie del paese. 

Si respira ovunque la bellezza di restare sospesi, di non avere necessariamente i piedi per terra: ed è inebriante tanto quanto angosciante. Perché la libertà creativa può spaventare, anche. 

E’ il paese dell’interrogarsi: ovunque ci si chiede – tra il sedurre e l’essere sedotti; tra il sopraffare e l’essere sopraffatti – cosa valga la pena proteggere. O cosa fare del dono della parola, in un orizzonte “senza un cristo da inchiodare per dispetto”.

Soffiano per le vie venti di tragiche profezie; soffia ovunque la Poesia qui nel paese della creatività dove tutto trova accoglienza. Anche la violenza, in tutte le sue forme energetiche. Perché forte è la tentazione a brillare fino ad esplodere: a sapersi fino in fondo. Qualcosa che ci tenta irresistibilmente ma che poi, se raggiunto, non riusciamo a tollerare. 

Ci siamo seduti in una delle piazze ad anfiteatro di questo Paese, rapiti e contagiati da un desiderio di volare, di spingerci più in alto possibile, e poi di vedere. Tutto. 

E’ energia, è respiro, è voce: è ossigeno per le cellule della creatività. 

Un desiderio di lasciarsi andare ad habitat onirici di stupefacente bellezza surreale, dove risiede la polivalenza, la polimorficità, l’ambiguità, l’incertezza. 

Un desiderio di zummare  lo sguardo fino ad avvicinarci così tanto, da esserne risucchiati; un desiderio di allargare l’orizzonte visivo, fino a perderci  in esso. Un desiderio di tutto, dove è bandito ogni “senza”. Un desiderio di “fino in fondo”. Fino a sbagliare.

E ci si chiede: “di chi è la colpa?”.

E diventa una domanda ossessiva, che si fa eco. Un’eco che fa trapelare anche una possibile risposta: “bastava ascoltare”.

Basta pensare che non è tutto nostro.

Basta pensare che il piacere più grande è quello di condividere e non quello di possedere. E che “parlare” è anche una responsabilità.

Camminando ancora, abbiamo incontrato donne che parlavano danzando; vestite di abiti e di veli, come pareti scelte per proiettare e continuare a portare con sé il proprio passato. Per poi avanzare, crescere e spogliarsene, lasciando che la proiezione del passato diventasse consapevolezza. 

Il Paese della creatività è sulla costa, bagnato dal mare. E così ci siamo fermati sulla spiaggia, attirati dall’inquietudine dell’habitat marino. E da una nave in difficoltà. Nella tempesta, luogo fisico e della mente, è tutto un chiedere e un chiedersi. L’ammiraglio diventa come l’amministratore di un condominio psichico: l’oracolo da cui tutti vanno in pellegrinaggio a chiedere cosa fare. E lui, con feroce sagacia, gestisce il panico della meraviglia del reale. Ascoltarlo ci fa sorridere, anche. Ci piace il suo piglio feroce e disincantato. L’incanto del suo disincanto. E’ una dissacrante forma di sublime creatività: quella propria di Antonio Rezza.

Lasciata la spiaggia ci avviciniamo ad una zona ricca in ritmo, sonorità, concitazione, eccitazione. Una zona di un’affascinante arcaicità, potentemente contagiosa. Come quella propria del legame viscerale di una madre con il proprio figlio, oppure quella che si libera in noi partorendo nuove rappresentazioni di noi stessi. Sonorità, ritmi, richiami che danno vita a un indomito linguaggio del corpo. E non solo. Sono corpi che sanno sprigionare luci, scritture luminose, disegni. Confini come riflessi specchianti. Ed è magia. 

Voltandoci ci accorgiamo poi di un giovane che si sta prendendo cura del suo spazio vitale: lo sta liberando da scorie, rifiuti. Sono anche pensieri, i suoi, che si ripuliscono dall’egoismo, dal delirio di onnipotenza di credere di essere come un dio. Pensieri che ora, depurati, riescono a nutrirsi di vicinanza epidermica, di anse che ammorbidiscono ansie. Così l’attenzione creativa può indirizzandosi verso la ricerca di possibili soluzioni, anziché restare incastrata nell’ossessivo biasimo delle colpe, dove l’esistere entra in sterile conflitto con il vivere. Perché “la noncuranza ci uccide ma senza umanità il mondo comunque vive”.

Dietro di lui si fa spazio una giovane donna che fa coppia con il suo contrabbasso; la sua durezza sembra sposarsi con quella delle corde del suo partner musicale. Come un’amazzone indossa una faretra dove custodisce il suo archetto, quasi fosse un’arma. Ma questa non è musica: è qualcosa che si è allontanato dall’accoglienza generosa della creatività: dal suo bel caos, da cui “può nascere una stella danzante”. Ecco allora però che la giovane donna in crisi creativa ed esistenziale sa interrogarsi chiedendosi se ha ancora senso il suo voler fare musica. Se è disposta anche a essere musica e a lasciarsi suonare. Sì, perché la musica è un linguaggio di trasformazioni. Perché il mondo si può cambiare senza mostrare necessariamente l’arma della durezza ma facendosi musa di un’arte.

Con il ritorno circolare di questa splendida metafora sulla corrispondenza tra il possedere e l’essere posseduti l’esplorazione del Paese della Creatività ha raggiunto una momentanea conclusione. I saluti della coordinatrice anarchica Federica Altieri e della demiurga di habitat fantastici Flavia Mastrella sono stati un arrivederci, contaminato da quel senso di vuoto che contraddistingue ogni separazione. Vuoto che ci permette di continuare a desiderare, a voler ancora esplorare, contaminare, essere contaminati. Creativamente: come spore e da spore.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo HYBRIS di Flavia Mastrella e Antonio Rezza

TEATRO VASCELLO, dal 3 al 14 Gennaio 2024 –

“Dio è morto”:  l’idea di Dio non è più fonte di alcun codice morale o teleologico. Così, rotto il principale cardine della cristianità, scomparso l’ordine divino che sorreggeva la società cristiana, tutto cade nel caos nichilistico.

Da qui sembra prendere avvio la feroce genialità dello spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella: l’ hybris – l’orgogliosa superbia che porta l’uomo a ribellarsi contro l’ordine costituito sia divino che umano –  fa sì che protagonista dello spettacolo sia un tracotante che si crede Dio e che come lui simuli di morire e di risorgere. Ma si tratta, ordinariamente, di un passaggio dal sonno al risveglio.

L’habitat in cui è immersa questa specie umana è solipsisticamente tecnologico. A presidio del “letto-sepolcro”  del tracotante ci sono sua madre (un’affascinante e subdola Maria Grazia Sughi) seduta su una poltroncina da ufficio con ruote, un uomo, una donna e un simulatore ginnico di passeggiata immobile.

Anche i codici di comunicazione si sono moltiplicati: i principi della logica sono saltati (il letto può essere un sepolcro ma anche una porta) e con essi l’illusione di intendersi. Per sopravvivere vige, in purezza, l’istinto alla sopraffazione e l’abolizione dei tabù del vivere civile.

Scardinata da tutto il resto, il tracotante esibisce come uno scettro – e contemporaneamente vi si aggrappa come ad un’ancora – la porta divelta. La sua è una continua ricerca ossessivo-compulsiva di essere protagonista per dominare il vuoto esistenziale. E gli altri: stranieri da manipolare (in scena come un autentico ensemble Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Petrini, Enzo di Norcia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli e con la partecipazione straordinaria di Maria Teresa Sughi). La sua porta diventa allora anche un’arma per tagliare fuori ciò che ci risulta straniero.

Perché la libertà è inebriante quanto angosciante.  E gli uomini, staccati da qualcuno che a posto loro fa ordine, come se la cavano a gestisce il vuoto errante offerto dalla libertà? Che “gioco sacro” occorrerà inventarsi ora ?  Come si fa a capire ciò che è dentro e ciò che è fuori? Un confine può ancora essere anche un punto d’incontro? Meglio l’amicizia o la manipolazione ? Quanto è facile scivolare nell’ipocrisia? Come si fa a “gustarsi” l’attesa dell’ignoto senza incorrere nella violenza, che brutalmente ti fa capire però se sei “dentro o fuori”? Perché “è la curiosità che ti buggera”. 

E la famiglia? È davvero un nido accogliente e rassicurante?  O il luogo delle ombre? E l’amore? Si divora compulsivamente senza dare valore all’identità. Anzi protegge ed eccita rimuovere per far sì che, perversamente, con la stessa persona “ogni volta sia come la prima volta”. Finendo per confondere la realtà e le proiezioni mentali.

Con energizzante ferocia Antonio Rezza ci scuote e ci percuote. Veste e si spoglia di tutte le nostre ipocrisie. E noi del pubblico ridiamo: velenosi e avvelenati. Sul confine tra il compiacimento e l’imbarazzo. 

Rezza sa, con acume, trovare e cogliere – senza subordinarsi ad un precedente testo scritto ma lasciandosi di volta in volta scrivere dai vuoti dell’habitat e dalla sinergia, inclusi i suoi ammanchi, con gli attori e con il pubblico – i tempi e le temperature giuste per scatenare il riso. Le sue sono feroci iperboli, acrobazie logiche, linguistiche e performative che arrivano a scavalcare il senso anche dei gesti e delle prospettive associate. Fino a sfondare tutto. Anche il confine con il pubblico. Ed è contagio. Anche tattile.

È un far teatro civile involontario, per frammenti dissacranti e dissacratori. Necessario.


Recensione di Sonia Remoli