Recensione di LENNY Ipotesi di un omicidio – regia Antonello Avallone

TEATRO NINO MANFREDI DI OSTIA

dal 13 al 23 Novembre 2025

Uno spettacolo brillante e conturbante, che onora il potere della parola e di chi sceglie con coraggio di farsene interprete e testimone.

Ne parla fin dall’apertura del sipario la scenografia di Alessandro Chiti realizzata dalla scenotecnica Mario Amodio: la gigantografia del nome LENNY  che, dietro la fulgente patinatura, cela una vita piena di vitali fragilità. Perché, nonostante tutto, quella di Lenny Bruce – all’anagrafe Leonard Alfred Schneider, ebreo americano di famiglia yiddish – fu una vita sempre fedele all’idea che, attraverso un libero uso della parola, si possa difendere un ideale di giustizia e di uguaglianza di diritti tra diverse etnie.

Perché la parola di Lenny Bruce arde dal desiderio di restituire dignità all’umanità dell’uomo: quella che, ad esempio, ha visto negata quando ancora bambino ha vissuto indirettamente il trauma della discriminazione razziale.

Ecco allora che, così come la parola di Lenny si dà libera, anche il suo nome si carica scenograficamente di tutta la vitalità cromatica di cui si sa far portavoce (il disegno luci è di Manuel Molinu). Cromaticità che si staglia su un fondo nero che ne accresce la visibilità.

E se le prime lettere del nome LENNY rivelano le intimità dei camerini e le ultime quelle del bar del locale notturno dove si esibisce Lenny, l’estro di Chiti fa sì che la prima “N” del nome LENNY resti un meraviglioso mistero. 

Non solo è l’unica di cui non ci si dà di vedere cosa celi dietro – splendida metafora del mistero che avvolge la sua morte – ma contiene orgogliosamente un’anomalia che, nella sua diversità, rende metaforicamente onore al coraggio di “essere diversi”. 

Il locale notturno dove avviene l’incontro tra Lenny e la spogliarellista Honey Harlow è per entrambi un luogo erotico: qui, non solo ha inizio la loro storia d’amore ma anche la scelta di Lenny di portare in scena, per la prima volta, la parola oggetto di repressione. Una parola tutta da “spogliare” dagli strati di ipocrisie e di pregiudizi, che ne soffocano la pericolosa fertilità.

Lo spettacolo ha inizio con una prolessi, un salto narrativo in avanti proprio come accade nel cinema con il flash forward. E’ la scena della morte di Lenny, sulla quale una sorta di narratore onnisciente dà indicazioni storiche, così da aiutare lo spettatore a seguire la diversa e personale ipotesi drammaturgico-registica proposta dallo spettacolo.  

Se quindi la morte di Lenny viene ufficialmente archiviata con la motivazione di un “acuto avvelenamento da morfina causato da un’overdose accidentale”, obiettivo dello spettacolo è evidenziare dettagli e indizi per proporre un’ipotesi personale, come quella avanzata dal testo di Giuseppe Pavia e condivisa dalla regia di Antonello Avallone.

Ipotesi secondo la quale si sarebbe trattato di una partita di droga volutamente “tagliata male” per eliminare un uomo divenuto oramai decisamente scomodo. Una  loro personale interpretazione, non un’affermazione storica, che si fa strada tra i mille dubbi che ancora aleggiano intorno alla morte di Lenny. 

Avallone regista, quindi, non si rifà per il suo spettacolo al film di Bob Fosse –  tratto da una pièce teatrale di Julian Barry e dal racconto di chi lo aveva conosciuto bene come la moglie Honey, la madre Sally e il manager Artie Silver – ma insieme a Pavia cerca di dare una personale continuità alla storia, focalizzando l’attenzione d’indagine sul periodo che va dall’incontro con Honey Harlow avvenuto nel  1951, all’anno della morte di Lenny, ovvero il 1966.

Ambienta poi gli eventi in un unico night club di New York, mantenendo sullo sfondo il livido sentore dello spaccato delle contraddizioni socio-culturali di un’America attraversata da una delicata fase di cambiamento. In bilico tra la prosperità e l’ottimismo della Guerra Fredda, da un lato e il razzismo e la disuguaglianza sociale, dall’altro. 

L’approvazione del Civil Rights Act del 1964 e del Voting Rights Act del 1965 rappresentarono una risposta a queste contraddizioni, ma la loro applicazione fu spesso ostacolata dalla resistenza e dalla violenza. Specchio del divario tra gli ideali dichiarati e le pratiche reali; tra le leggi federali e l’applicazione locale.  E che portò ad una repressione del dissenso, da parte delle istituzioni e delle forze dell’ordine, che a volte assunse anche forme di violenza. In contraddizione con la libertà di parola e di espressione che l’America dichiarava di difendere.

Contraddizioni denunciate continuamente nei testi di Lenny Bruce, come quando affermava: “Io parlo di tette e di culi, e vengo accusato di essere offensivo, ma io vi dico che le scene offensive sono le fotografie stampate sui nostri giornali, dove si vedono tette e culi presi a fucilate, massacrati, bruciati, dal nostro esercito americano, in nome della libertà in Vietnam”.

Oppure come dichiarava in questo celebre monologo:

“C’è qualche lurido Negro qui stasera? Volete accendere le luci per favore, e i camerieri e le cameriere possono smettere di seguire per un momento? Grazie, grazie, grazie, e spegnete i riflettori. Allora: “Che cosa ha detto? C’è qualche lurido negro qui stasera“? Io so che ce n’è uno, perché lo vedo lavorare, laggiù. Vediamo… ecco là due luridi negri. E fra quei due negri c’è un giudio usuraio. E … là c’è un altro giudio, due usurai e tre luridi negri. E c’è anche uno spaghetti, giusto? Mhm? Ooh, ecco un altro spaghetti. E, uh! Ecco là un greco traditore… e poi un paio di spagnoli unti… e poi anche tre ubriaconi irlandesi vestiti bene… E poi c’è un tipo nero, nero, nero, moro… brutto. Un lurido negro. Ho tre usurai qui, qualcuno dice cinque usurai, siamo a cinque usurai. Qualcuno dice sei spaghetti? Ho sei spaghetti, qualcuno dice sette negri? Ho sette negri! Aggiudicato. Io passo con sette negri, sei spaghetti, cinque ubriaconi irlandesi, quattro greci traditori e tre usurai. Stavi per spaccarmi la faccia, vero? Ehehe, e con questo siamo arrivati al punto. Ovvero che è la repressione di una parola quella che le dà violenza, forza, malvagità. Attenti. Se il presidente Kennedy apparisse in televisione e dicesse: “Vorrei farvi conoscere tutti quanti i negri del mio gabinetto“. E se continuasse a dire: “Negro, negro, negro, negro“, a tutti i negri che vede. “Moro, moro moro moro, negro negro negro“, finché negro non significa niente, mai più. Allora non vedreste più piangere un bambino di colore di sei anni perché qualcuno a scuola lo ha chiamato “Negro“.

(Foto Bettmann Archives, Getty Images)  

Nell’intrigante fumosità di un night club, qui nello spettacolo di Avallone, lo spettatore si ritrova immerso in un seducente spettacolo di cabaret, che accoglie in sé sketch comici di satira politica che, complice lo strumento della risata, si fanno occasione di riflessione per lo spettatore. E che Antonello Avallone – nei panni di Lenny Bruce – restituisce in un’intensa interpretazione. Sketch comici che si intervallano ad accattivanti brani musicali, interpretati da una carismatica Flaminia Fegarotti e ad eleganti spettacoli erotici di danza, resi opportunamente dal fascino di Giulia Di Quilio, nel ruolo di Honey Harlow.

Completano la coralità del cast il Procuratore distrettuale Frank Hogan (interpretato da un efficacemente subdolo Riccardo Bàrbera), strettamente legato al cardinale Spellman, arcivescovo di New York e impegnato in un monitoraggio molto forte nei confronti Lenny; la generosità del manager e amico Artie Silver che mai tradì Lenny  fino alla fine, interpretato con efficace candore da Giuseppe Renzo e la lungimirante proprietaria del night club e presentatrice degli show Francesca Cati. Particolarmente curata si rivela inoltre la cura dei costumi di scena di Red Bodò.

Nei suoi ultimi spettacoli nei club, Lenny descriveva in dettaglio i suoi incontri con la polizia e i processi in tribunale e ciò incoraggiò la polizia a controllarlo sempre di più, nonostante la libertà di parola fosse proclamata dal 1° e dal 14° emendamento della Costituzione Americana. 

Successivamente, malgrado un gruppo di artisti firmò una petizione in suo favore, tra i quali Woody Allen, Bob Dylan (che nel 1981 gli dedicò una canzone contenuta nell’album “Shot of Love”), Elizabeth Taylor, il poeta Allen Ginsberg e lo scrittore Norman Mailer, e per quanto gli avvocati di Bruce davanti ai giudici paragonarono il linguaggio dei suoi testi a quelli del commediografo greco Aristofane e dello scrittore Jonathan Swift, nel 1964 arrivò la condanna per oscenità. Alla quale poi seguì nel 2003 una grazia postuma, la prima nella storia dello Stato di New York, da parte dell’allora governatore George Pataki.

Con la sua passione nel fare teatro civile attraverso monologhi audaci e illuminanti, Lenny Bruce ha ridefinito il panorama della comicità, aprendo la strada ai futuri comici della controcultura e della stand-up comedy .

Tornare, come fa Antonello Avallone, a ricordare con il suo spettacolo questo personaggio significa invitare lo spettatore ad una riflessione personale sulla natura della libertà di espressione.

Un’importante riflessione che chi fa arte, e quindi Teatro, sa di avere la responsabilità di affrontare, soprattutto in frangenti storici in cui la discussione su questo tema è necessaria, quanto nell’America degli anni ’60.


Recensione di Sonia Remoli

Central Park West

TEATRO 7 SETTE presso L’ORTO BOTANICO, 17 Luglio 2022

di Woody Allen

regia Antonello Avallone

con Flaminia Fegarotti, Claudio Morici, M. Angelica Duccilli, Elettra Zeppi, Antonello Avallone –

Due coppie di amici si frequentano da anni. Apparentemente tutto procede perfettamente tra loro ma non appena si insinua un sospetto che poi risulta confermato, allora tutte le parti coinvolte rivelano di essersi già da tempo accorte di qualcosa, senza aver sentito l’urgenza di andare oltre.

Perché finisce un amore ? Che cos’è davvero “l’intimità” ? Come si sopravvive a tradimenti seriali? Avviliscono o fanno scoprire insospettatamente di voler essere più “aperti” ? Queste, alcune delle domande dentro alle quali il testo di Woody Allen va a spiare, a origliare, ad annusare, ad allungare la mano, in maniera leggera o ammiccantemente profonda ma sempre con uno scoppiettante effetto esilarante.

Effetto che la compagnia teatrale diretta da Antonello Avallone dimostra di saper sostenere per tutto lo spasmodico crescendo dei colpi di scena. I dialoghi tra i personaggi sono ricchi di sottintesi e malintesi, di bugie e di contraddizioni. Ma è proprio da questo non detto incomprensibile che scaturisce la tragedia e, insieme, la risata.

In scena una living room borghese, al centro della quale troneggia un elegantemente minimalista mobile bar, sul quale occhieggia beffardo un Ennio Flaiano in giarrettiere. Per antonomasia roccaforte della socializzazione, soprattutto quella che più visibilmente stenta a decollare, il mobile bar promuove preludi a sconcertanti rivelazioni, che poi sanno di poter atterrare in morbidezza, se non altro sull’immancabile divano.

Phyllis ( una Elettra Zeppi che sa come mantenersi funambolesticamente sull’orlo di una crisi di nervi) è una psicanalista di fama, che scrive i suoi libri manipolando e sciacallando i casi clinici dei suoi pazienti (e che un po’ ricorda il Trigorin de “Il gabbiano” di A. Cechov).

Carol (la vibrante Flaminia Fegarotti) e’ ossessionata dal successo e dal carisma della sua amica Phyllis. Howard ( l’intensamente tragi-comico Antonello Avallone) è uno scrittore interessante ma non di successo, incline alla depressione e a replicare suicidi ( un po’ come il Treplev de “Il Gabbiano”). Sam è l’avvocato di successo alla ricerca di una nuova “intimità” ( il croccante fuori e morbido dentro Claudio Morici). Juliet (la dolcissima M. Angelica Duccilli) è, apparentemente, l’ Elena di Troia della situazione.

Uno spettacolo che ruba scroscianti risate, imbarazzate risatine e insospettate riflessioni.

Lo scenario “en plein air” dell’Orto botanico corona il tutto.