Recensione MICROCLIMA – scritto e diretto da Alessia Cristofanilli

TEATRO VASCELLO

23 e 24 Settembre 2025

Festival di Teatro Civile

LA NOSTRA ESISTENZA

Per non restare sordi al “gocciolio” di una rottura.

Per non smettere di “sprofondare dentro le storie degli altri”, temendo di non amarli più.

Per non sentirci al sicuro, solo se da soli.

Per parlare, per interrogarci, insieme.

Per fare, insieme. 

Per non lasciarci fare.

Questo di “Microclima” è un accorato invito a indirizzare la nostra attenzione su ciò che agisce in noi dall’esterno, senza fare troppo rumore. Lentamente provocando condizionamenti sotterranei, capaci di stravolgere le nostre capacità di sentire e di agire.

Questo di “Microclima” è un lavoro – che nasce dalla fertile sinergia concertata tra la drammaturga e regista Alessia Cristofanilli, la Fondazione Friedrich-Ebert, Fragile Spazio e La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello – frutto di un’osservazione e di un’analisi, che hanno evidenziato come certe influenze del nostro macrocosmo socio-politico riescano a penetrare, quasi inavvertitamente, nelle nostre posture esistenziali più intime. Nello specifico, nei modi di stare dentro la nostra prima forma di comunità politica: il microcosmo familiare.

Questo di “Microclima” è un titolo che sapientemente già allude ad un possibile stare al mondo prossemicamente separato, con una particolare inclinazione-deviazione rispetto alle dinamiche del macrocosmo. Un “clima piccolo”, debole e quindi inoffensivo, che si fa fatica a definire ancora libero arbitrio. Perché a predominare è il sapore dell’astensionismo: qualcosa di simile ad un auto-esiliarsi in patria.  Un’amputazione, in anestesia, del corpo organico della “comunità”: un deviare, rispetto al legame di partecipazione socialmente attiva. Rispetto alla funzione di “parte” di un tutto: legame politico-esistenziale che è legge e dono.

Ecco allora la scena darsi come una sorta di “luna park”, solo apparentemente nato dal desiderio di evasione dalla routine, per cimentarsi nell’esperienza sensoriale della vertigine e del movimento continuo. In realtà metafora della vita nel suo scorrere ciclico, rappresentato dalle rotazioni delle giostre, visualizzate genialmente dallo scorrere di uno skateboard. Vento di libertà – che sfida i limiti e incoraggia la perseveranza a cadere, a fallire e a rialzarsi – circoscritto qui ad un’unica traiettoria.

Perché la libertà è ebbrezza e angoscia; navigazione e nostalgia della terraferma. In questo dualismo esistenziale ciascuno cerca di trovare continue forme di equilibrio. Provando e riprovando. Ma in noi umani la tensione securitaria è così forte da portarci a preferire, spesso, un male conosciuto a un bene nuovo, tutto da scoprire. E con il quale non smettere mai di confrontarsi.

E così può accadere – come narrato in questo spettacolo – che due ex attivisti impegnati concretamente per un cambiamento politico e sociale, a seguito di delusioni e di subdoli condizionamenti socio-politici, preferiscano non riprovare ancora, e ancora, a dare vita ai propri ideali. Smettendo di sollevare l’ancoraggio dal fondo, per poter salpare. E finendo così per “serrarsi” in uno spazio protetto ma chiuso; sicuro ma asfissiante. Un microclima così sospeso e separato, da far perdere la cognizione del tempo.

Un’arca immobile, in cui portare in sicurezza tutte le piante del vivaio, altrimenti facile preda di parassiti. Quegli “stranieri” così inaccettabili, da immaginare un futuro “senza”. “Che cosa sono gli stranieri ?” – chiedono infatti i loro figli – “di chi è la terra?”.  Figli per i quali si desidera un’educazione “intra moenia”: quella del microclima domestico. Almeno finché, come le piante, i figli non si saranno costruiti una solida struttura.  

Ma mentre virtù delle piante è “il non farsi sentire”, lo stesso non si può pretendere per i giovani ragazzi loro figli. Perché “è un inferno non farsi sentire”. Soprattutto quando il cielo si fa sempre più povero di “stelle”: occasioni dell’attendere e del desiderare.

E può venire allora facile farsi tentare dalla postura esistenziale dell’“aderire” cieco, de-responsabilizzato. Smarrendo sempre più la propria sensibilità critica a “sintonizzarsi” o meno con l’altro. Ma soprattutto barattando, con un’illusione di “costante sicurezza”, il nostro potere di riuscire a cambiare, a re-iniziare, a ri-generarci. Anche quando in noi, provati dalle avversità, pulsa di vitalità solo una minima parte. Alcune piante riescono a farlo anche solo con un 15% di salute. Per noi è più complesso, perché più controversa è in noi la gestione contrastante delle spinte ad arginare e ad esplorare il mare del desiderare, del conoscere.

In scena gli interpreti – Federico Gatti, Sylvia Milton, Francesco Morelli – brillano nel restituirci quelle profondità subdolamente oscure, colonizzate da pregiudizi. Profondità eppure così umane, così vicine. Così confinanti le nostre. Un confine sul quale si va a finire insieme. Incontrandosi. Complice anche la decisa delicatezza di questo spettacolo, che “pota” orizzonti per permetterne una nuova fioritura.

Lo spazio scenico ci parla, infatti, di lussureggianti solitudini: di un habitat sospeso, dipinto di “un verde assoluto che – come era solito dire Kandinskij – è un elemento immobile, soddisfatto di sé, limitato in tutti i sensi”. Dove, a specchio, si esercita il diritto di gestire (manipolare) una comunità “muta” di piante. Da dove è esclusa ogni tentazione libertaria alla “manifestazione”, proprio perchè iper protette e quindi lasciate indebolire. Divenendo incapaci di misurarsi con inevitabili “infestazioni” parassitarie: “manifestazioni” del mondo vegetale. E non solo.

Perché il “manifestare” è parente dell’ “infestare”: quest’ultimo più subdolo, più strisciante: non si avvale dell’uso delle “mani”. Un fermento sotterraneo. Perché invece quando manifestiamo pubblicamente un’urgenza o una contrarietà, è come se acchiappassimo con le mani un fuggente tratto di realtà e lo presentassimo all’evidenza del pubblico, della piazza, degli altri. Con una concretezza che si stringe fra le dita.


“Microclima” è un’opera originale che intreccia intimità psicologica e riflessione civile, eleggendo il linguaggio del teatro, ricco in umana meraviglia, a leva capace di sollevare efficacemente l’attenzione al confronto, personale e collettivo, con una delle questioni più urgenti del presente: la fragilità della democrazia e la normalizzazione delle destre.


E lo fa attraverso una “manifestazione” poetica.

Senza proporre facili risposte, lo spettacolo riesce a gettare luce dove regna l’ombra, offrendo uno spazio di riflessione collettiva sulle contraddizioni della società contemporanea: sulla percezione di minaccia e sul significato – politico e personale – di crearsi un proprio “microclima”, in tempi di instabilità e radicalizzazioni.

Perché oggi, più che mai, serve interrogarsi su come e dove si stia muovendo l’ecosistema democratico.

Perché la cultura, in tutte le sue forme, è uno dei luoghi da cui ripartire.



Recensione di Sonia Remoli

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