Terzo capitolo della “Trilogia del vento”
TEATRO VASCELLO, dal 28 Gennaio al 2 Febbraio 2025



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E ora che si fa?
Cosa si può inventare quando ci si accorge, con furioso dolore, che un familiare si sta ammalando e a qualche livello sta “scrollando dalle vecchie spalle tutte le cure e gli affari di famiglia, cosicché, sgravato ormai da ogni fardello, si avvia alla morte?” (William Shakespeare, Re Lear, Atto I, Scena I)
Come si fa ad accogliere il dolore in quella sua assurda diversità, che sta trasfigurando la persona che ci è tanto cara?
Come si fa a non restare disperatamente disarmati, o a non armarsi di ostinata incredulità?
Ma il punto è: desideriamo ancora inventare un modo, per riuscire a trasformare il dolore in bellezza?

Ermanno De Biagi (il padre) – Giusi Merli (madre)
Quest’ultimo lavoro della “Trilogia del vento” di Fabiana Iacozzilli dedicato alla fase vitale della vecchiaia, raccoglie le fila dei temi annunciati con il primo lavoro dedicato all’infanzia e con il secondo lavoro dedicato alla maturità. Fasi vitali – esplorate quali opportunità generative – legate tra loro dal fil rouge del diverso declinarsi dell’ “arte dell’aver cura”.

(ph. Laila Pozzo)
Se nel primo lavoro – “La classe” – la cura che la Iacozzilli esplora è l’inclinazione dei maestri a saper lasciare un segno negli allievi, al fine di individuare e rivelare in ciascuno di loro la propria vocazione; nel secondo lavoro – “Una cosa enorme” – è una donna ad interrogarsi sul proprio desiderio di voler prendersi cura di un figlio. Fino ad arrivare qui, ne “Il grande vuoto”, dove le modalità del prendersi cura esplorate sono quelle che due figli (molto efficacemente interpretati da uno spaesatamente tenero Piero Lanzellotti e da un’incandescente Francesca Farcomeni) devono e vogliono inventarsi – con la fertile complicità della diversità culturale della badante (una Mona Abokhatwa, maestra in ospitalità) – per riuscire ad accompagnare, con un’accoglienza ricca in entusiasmo, la propria mamma malata di Alzheimer nell’ultimo tratto della sua vita.

Piero Lanzellotti (figlio), Mona Abokhatwa (badante), Francesca Farcomeni (figlia), Giusi Merli (madre)
Cosa può aiutarci, laddove la testimonianza dell’ “arte del saper aver cura” non sia stata sufficientemente efficace?
Fabiana Iacozzilli ci propone di entrare nel grande mondo della finzione-verità proprio del Teatro: quello della meta-teatralità.
Ecco allora che in un sistema cosmologico-esistenziale a mò di matriosca, un’auto rossa è il primo “teatro di vita” della coppia di due genitori (una Giusi Merli, madre assai carismatica pur nella progressiva decadenza e un Ermanno De Biagi, padre irresistibilmente fascinoso, nel suo darsi di ossidabile fidanzato).
Auto rossa contenuta poi in una grande sala da pranzo, “teatro di vita” di una mamma (ormai vedova) e dei suoi due figli. A loro si unirà successivamente anche una badante.

(ph. Laila Pozzo)
Sala da pranzo contenuta a sua volta nell’intera casa, “teatro di vita” dove ora la mamma malata vive sola, videosorvegliata dal figlio.
Fino a che l’intera casa non diverrà palco, per la messa in scena familiare della tempesta di “Re Lear”, il cui monologo è l’unica traccia di memoria rimasta alla mamma, ex attrice.

Elemento comune ai tre lavori che compongono la “Trilogia del vento” è un particolare oggetto di scena: il tavolo, “luogo di nutrimento” di un’intera esistenza. Nutrimento della mente in quanto banco di scuola ma anche nutrimento del corpo e del cuore in quanto tavola, ovvero occasione di convivialità sociale e relazionale. Occasioni d’incontro, variamente colte e apprezzate.

Una scena da “La classe”: primo capitolo della Trilogia del vento

Una scena da “Una cosa enorme”: secondo capitolo della Trilogia del vento
(ph. Manuela Giusto)
Ma quando non si può più contare sulla fecondità delle relazioni a causa di una malattia degenerativa, cosa significa prendersi cura e quindi nutrire di nuove attenzioni qualcuno, che non ti segue se non su pochissimi percorsi mentali?
Cosa diventa in questa situazione il “tavolo“?

Diventa, ad esempio, il luogo-destinazione-liberazione degli oggetti (ricordi) che non riescono più a incanalarsi in altre direzioni. Il luogo-stazione dove i ricordi (tra cui i super eroi e la spada magica dell’infanzia), uscendo dalla mente che li conteneva nelle varie aree celebrali ( gli sportelli del mobile credenza), vengono traslocati in “un fuori” offerto dal tavolo. Che li accoglie nella loro caoticità, divenendo occasione di uno svuotamento-liberazione della mente.

Una mente sul punto di divenire progressivamente un grande vuoto, una “tabula rasa”: come all’inizio del nostro essere gettati al mondo. Come nel periodo della nostra infanzia. Una mente che può vivere, ora come allora, di qualcuno che desideri lasciare un segno di accoglienza verso le nostre manchevolezze; così come un segno di gentile rispetto e di cura benevola, proprio verso ciò che ci rende diversi.

Una circolarità ripercorsa dalla “Trilogia del vento”, quale rito esistenziale che tutti ci accomuna, in quanto tutti venuti al mondo nella condizione di “figli”. Tutti venuti al mondo senza averlo scelto, “scritti” per un lungo periodo da altri, ma anche “sartraniamente liberi” di fare qualcosa di proprio, di ciò che gli altri hanno fatto di noi. Portando in scena il vento della libertà, nella mutevolezza della vita.

Fabiana Iacozzilli
Con questo suo ultimo lavoro e con l’ intero progetto della “Trilogia del vento”, Fabiana Iacozzilli ci fa dono di una modalità di fare teatro e di stare al mondo .
Parte dal dato biografico, trasfigurato e nutrito dalla materia artistica, per confrontarlo attraverso interviste a donne e uomini “disponibil* a condividere una scheggia della propria vita”.
Un approccio, il suo, fondato su un continuo interrogarsi: un personale e critico riflettere, testimonianza di un’acuta professionalità, strettamente connessa ad una profonda cura verso la nostra fragile – ma anche capace di formidabili slanci – umanità.

Un aprirsi, il suo, alla “contaminazione” intesa come forza vitale e professionale capace di dare vita a nuove ed efficaci occasioni di comunicazione.
In questo terzo lavoro, ad esempio, la Iacozzilli contamina la narrazione teatrale con il video, con la ripresa live degli accadimenti scenici e con l’utilizzo del montaggio cinematografico. Nel secondo lavoro invece dà vita ad un dispositivo in bilico tra forma spettacolare e dimensione installativa. Nel primo capitolo è il teatro di figura ad entrare in dialogo con il teatro-documentario.
Un teatro civile ed esistenziale, questo di Fabiana Iacozzilli: un lavoro di ricerca, dimostrazione che il dolore dello stare al mondo “può” essere trasformato in bellezza.

Recensione di Sonia Remoli
