Il malato immaginario

TEATRO QUIRINO, Dal 6 all’ 11 Dicembre 2022 –

Un delizioso motivo al clavicembalo (le musiche sono di Massimiliano Pace) prelude all’apertura del sipario, che lascia libero di diffondersi in platea il suadentissimo profumo di un’essenza lignea: quella dell’enigmatica torre che campeggia sul palco (la scenografia è di Fabiana di Marco).

Il regista Guglielmo Ferro

Guglielmo Ferro, regista meticolosamente attento ai dettagli che connotano una messa in scena (come suo padre Turi lo era nello studio dei personaggi che andava ad interpretare) sceglie di proporci un Argante prestante, ancora giovane e vivace ma che, sedotto dal “male di vivere”, un po’ come il poeta Hölderlin, sceglie di “isolarsi” in una torre. Lignea, appunto, eretta su geometrie interconnesse che, quasi in un ardito tentativo di esplorazione dell’infinito, vagamente ricordano quelle dell’incisore Escher.

Una scena dello spettacolo “Il malato immaginario ” di Gugliemo Ferro

Se l’uomo è destinato a sperimentare l’angoscia di fronte al nulla che minaccia l’esistenza; se la paura di vivere supera quella di morire, perché non “fingersi” malati? Perché non affidarsi alla vita “liquida” di onnipotenti clisteri? Con il vantaggio anacronistico di continuare ad essere “accuditi” e con l’illusione di delegare agli altri solo preoccupazioni e affanni. In realtà adbicando al proprio arbitrio nella complessa gestione del “convegno” degli umani. Un uomo, quello che Molière descrive nel 1600, oggi attualissimo.

Una scena dello spettacolo “Il malato immaginario ” di Gugliemo Ferro

Una “scienza”, la medicina di fine Seicento che, se da una parte fornisce all’uomo gli strumenti per conoscere e quindi dominare la Natura, dall’altra veicola anche profonde inquietudini ed insicurezze, che aprono inesorabilmente pericolosi sensi di vuoto. Molière, con guizzo geniale, rende trascendente questa subdola contraddizione incarnandola nell’ipocondriaco: colui che vedendo ovunque una minaccia e sentendosi sempre malato, finisce per rinunciare a vivere, perdendo anche quel che resta della salute e della lucidità mentale, sotto i bombardamenti dei medicinali più variegati.

Una scena dello spettacolo “Il malato immaginario ” di Gugliemo Ferro

Emilio Solfrizzi ( il malato immaginario Argante) è efficacissimo nella sua prestanza da malato: incisivo e lieve; ironico e intimamente amletico. Mai eccessivo. Poeticamente comico. Adorabile nella sua meschinità. Gli attori che lo accompagnano in questa avventurarsi bizzarro ed enigmatico, paradossalmente comico fino all’assurdo, sono tutti accuratamente caratterizzati ed efficacemente resi.

Una scena dello spettacolo “Il malato immaginario ” di Gugliemo Ferro

Una metafora illuminante per il pubblico, racchiusa in uno spettacolo profondamente divertente.

Recensione dello spettacolo SERVO DI SCENA di Ronald Harwood – regia di Guglielmo Ferro –

TEATRO QUIRINO, Dall’8 al 20 Febbraio 2022 –

Uno spettacolo sull’esigenza di vivere, nonostante tutto, di teatro e per il teatro. Anche quando ciò che ci circonda sembra cadere a pezzi. Anzi, soprattutto perché tutto il resto sta cadendo a pezzi. Il teatro sta alla vita così come il servo di scena sta al capocomico: il teatro serve, sostiene, infiamma e soprattutto libera.

Perché nasce dall’urgenza, esclusivamente umana, di guardare ma soprattutto di essere guardati; di parlare ma soprattutto di essere ricordati, base ontologica dei rapporti umani, così come del rapporto attore-spettatore. Finalmente qualcuno ci guarda e mentre ci guarda ci fa esistere in modo nuovo, ci fa nascere un’altra volta. Questo è il messaggio che al di là dei capricci, dei facili egoismi e delle modalità narcisistiche, ci consegna Sir Roland, un attore ormai vecchio e al tramonto, capo comico di una compagnia inglese degli anni ’40.

Con l’apertura del sipario entriamo nell’elegantemente ricercato camerino di Sir, dietro al quale si sopraeleva il retro di un palcoscenico, ovvero un fondale di quinte armate, che fa da confine-non confine tra due spettacoli. Un’idea scenografico-narrativa metateatrale che sottolinea, anche visivamente, il continuum tra vita e teatro, tra attore e spettatore. 

Lo spettacolo prende avvio da una tempesta emotiva alimentata dal servo di scena tuttofare Norman (un elegante e sensibile Maurizio Micheli) e dalla prima attrice nonché moglie di Sir, Milady (una brillante e raffinata Lucia Poli) disperatamente addolorati per la fuga isterica di Sir a poche ore dall’inizio della recita.

Norman, da buon servo di scena qual è, fa credere a tutti di nutrire un solido ottimismo sulla positiva risoluzione della situazione; Milady invece spinge affinché si rimandi lo spettacolo : “Che sarà mai!”- dice. E rincalza: “E poi: ma esiste qualcuno a cui interessa se lui recita o no?”, introducendo così il tema fondante dello spettacolo. Benché esausto e in evidente disequilibrio fisico e mentale, Sir (un intensissimo Geppy Gleijeses) ritorna in camerino, pronto a qualsiasi cosa pur di stare lì, proclamando: “Non posso, non devo, non voglio, saltare la replica” e continua: “Ogni sera, in scena, mi mangio la vita!”. 

Poco prima dell’annuncio che resta solo mezz’ora dall’andare in scena, ha inizio, a favore di pubblico, complice una piccola pedana roteante (sottostante il mobile da toelette di Sir), il rituale della cerimonia del trucco, per entrare magicamente nella pelle del personaggio da interpretare: “Re Lear”.

È questa l’occasione per delle riflessioni sul mestiere dell’attore e su ciò che dà senso a questo particolare modo di prendere la vita, dove il dolore nasce insieme alla parola e la parola è ciò che ti consegna alla memoria, al ricordo.

Arriva il momento del “chi è di scena” e sebbene con evidente fatica e con un notevole ritardo (colmato con arguta improvvisazione dai colleghi sulla scena, le cui ombre vediamo proiettate sul retro del telo bianco al centro del fondale), Sir/Re Lear entra in scena sostenuto non solo dal servo di scena e dalla direttrice di scena ma soprattutto dalla voglia di dire, ancora una volta: “Eccomi qua: sono venuto a vedere lo strano effetto che fa, la mia faccia nei vostri occhi e quanta gente ci sta e se stasera si alza una lira per questa voce che dovrebbe arrivare fino all’ultima fila …”.

Ma lo spettacolo non termina qui, almeno per noi che sediamo nella platea dietro al palco. E un colpo di scena ribadirà, ancora una volta, quanto sia di vitale importanza per noi umani essere negli occhi e nella mente di qualcun altro.

Lo spettacolo è un omaggio a Turi Ferro nel centenario della nascita.

Leggi l’intervista a Geppy Gleijeses dal Corriere della Sera

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Recensione di Sonia Remoli