Recensione dello spettacolo ELENA di Ghiannis Ritsos – di e con Elena Arvigo

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 15 al 18 febbraio 2024 –

Ora vive in quel che resta della sua mitica dimora. Spazzata dal vento. Spazzata dai venti di guerra.

Ora a tutela – anzi, a guardia – dell’Elena regina di Sparta di Ghiannis Ritsos c’è una presenza ambigua (una Monica Santoro solennemente inquietante) : di quelle che sanno muoversi tra la vita e la morte, tra le ombre e la luce (come la drammaturgia luminosa di Andrea Iacopino narra con suggestione).

Noi del pubblico percepiamo di essere introdotti a qualcosa di sacro: come in un rituale nel cui canto d’apertura si chiede il favore della Luna, casta diva. O di Calliope, dalla bella voce. O degli dei della guerra.

Lo spazio nel quale si muove Elena (una mirabilmente decadente Elena Arvigo), un pò come quello della sua mente, non conosce nette delimitazioni fra interno ed esterno. Le pareti non sono muri ma veli: eppure Elena sembra una creatura tenuta in cattività, in un tempo in cui la libertà è un’ipocrisia.

Elena è abitata da un luogo fisico (la casa, la Grecia degli anni settanta) e da un luogo mentale, entrambi al di là della logica: smarriti sono il principio di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto. Regna il caos fuori e dentro: gli oggetti sono stati delocalizzati e le parole hanno perso senso. Come quando si è in guerra.

Ci si orienta con ” i suoni “: quelli prodotti con il bastone, ad esempio. Che in questa subdola polisemia è sia un aiuto per deambulare, che l’oggetto sacro del rabdomante. Ma anche uno scettro. E poi un’arma. Ontologicamente invece ci si orienta con i suoni procurati dal fragile contatto tra cristalli: materia della stessa fragilità delle relazioni umane. 

E poi ci sono i suoni emessi attraverso la pronuncia delle parole. Tanto queste sono svuotate di senso, quanto i suoni diventano l’unico autentico orientamento. Quasi dei sottotesti sonori. 

Sebbene l’Elena di Ritsos sia oltremodo invecchiata e trascurata nell’aspetto fisico, quella dell’Arvigo mantiene nonostante tutto una sua sensualità ancestrale. Ed è tutta nel piacere di parlare: nel gustare la pronuncia delle singole parole. Ma anche nell’ascoltarsi e ancor di più nell’immaginare di essere ascoltata.

Il suo è un parlare come un canto fascinosamente ospitale verso picchi e cadute: nei toni, nei ritmi, nei timbri. Ma il parlare dell’Elena dell’Arvigo è anche la voluttuosità dei suoni onomatopeici. E’ il dare corpo sonoro ad ogni singola sillaba: quella succulenza dalla quale tenta di sprigionarsi il significato.

È come se l’Elena dell’Arvigo facesse all’amore con i suoni delle parole. Il suo è anche un esplorare con la lingua ogni cavità della bocca per indovinare, come una rabdomante, il suono da produrre. E con il quale veicolare un determinato significato.

È spettacolo. È meraviglia.

È una stupefacente modalità di onorare la poesia di Ghiannis Ritsos.

Quel resistere comunque, anche quando tutto perde senso.

Quell’elegiaco denunciare attraverso la potenza del mito.

Quel fiore da custodire in bocca, in attesa di poterlo lasciar andare.

Ghiannis Ritsos con il suo amico e fine traduttore Nicola Crocetti

che ha fatto conoscere con dedita tenacia la poesia di Ritsos in Italia



Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo FATA MORGANA: un’allucinazione dalla folle, sensazionale vita di Nico

TEATRO ARGOT STUDIO, dall’8 all’11 febbraio 2024 –

Nico provoca miraggi.

Nico è un miraggio.

Nico è Fata Morgana.

Nico viene da un posto dove si chiamava Christa Päffgen. Un posto abitato dal silenzio e dalla violenza. Ma dove, nonostante tutto, forte era ancora la capacità di sognare, d’immaginare.

Margherita Remotti

Fata Morgana ieri sera era in Margherita Remotti, un’interprete-autrice che con il suo personaggio condivide una gran dose di magnetismo. Un one man show il suo che ha incantato la sala gremita del Teatro Studio Argot.

La Remotti fa suoi i ritmi e i livelli emozionali dell’estasi, della perdizione, della commozione, perché come Christa sa stare nei “vuoti”. Perchè conosce il potere del “raccontare”: unico modo che permette alla sua Nico di assentarsi dal “posto da cui viene” e di farsi Fata Morgana.

Margherita Remotti

La drammaturgia e l’interpretazione di Margherita Remotti si fondono mirabilmente – grazie alla regia di Jon Kellam – con la drammaturgia delle luci, delle proiezioni visive e delle musiche originali di Alberto Laruccia. Una sinergia davvero efficace.

Christa e’ cresciuta in compagnia del vento, nel ventre di sua madre. E con il vento si identifica: il suono di tutte le cose. Lei è suono. Questo è ciò che la lega a Nico, la sua nuova identità.

Margheritta Remotti riesce fascinosamente a rendere percepibile come l’essenza di Nico sia il risultato di fusioni paniche. Sono allucinazioni e rituali magici quelli in cui si cala, in cui si lascia cadere contattando un posto indefinito: “tra lì e l’altrove; tra qui e l’altrove”: il luogo di Fata Morgana.

Margherita Remotti

I suoi occhi vedono perdendosi nel nastro dei ricordi: sono irresistibilmente evocativi, come la sua voce, profonda e scura. 

I suoi occhi si bagnano di trattenuta commozione: lei riesce ad intercettare il fuoco del sole e il roboare del tuono ma non lo s-catenanento della pioggia. 

Lei ha fame di pioggia dai tempi della guerra, ci confida. Quella fame di spensieratezza di cui un bambino si dovrebbe nutrire. Ma Christa no. Lei è stata sfollata durante la guerra, suo padre se ne andò e fu lei a prendersi cura della mamma. Non le fu concesso essere figlia: anche per questo non sempre riuscì ad essere una buona mamma per suo figlio Ari. Sente la forza dirompente dell’amore per suo figlio ma non sa come indirizzarlo.

Margherita Remotti

Brillò per la sua insolita bellezza ma soprattutto per le sue capacità artistiche poliedriche. Gli uomini la adoravano, fino a temere di essere oscurati dal suo fascino carismatico, unico.

E poi bastò un colpo di calore: la sua esistenza si chiuse circolarmente nel “non essere vista”. Nell’essere sfollata dagli ospedali.

Ma nel ricordarla, ogni volta, è un pò come restituirle ciò che non è stato ancora da noi decifrato. Un tradurre qualcosa di più della sua lingua, così unica, così deformante. Di questo inafferrabile miraggio Fata Morgana.

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo AMLETO di e con Michele Sinisi

TEATRO STUDIO ARGOT, dal 14 al 17 Dicembre 2023 –

Un coro di grilli abita questa riscrittura dell’ “Amleto” di Michele Sinisi: animali considerati i “cantori della luna”, malinconici per eccellenza. Perché è sulla particolare malinconia di Amleto che Sinisi vuole portare la nostra attenzione: una malinconia struggente e furiosa .


È un Amleto che ricorda un Pierrot.  E di questa maschera della Commedia dell’Arte ha un po’ dello Zanni astuto che si caccia sempre nei guai. Possiede poi l’espressività del Pierrot divenuto muto, grazie alla rivisitazione della maschera apportata dal mimo Jean-Gaspard Debureau (1796-1846). E infine è  suo anche un certo carattere bohemien: quello che Pierrot assunse con Adolphe Willette (1857-1926). Un Pierrot nero simbolo del poeta irriverente, perseguitato dalla sventura e vendicatore delle ingiustizie della società.

E con un’ invettiva esistenziale inizia la narrazione dell’ “Amleto” di Sinisi: “… perché si fanno traffici di guerre? Perché ci sono carpentieri che non distinguono la domenica dal resto della settimana? …Chi è che può dirmelo?”. Sono questi i suoi dubbi atroci, consapevole che l’istinto alla sopraffazione ci abita per natura ( “Siamo tutti furfanti immatricolati” ) e la nostra aspirazione alla libertà in verità ci spaventa terribilmente ( “La coscienza ci rende tutti codardi ” ).

Si rivolge a noi ma in realtà  è in colloquio con le parti di se stesso, tra loro in contraddizione. E poi è come se evocasse delle presenze assenti. Ma in fondo, cosa c’è di più presente di un’assenza?

Sono apparentemente seduti su sedie, i personaggi del testo originale che Sinisi ha eletto a protagonisti della sua riscrittura: sono Gertrude, Claudio, Ofelia, Laerte, Polonio e un attore.


Sono sedie spostate, gettate a terra, aperte e chiuse violentemente, rumorosamente: archetipi di rapporti umani problematici e irrisolti.  E ricordano un po’ quelle dei danz-attori di Café Muller, lo spettacolo-manifesto del Tanztheater di Pina Baush.


Ma alludono anche al chairwork: una modalità di lavoro esperienziale che utilizza le sedie e le loro possibili posizioni con una finalità terapeutica. Un’alternativa al lavoro della psicoanalisi: se questa infatti è incentrata intorno al potere terapeutico della “parola”, il chairwork lavora sul potere terapeutico dell’azione, invitando il soggetto a “mettere in scena” le parti di sé legate alle persone più coinvolte nel suo vissuto. Agire i loro ruoli conflittuali, lo conduce a rimettere insieme le loro parti.

Quindi, piuttosto che parlare “dei” suoi problemi, l’Amleto di Sinisi  parla “a” questi problemi”, interpretando tutti i “ruoli” più caldi e agghiaccianti del suo vissuto. “Sulle sedie”. Quasi come in un setting terapeutico.

Perché separarsi da qualcuno significa separarsi da una parte di noi: non si soffre solo per la separazione da quella determinata persona ma anche per il credere di aver perso quello che noi eravamo “con” quella persona. Nel bene e nel male.


La riscrittura di Sinisi è allora anche un appassionato ed accogliente tentativo di invitare Amleto ad un elaborazione dei suoi lutti. Lui che, colto da una furia maniacale, ha creduto di superare il dolore subito: attraverso la vendetta.

Ogni lutto chiede invece tempo e la capacità di stare nel dolore. E poi serve ricordare: riproiettare in sé e fuori di sé la narrazione che ci ha legato a chi non c’è più.

Qui Polonio è il teorico del “rapporto causa-difetto” e dell’artificio, inconsapevole che “darsi troppo da fare è pericoloso”. Laerte è colui che di fronte alla situazione fragile di Elsinore preferisce andarsene in Francia; Geltrude è una madre che si macchia di un duplice imperdonabile tradimento: la rabbia gelosa che assale Amleto è così insopportabile da dover essere sublimata attraverso il passaggio di Gertrude dal ruolo di carnefice a quello di vittima. L’allusione ad un amplesso tra sua madre e suo zio rimesso in scena attraverso le loro due sedie, è potentemente commovente. Suo zio Claudio è “la mano” della situazione. Ofelia è le sue pretese di innocenza. E poi lo spettro di suo padre: lui è un trasparente vaso di fiori, “violentato” dai suoi cari.


Questa è la verità dell’Amleto di Sinisi, che arriva attraverso un’intensa sublimazione a recuperare il rapporto (simbiotico) con la madre: “quel cuscino rosso” divenuto trono e trofeo di Claudio ora può tornare ad essere “il suo guanciale” per una buona notte.


Questa pulsante riscrittura dell’ “Amleto” shakespeariano di Michele Sinisi ci immerge in un necessario rito collettivo: accattivante e terapeutico. Perché – come aveva acutamente  intuito Harold Bloom – Shakespeare contiene tutto e tutti: i suoi drammi sono intessuti di pulsioni alle quali non possiamo resistere. E per questo motivo non siamo noi che li leggiamo ma piuttosto sono loro che ci leggono fino in fondo.


Michele Sinisi oltre a saper immaginare fino alla restituzione una riscrittura e uno sguardo che completa l’identità di un personaggio-cult della nostra esistenza, ci conduce con cruda poesia al coraggio di guardare anche dentro di noi. Con feroce misericordia.

Le multiformi identità della sua voce, i suoi tremendi silenzi e la sua potentissima espressività mimica creano un varco nello spettatore. Che accetta di essere anche protagonista.

Michele Sinisi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo DIARIO DI LINA – regia di Francesco Lagi

TEATRO STUDIO ARGOT, dal 23 al 26 Novembre 2023 –

Per un attimo la sensazione è quella di essere sul set del cechoviano “Vania sulla 42esima strada” di Louis Malle, con David Mamet alla sceneggiatura. 

Dicono di voler fare una memoria. Ma in realtà sembrano averla fatta così bene d’averla persa. Sanno, ora. E possono attingere alla memoria del cuore. 

Ci arriva tutta la loro urgenza di tenere a memoria ogni momento che hanno condiviso con Lina. Ed è come se stessero iniziando a scrivere un diario di memorie quotidiane. A ritroso. Un diario del tempo che si sono regalati; dell’amore che sono stati in grado di offrirsi.

Ed è nostalgia: quella piena di gratitudine, quella che continua a scaldare il cuore. Quella da celebrare ed onorare nutrendola anche con un bicchiere di vino, del cibo. “La vita è strana, non meno della morte”. 

Ma tutta nostra è la possibilità di consultare il passato, di distenderci accanto a lui. Ancora. Non per fuggire dal presente – ora così strano, così senza senso – ma per capire ed essere capaci di cura e di responsabilità nell’oggi e nel futuro.

Per tenere alta la consapevolezza sorridente di chi siamo, da dove veniamo e dove abbiamo la possibilità di spingerci. Per non perdere niente di quello che naturalmente entra nella nostra vita.

Perché vivere significa “aspettare che finisca” amando far attenzione a godere dei più piccoli dettagli. E così imparare a lasciar andare. Che non significa essere risucchiati.

Piuttosto “digerire”: godere di tutti i sapori, masticare senza lasciare vuoti e trasformare, attraverso l’enzima della memoria, la nostalgia di ciò che è entrato in noi – ed è stato assimilato – in gratitudine. Costruendoci un “archivio”, un diario di sapori belli a cui ripensare: dai quali attingere energia vitale nei momenti più ombrosi. Godendo della presenza di chi non c’è, proprio nella sua assenza.

Sta a noi trovare la luce dell’ombra: sta a noi seguire con questa nuova luce chi non c’è più. Darle una nuova “sagoma”. 

Uno spettacolo geniale, che riesce a parlare dell’essere con il nulla.

È il meta teatro dell’assurdo di Teatrodilina.

Uno spettacolo scritto e diretto da Francesco Lagi .

In scena: Anna Bellato, Francesco Colella e Leonardo Maddalena.


Recensione di Sonia Remoli