Recensione di QUELLI CHE RESTANO – regia Davide Celona

TEATRO COMETA OFF

24 e 25 Novembre 2025

Che cosa significa essere amici?

Che cosa significa essere un gruppo?

Se l’amicizia è l’incontro non solo con un’altra persona ma anche con la possibilità di entrare in dialogo con parti oscure di noi stessi, uno spazio cioè dove la ragione incontra la “l’irrazionalità” offrendole un luogo sicuro attraverso lo sguardo accogliente dell’altro, 

come riescono efficacemente a restituire i ragazzi in scena, ovvero Marta Ferrarini, Leonardo Lutrario, Luca Molinari, Emanuela Vinci,

cosa succede a chi resta quando un amico si suicida?

Ci s’interroga su un fallimento: il fallimento della parola.

Gilles Deleuze diceva che “la violenza non parla”: la violenza porta ad immaginare come in un’allucinazione che si possa arrivare alla soluzione di un problema sùbito, linearmente. Senza passare per le complessità labirintiche della parola. 

Ed è una tentazione decisamente seducente, quella della violenza: abita anche i nostri sogni. E rischia di sedurci a tal punto, da provare una sorta di piacere per la nostra stessa autodistruzione.

Su questo si interroga la drammaturgia di Marta Ferrarini e Emanuela Vinci, supervisionata da Giovanni Bonacci e dallo sguardo di Gianni Clementi.

Leonardo Lutrario, Marta Ferrarini, Emanuela Vinci, Luca Molinari

Nello specifico coloro che restano – qui i quattro ragazzi in scena – s’interrogano su “come” Milo abbia scelto di suicidarsi. Ma soprattutto “perché”.

Perché non ne ha parlato con il gruppo? Almeno con uno di loro, visto che proprio ora nel parlarne insieme emergono altre confidenze fatte non a tutto il gruppo ma solo a singole persone. Ed è subito gelosia, ed è subito spinta al gesto violento, anziché al lavoro più lungo della parola.

O forse, pensano, Milo ha provato a parlarne ma loro non sono stati sufficientemente in ascolto dei segnali che lui stava cercando di inviare. Forse …forse ….

Davide Celona

La regia di Davide Celona porta in scena una fascinosa elaborazione del lutto di quattro giovani, alla ricerca di ristabilire un contatto con quelle parti di sé con cui Milo permetteva loro di entrare in dialogo. 

Ma ora, prima ancora di capire se andare o non andare al suo funerale, dopo essere stati esiliati su scelta della famiglia di Milo dalla camera mortuaria, occorre chiudere un loro rito – il rito tra quelli che restano – per potersi aprire poi ad una nuova forma di ritualità collettiva.

Occorre attraversare “quello che resta” – quel vuoto, quella mancanza, quel senso di colpa – per poter arrivare alla consapevolezza che Milo non va salutato e lasciato andare, ma continuato a tenere “con” loro. Attraverso la parola, attraverso il ricordo quotidiano, attraverso la percezione della sua presenza.

Emanuela VinciMarta Ferrarini

E se gli interpreti brillano in credibilità e in coralità e la drammaturgia in intensa e cruda complicità con il dolore, la regia riesce a trovare soluzioni sceniche dalla bellezza arcaica.

Come i rituali di danza, potente linguaggio non verbale che riesce a ricontattare legami con il divino, con la natura, con la società e con le proprie emozioni.

Come il totem del muretto, in lutto per potersi declinare in una nuova forma di agorà.

Come il rituale dello spogliarsi, per ricontattare ancora dolorose parti nascoste, indossando poi diversamente i propri abiti.

Ne emerge un suggestivo affresco contemporaneo di una generazione che cerca e lotta insieme attraverso ritualità trasformative, anche di affrancamento dalle famiglie, per riuscire ad esprimere la propria unicità. Facendo un interessante uso delle rovine del proprio passato, la cui nuova fioritura ora può essere colta. Ancora con Milo. 

Ma noi siamo quelli che restano in piedi e barcollano su tacchi che ballano
E gli occhiali li tolgono e con l’acceleratore fino in fondo le vite che sfrecciano

E vai e vai che presto i giorni si allungano e avremo sogni come fari
Avremo gli occhi vigili e attenti e selvatici degli animali

(da “Quelli Che Restano” Elisa feat. Francesco De Gregori)

-.-.-.-.-

Lo spettacolo è l’opera prima di Marta Ferrarini e Emanuela Vinci ed è uno dei cinque progetti vincitori della sezione Teatro del bando “Labor Work” di DiscoLazio, indetto da Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di QUANNO FERNESCE ‘A GUERRA (Mussolini a Ponza) – scritto da Rita Bosso – regia Mariella Pizziconi

TEATRO COMETA OFF

dal 28 Ottobre al 2 Novembre 2025

Luglio 1943: a Ponza si aspetta il sole, quello che viene “quanno fernesce ‘a guerra”.

E invece il 28 Luglio, a quattro giorni dall’affondamento del piroscafo Santa Lucia – “il tram di Ponza” che collegava le Isole Ponziane con Gaeta e Napoli – arriva a bordo di una barca, separatasi dalla  nave corvetta Persefone, un civile accompagnato da sei carabinieri. 

Il piroscafo Santa Lucia: “il tram di Ponza”

Per lui in un’ora è stata fatta sgombrare la zona abitata di Santa Maria, che dovrà ospitarlo in sicurezza. E’ il Duce Benito Mussolini (1883-1945) che – all’indomani della notte del Gran Consiglio dove si determinò la fine del Fascismo – fu preso per essere deportato lontano dalla Capitale.  Rifiutato dal direttore del carcere di Ventotene – perché, a suo avviso, gli antifascisti lì reclusi lo avrebbero sicuramente ucciso – approdò a Ponza. Proprio in quell’isola che lui aveva scelto per confinare tanti suoi nemici con la vana speranza di fiaccarne la volontà di lotta”.

Nave corvetta Persefone

Ma loro, gli abitanti, ancora non lo sanno chi è lui. Tranne Pietro Nenni (1891-1980) lì in confinio da due mesi, per essere stato arrestato dai nazisti nel febbraio del 1943 in Francia, estradato in Italia e deportato sull’isola di Ponza. Ne restituisce tutta la vitale malinconia politica, l’evocativa interpretazione di Mauro Toscanelli.

Nenni, osserva con il binocolo Mussolini dalla sua casa di Via Corso Umberto, dove si trovava in libertà vigilata. E così, annota sul suo diario: «Ora vedo col cannocchiale Mussolini: è anch’egli alla finestra, in maniche di camicia e si passa nervosamente il fazzoletto sulla fronte. Scherzi del destino! Trenta anni fa eravamo in carcere assieme, legati da un’amicizia che paresse sfidare le tempeste della vita […] Oggi eccoci entrambi confinati nella stessa isola: io per decisione sua, egli per decisione del re …”.

L’impianto scenico dello spettacolo allude – in sinergia con un suggestivo montaggio della drammaturgia della luce – a un incrocio di sguardi sui ricordi di questo frangente della passata guerra. Ed è così che lo sguardo di Nenni s’intreccia a quello di Mussolini e quest’ultimo a quello della popolazione locale.

Vediamo così che le donne dell’isola vanno in continuo pellegrinaggio all’altare della Madonna di Pompei: a lei chiedono chi è che ancora non vuole il sogno della pace, quello che “comm’a viento de lu mare vene pe’ te fa’ sunnare, tras’arinto e nun te lassa cchiù (quello che come il vento del mare viene per farti sognare, entra dentro e non ti lascia più).  

Quel vento, e quindi quel soffio, di cui si fa mirabile interprete il suono della fisarmonica, la cui musicalità fortemente aggregante è simbolo di bellezza nostalgica e duratura. Splendida la scelta della regista Mariella Pizziconi di fare del suono della fisarmonica uno dei protagonisti del suo spettacolo. Se ne fa appassionato interprete Alessandro Severa.

La regista Mariella Pizziconi – L’aiuto regia Serena Canali

Ma soprattutto le donne di Ponza chiedono alla Madonna del Rosario: “Quanno fernesce ‘a guerra?”.

La guerra  che sempre “bugiarda e ladra” si ruba un pezzo di cuore, portandosi via il bene più prezioso: la fantasia:

Guerra tu sì busciarda, sì mariola,
te sì arrubbato ‘nu piezz”e core,
te sì pigliata la fantasia,

Vediamo poi lo sguardo del Pietro Nenni di Mauro Toscanelli: uno sguardo che abita l’attesa di una progettualità futura, contrappuntandola al lirico ricordo della sua amata Carmen, la cui mancanza soffre struggentemente. Ma Nenni conosce il potere evocatore della parola e così torna costantemente a rievocarne la presenza, attraverso il vento del ricordo. Che gliela restituisce nella poesia di una velata immagine, resa vibrante dal suo cantare. Raffinatamente intensa l’incantevole presenza fantasmatica della Carmen di Simona Ciammaruconi.

Ponza – Palazzo Martinelli sede del fascio

Nell’orizzonte scrutato da Mussolini, invece, tutto tace. E non si dà pace nel constatare come i tedeschi non abbiamo saputo cogliere l’occasione di porre fine, ad esempio, al suo trasporto da Roma a Gaeta. 

Invaso da una rabbia che cela una forte umiliazione, è il Mussolini di Fabio Fantozzi: i suoi occhi e la sua prossemica urlano il crollo della sua presunta onnipotenza. Nei suoi frequenti contatti con il carabiniere che dimostra una particolare cura nei suoi confronti (un Fabrizio Nalli dal cortese sussiego), la sua prossemica invadentemente altera parla più di mille parole. Complice lo sguardo reverenziale del garbato carabiniere.

Il quale – pur di placare la sete di attenzioni di Mussolini – non solo chiede al quattordicenne proprietario di una radio a galena Giannino Conte (interpretato dalla giovanile passionalità di Flavio Nalli) di trascrivere le notizie del radiogiornale, ma si offre anche di andare a cercare aggiornamenti su Roma e sui tedeschi da Rusinella, la meretrice dell’isola.

Da lei “è passata mezza Italia”. Ma ora – in questo particolare frangente storico, in cui dalla “legge della serratura” si è passati alla “legge della maniglia” – le occasioni d’incontro si sono sensibilmente ridotte. Eppure, se qualcosa ancora si muove, è da Rusinella che finisce per propagare il suo moto. Tanto che ora è lei ad assurgere a “canale istituzionale ancora in funzione”. Ad interpretarla è un’elegantemente maliziosa Titti Cerrone che, con perspicace seduttività, sa come e quando far strategico uso dell’apertura della sua vestaglia.

Sarà sempre la cortesia del carabiniere a mettere poi in contatto Mussolini con un’altra donna dell’isola: una magnetica e pragmatica donna di servizio (interpretata dall’incandescente Marina Vitolo) che si prenderà cura anche dell’abitazione dell’ex Duce. Consapevole della sua femminilità creativamente fresca e decisa, la donna ha il dono di una capacità attrattiva, in grado di sviare intenti e distrazioni nei suoi riguardi. 

La spiaggia di Santa Maria e la casa-prigione di Mussolini

Mussolini non resterà immune al suo charme imperativo, finendo per apprezzare la sua solida intelligenza, non incline a perdersi dietro vane fantasie. Suo interesse è infatti attirare l’attenzione del Duce su come la guerra e il recente affondamento del ”vapore” stiano privando drammaticamente gli abitanti di Ponza di affetti e di cibo. La vita sull’isola è ormai alla paralisi. Non resta che ricostruire la pace.

Sarà “con lei” che Mussolini scriverà la lettera indirizzata al parroco di Ponza per chiedergli di celebrare una messa in occasione dell’anniversario della morte di suo figlio Bruno. Letterà che arriverà nelle mani della sua perpetua (qui interpretata efficacemente da Carla Carfagna) e di cui lei fornirà un’interpretazione letterale, sostenuta dal parroco D. Luigi Maria Dies e ancora oggi da studiosi di storia locale. Ma quella redatta dal Duce è davvero una lettera per richiedere una messa? Un interessante dubbio sul quale s’interroga acutamente la drammaturgia di Rita Bosso, ipotizzando che la lettera sia indirizzata ai tedeschi.

Ma è nel finale dello spettacolo che Mussolini – complice un accattivante colpo di scena – riceverà “in dono” qualcosa di inaspettato: una sconcertante denuncia degli effetti del suo operare, pronunciata da qualcuno di insospettabile.

E in questo poetico montaggio di sguardi politici, quello più graffiante si rivelerà proprio quest’ultimo sguardo: quello di chi solitamente non ha parola. Ma che più di tutti ha bisogno di vedere il sole: quello che viene “quanno fernesce ‘a guerra”. 

Ieri come oggi. 


Recensione di Sonia Remoli

IL BUCO DELL’ AUX (come farsi sentire quando nessuno ascolta) – scritto e diretto da Manuel Ficini, Erich Lopes, Edoardo Trotta

TEATRO COMETA OFF

16 e 17 Settembre 2025

“Che poi bastava chiamarla …”

“Che poi bastava il burro di arachidi …”

Ma perché ci risulta così difficile “collegarci” con noi stessi  dando voce a ciò che desideriamo!?

Quella intessuta dai tre talentuosi autori/attori Edoardo Trotta, Manuel Ficini, Erich Lopes – con la consulenza di Gabriele Di Luca – è una drammaturgia dove, in un sapiente gioco di cerchi concentrici, tutti cercano di evitare la forza di attrazione che li chiama ad entrare “in collegamento” con un fertile buco di buio: una fragilità dentro la quale però si nasconde sempre un’occasione da non sprecare.

Nello specifico: tre amici, apparentemente uniti dal sogno di aprire un buco, “il Buco dell’Aux”  ovvero un locale per dare voce a sfoghi artistici e non solo, sono in verità separati dai lacci dei propri problemi personali, nel buco oscuro dei quali non riescono ad accedere. 

C’è poi qualcuno, tra i tre amici, che protegge i piccoli invasori del loro locale dall’entrare nei buchi a loro destinati.  

E ancora: le stesse persone del pubblico, avventori del locale, seppur calorosamente invitate si trattengono dall’entrare nel buco di buio creativamente liberatorio che il locale mette loro a disposizione, per dare voce agli sfoghi di tutti coloro che lo desiderano. E che prima non avevano un posto per farlo. Ma poi alla fine qualcosa succede…

Perché superando quella maledetta paura, che sta a guardia dell’ingresso del buco del nostro disagio, si può riuscire a sentirsi “a casa”: cioè veri, autentici. Nel bene e nel male: con i nostri pregi e con le nostre fragilità. La differenza la fa l’uso che riusciamo a fare del nostro disagio: se è ricco in compassione, dal disagio inaspettatamente zampillano preziose occasioni creative, vitali.

E quindi la domanda che i tre autori Edoardo Trotta, Manuel Ficini e Erich Lopes si rivolgono e ci rivolgono è: visto che per tutti è difficile entrare “in collegamento” con noi stessi e quindi con i nostri desideri, cosa siamo disposti a fare per accendere, più che riempire, il nostro buco di buio?  

Una possibile soluzione potrebbe essere – come suggerito dallo sguardo registico dello spettacolo, la cui consulenza è di Silvio Peroni – quella di non focalizzarsi sul raggiungimento della perfezione della prestazione a tutti i costi, quanto piuttosto su quel sentirsi più liberi, regalato dalla fluidità balbuziente di un continuo “provare”. 

E dallo “stare” – senza avere troppa fretta ad uscirne – proprio in quel velo bianco, così cromaticamente pieno di colori e di contraddizioni, ben suggerito dai costumi di scena. 

Lo stesso spazio scenico è uno spazio in fieri, in costruzione e decostruzione: perché ogni sogno non è mai lineare. Perché ogni crescita è fatta anche di una ricerca sempre nuova di un’intimità, che non è facile condividere con gli altri senza rimanerne invasi.

In scena il ritmo è alto e non ci sono cedimenti, ma quello che più colpisce è il tempo musicale delle pause: profondi buchi di senso. Pause usate cioè per dare ritmo, espressività e respiro, ad un pensiero non esprimibile altrettanto efficacemente attraverso le parole.

Pause disegnate dalla drammaturgia delle luci – quali segni di interpunzione emotiva – che sanno andare oltre la semplice rappresentazione del silenzio, o dello scorrere del tempo. Per darsi invece come elementi attivi, capaci di creare attesa, enfasi, contrasto. Permettendo agli spettatori di riflettere e quindi di connettersi con quel particolare momento, fino ad apprezzarne il suono emozionale che produce. 

Perché anche un calibrato uso delle pause può dare voce, proprio come un aux.

Ben concertati tra loro Edoardo Trotta, Manuel Ficini e Erich Lopes: continuamente alla ricerca di una spontaneità che ciascuno sa declinare sulle proprie corde avvitandosi a quelle dell’altro, imbastiscono uno spettacolo che profuma di “romanzo di formazione”.

E che racconta con grande sensibilità la complessità delle dinamiche relazionali, la difficoltà nel comunicare, la precarietà, l’arrivismo untuoso e la voglia di riscatto. Con una particolare attenzione ai dialoghi – e ancor più a ciò che non viene detto – capace di creare momenti di realismo commovente e ironico. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL PICCOLO PRINCIPE IN ARTE … TOTO’ – scritto e diretto da Antonio Grosso –

TEATRO COMETA OFF, dal 19 al 24 Marzo 2024 –

Ha il fascino di un’evocazione lo spettacolo sul Principe della risata Totò, scritto e diretto da Antonio Grosso e interpretato da Antonio Grosso e Antonello Pascale, in scena ieri sera al Teatro Cometa Off.

E sprigiona tutta la magia di un ricordo intimo e sagace: quello argutamente sagomato – ed enfatizzato da un raffinato disegno delle luci curato da Giacomo Aziz – intorno alla delicata sinergia tra la vita privata e la carriera artistica de “Il Piccolo Principe in arte … Totò” .

Antonello Pascale e Antonio Grosso

L’uomo che per tutta la vita, nonostante la fama raggiunta, si sentì solo e abbandonato. Perché – come ebbe modo di scoprire il protagonista del capolavoro di Antoine de Saint-Exupéry – nella vita non ci si realizza con ciò che si arriva a possedere ma grazie alle relazioni che si riescono a intessere intorno a noi. 

Sicuramente luminoso e fertile fu il rapporto che Totò instaurò con Mario Castellani, la sua “spalla” storica, quella che lo accompagnò nel corso di tutta la carriera artistica, rimanendo in ombra pur rendendosi luce dei suoi occhi, quando nell’ultimo periodo della carriera quelli di Totò ne restarono privi. Qui nello spettacolo è interpretato da un efficacissimo e multiforme Antonello Pascale, che si cala anche in una miriade di ruoli relativi ai personaggi che costellarono la vita privata di Totò.

Antonio Grosso e Antonello Pascale

Ed è attraverso la poetica traduzione registica di un oscillare esistenziale tra fama e solitudine in un altalenare dei ricordi durante l’ultimo viaggio in nave da Palermo a Napoli (scene e costumi sono di Marco Maria Della Vecchia) che prende un’armoniosa forma circolare questo appassionato spettacolo.

Dove una sensibile perspicacia guida Antonio Grosso a non cadere nei meandri della tentazione ad imitare l’inimitabile talento di Totò. Ma a restituirne l’essenza più intima della sua anima. E quindi anche tutte le indispensabili contraddizioni.

Antonio Grosso

Vive nel suo volto del Totò di Antonio Grosso, nelle sue mani e nella totalità del suo corpo la preziosa traccia di quell’inafferrabile espressività iper fluida del guitto e insieme quella scattante della marionetta.

I ritmi della sua voce sanno come e quando passare dagli allungamenti propri di un’indole costituzionalmente pigra a quell’inappagabile urgenza di mitragliante velocità, così amata dai futuristi. Quell’esuberanza e quella creatività “fuori squadro”, quell’essere “regista di se stesso”, che rese così difficile l’attenzione nei suoi confronti da parte dei grandi registi di cinema e di teatro.

Antonello Pascale e Antonio Grosso

E poi la restituzione di quella particolarissima devozione verso il pubblico, quel bisogno di “servirlo” sul palco o sul set come in un ristorante: “comandi!”. Per meritarne l’amore. Per farlo restare. Laddove invece qualcuno una volta se ne andò: suo padre, che lo riconobbe solo molto dopo la sua nascita.

E’ la storia di un uomo “affamato“ non solo e non tanto di cibo, quanto di autentiche attenzioni. Il suo sguardo ce ne parlava – e qualcosa resta catturato anche in quello di Antonio Grosso: quegli occhi densi di malinconica serietà, anche nelle scene più esilaranti.

Antonello Pascale e Antonio Grosso

Uno spettacolo che sa restituire momenti di quella poetica secondo la quale “la miseria è il copione della vera comicità”. E che nasce dalla grande curiosità -figlia di una commossa sensibilità- verso le varie forme che può assumere la natura umana (come anche l’impianto scenico suggerisce con suggestiva poeticità).

Un teatro, quello di Grosso, che si conferma ancora una volta un bello stare, un bel riflettere, un bel ricordare.

Lo spettacolo resta in scena al Teatro Cometa Off fino a domenica 24 marzo p.v.

Antonello Pascale e Antonio Grosso


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ANNA CAPPELLI di Annibale Ruccello – regia di Renato Chiocca –

Con GIADA PRANDI

TEATRO COMETA OFF, dal 27 Febbraio al 3 Marzo 2024 –

E’ una bambola dal casco d’oro che non ama essere giudicata ma osservata in profondità, l’Anna Cappelli immaginata dalla sensibilità del regista Renato Chiocca e interpretata dall’intensa Giada Prandi

Una donna che pur non avendo potuto dare forma ad una sua identità, si apre fin troppo generosamente alla società in trasformazione del suo tempo (l’Italia degli anni ’60). E non avendo un suo sguardo critico a proteggerla, finisce per girare ossessivamente intorno ad alcuni pensieri fissi – come efficacemente sottolinea anche la drammaturgia musicale di Stefano Switala – fino a rimanerne vittima.

Un modo di essere donna ancora molto attuale.

Giada Prandi (Anna Cappelli) e Renato Chiocca, il regista dello spettacolo

Già in famiglia Anna non si sente riconosciuta nella sua personale identità e inizia ad essere gelosa ed invidiosa. Defraudata delle attenzioni che avrebbero dovuto essere dedicate appositamente a lei, fugge via dalla sua famiglia e dal suo paese. Ma la fuga da sola non risolve nulla, se non è supportata dalla spinta a mettere in campo nuove modalità di sperimentare se stessi.

La sua psiche, a cui allude suggestivamente l’allestimento scenico di Massimo Palumbo, ha confini delineati (dagli altri) ma risulta priva di pareti di spirito critico. E così Anna resta totalmente invasa dai condizionamenti che le arrivano dall’estero e per appagare la sua fame di attenzione – che le regala la sensazione di esistere davvero – tende ad assecondare troppo spesso le richieste degli altri. Il rischio che ne consegue è quello di restarne manipolata: fatta girare come una bambola e poi buttata giù. 

Consapevole delle evidenti difficoltà ad entrare in relazione con gli altri, Anna cerca di compensare la sua fame di appartenenza legandola almeno alle cose: “alla roba”, dalla quale non ci si deve aspettare un essere ricambiati.  Orientandosi così sempre più – figlia anche del tempo nel quale si trova immersa – verso il “possedere” piuttosto che verso “l’essere”.

L’obiettivo diventa a questo punto quello di farsi scegliere, per mettersi nelle mani di qualcuno che già possiede “cose”. Ma Anna, impossibilitata a condividere qualcosa con gli altri, farà in modo – nella sua mente – di epurare “le cose ereditate” dall’odore impuro di chi l’ha preceduta. Così da poter dire che sono “solo sue”.

Ma niente è per sempre. E così quando il Ragionier Tonino, il pollo dalle uova d’oro che lei “crede” di avere nelle sue mani, stanco di farla girare come una bambola la butterà giù, lei entrerà in un corto circuito emozionale che incendierà anche il senso dell’olfatto, nostro cervello ancestrale.  Così quell’accattivante odore per la carne, con il quale acutamente Annibale Ruccello apre questo stupefacente testo, finisce tragicamente per chiuderlo.

Con raffinata perspicacia il regista Chiocca individua nella sagace sensibilità multiforme di Giada Prandi l’interprete cui affidare questo lamento femminile di sublime bellezza. 

Focalizzando la sua attenzione sulle dinamiche mentali che danno forma alla natura umana, in particolare alla splendida complessità dell’animo femminile, Renato Chiocca fa di questo personaggio dalle forti tinte tragiche una creatura della quale non possiamo evitare di sentire la calda vicinanza. Soprattutto in questo periodo storico che stiamo attraversando, in cui il rischio alla sovraesposizione – in questo caso digitale – ci rende facilmente prede.

L’Anna Cappelli di Chiocca ci si dà, si mette nelle nostre mani – anche prossemicamente – per essere ascoltata nel profondo: al di là del giudizio, che impaziente vorrebbe chiudere lo sguardo e condannare. 

La drammaturgia delle luci di Gianluca Cappelletti (che sa come far penetrare fin dall’inizio l’ingresso delle ombre fino a materializzarle con chiara evidenza nella parte finale del dramma) unita all’estro carico di simbolismo che caratterizza la cura dei costumi di Anna Coluccia (che progressivamente spoglia Anna di ogni difesa ) accompagnano ed enfatizzano l’accurata ed avvincente profondità dell’interpretazione della Prandi. 

E’ lei infatti che ci porta con sé al di là del facile e banale perbenismo che ammanta il suo personaggio, permettendoci di intravedere fin da subito negli occhi di Anna guizzi di rabbia o di fosca capricciosità, che arrivano a farla letteralmente “friggere” d’insofferenza verso le forme di condivisione più elementari.

E’ lei che ci fa accedere al ventaglio di manifestazioni passive con cui si esprime il bisogno di Anna di essere accettata. Fino alla splendida restituzione di una solleticante seduttività, che lei crede di agire ma dalla quale in verità è solo agita. E della quale non riesce a tollerare l’incertezza.

E’ lei a veicolarci l’esigenza di Anna a “vincolare” , chiudendolo in un contratto, “l’acquisto” dell’altro per scacciare l’assillante spettro dell’ ”assenza”, del vuoto d’identità. Ecco allora che i suoi pensieri prendono la forma del delirio, dell’allucinazione, del sempre più forte distacco dalla realtà fino a perdersi totalmente una volta messa di fronte all’abbandono. Ancora un abbandono, di cui non si era accorta prima che prendesse forma compiuta.

Allora lo spettro dell’assenza prende corpo e spettrale diventa tutta quella che lei credeva una sua solida costruzione. Ma è una situazione inaccettabile. Occorre portare in salvo ciò che sta per andarsene e “l’unico” modo è trasformare un essere sensiente (che rifiuta di relazionarsi con lei) in “una cosa” . In qualcosa che non può opporsi alle sue aspettative.

Fino a scoprire però che non c’è “gusto”.

E il dubbio di non aver fatto la giusta scelta, la divora.


Annibale Ruccello aveva una particolare cura – che prese la forma di una vera e propria vocazione – verso il disagio antropologico che in ogni epoca accompagna alcuni gruppi della popolazione. 

Sua è l’inclinazione a farsi cantore della sensibilità degli inquieti e dei malinconici, tanto che la sua accoglienza esistenziale lo spinge a fare del teatro il luogo privilegiato dove riuscire a rivelare le ipocrisie, gli odi, le viltà della società nella quale i suoi personaggi si trovano immersi. 

Società la cui prima forma embrionale è la famiglia: luogo dove non sempre è facile trovare una generosa accoglienza. 

Ecco allora che lui amorevolmente restituisce identità, e quindi dignità, allo stare al mondo di questi esseri umani: ”personaggi, che difendono un sogno di purezza, nel buio spaventoso del tempo che li ingoia”, come mirabilmente li ha definiti il Prof. Matteo Palumbo nell’introduzione al volume “Annibale Ruccello e il teatro del secondo Novecento” a cura di Sabbatino Pasquale,  Edizioni Scientifiche italiane.


Annibale Ruccello

Recensione dello spettacolo COLLOQUIO NOTTURNO CON UN UOMO DISPREZZATO di Friedrich Dürrenmatt – regia di Alessio Pinto –

TEATRO COMETA OFF, dal 16 al 21 Maggio 2023 –

In un teatro per sole voci qual è il radiodramma, così ricco in personalità e in disinvoltura, si inserisce la scelta del regista Alessio Pinto di anteporre, a mo’ di prologo al testo originale, una prosa satirica incentrata sull’inclinazione, tutta umana, di rinunciare al diritto di difendere il proprio “gusto”: la più personale delle opinioni.

Il regista Alessio Pinto

Ma abbiamo ancora nerbo per sostenere la responsabilità di pensarla diversamente dai più?

Cosa si rischia ad avere delle proprie opinioni?

La risposta arriva dalle successive notizie di cronaca trasmesse alla radio, la stessa dalla quale prima era stato “proclamato” il pezzo di satira: tutte relative a morti o ad arresti di persone che hanno avuto il coraggio di non rinunciare al diritto di esprimere il proprio gusto. Le proprie scelte. 

Friedrich Dürrenmatt, autore del radiodramma “Colloquio notturno con un uomo disprezzato”

Con questa chiave interpretativa, cifra stilistica di Dürrenmatt per smascherare le meschinità nascoste dalla facciata perbenista della società, Alessio Pinto conduce lo spettatore in uno spazio elegantemente disordinato, abitato da una luce d’indeterminata attesa nella quale, con il favore delle tenebre, è immerso un uomo.

Un leggero refolo di vento annuncia l’insospettatamente goffo entrare in scena di colui che l’uomo stava aspettando. Il timore lascia il posto alla delusione: qualcosa va in frantumi.

Chissà perché il nostro nemico lo immaginiamo sempre nel massimo della prestanza. Ma poi sarà davvero un nemico? Di chi, abbiamo davvero timore? Che uso facciamo del prezioso indizio a fare attenzione (mica a lasciar perdere) offertoci dalla paura?

F. Dürrenmatt, « L’Ultime assemblée générale de l’établissement bancaire fédéral », 1966, huile sur toile, 72 x 60 cm, collection Centre Dürrenmatt Neuchâtel

Perché non leggiamo? Perché i libri sono letti laddove sono proibiti? Perché la cultura è pericolosa? A cosa siamo disposti a dare un prezzo, un valore ? E le cose, sono davvero come sembrano?

F. Dürrenmatt, Prometeo forma gli uomini, 1988, gouache, cm 99×70 
© Centre Dürrenmatt Neuchâtel/Confederazione Svizzera

Con la forza dissacratoria di questi fertili dubbi è intessuta la narrazione di Dürrenmatt che Alessio Pinto ha saputo rendere eloquente, integrandola anche con riferimenti extra-testuali, quali (per citarne solo uno) il Bergman de “Il settimo sigillo“. 

Una scena da “Il settimo sigillo” di Igmar Bergman (1957)

Un attento accordo tra spazio, luce e prossemica “disegna” l’importanza dialettica di due punti di vista, sottolineandone i confini ma rivelandone anche l’incontro. 

Una scena dello spettacolo “Colloquio notturno con un uomo disprezzato” di Alessio Pinto

I due attori in scena riescono con efficacia a “visualizzare” l’inconsistenza di certi “luoghi comuni”, di certi “ruoli” pre-confezionati.

Alessandro Giova (lo scrittore) emoziona nel rendere tutta la parabola psicologica del suo personaggio. Nel lasciarsi cioè trascinare dai continui “colpi di scena” a cui viene sottoposta quella che dovrebbe essere (ma non è) la sua “aperta” immaginazione di scrittore. 

Alessandro Giova, interprete dello scrittore

Antonio Conte (il “nemico”) ci disarma attraverso continui spiazzamenti: morfologici, etici, filosofici ed esistenziali.

Antonio Conte, il “nemico”

“Veste” una voce angelicamente tormentata che in alcuni momenti ricorda le presenze trascendenti de “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders. Come loro tiene insieme la leggera invisibilità dell’angelo e la necessaria pesantezza dell’uomo.

Antonio Conte e Alessandro Giova in una scena dello spettacolo

Uno spettacolo che capta l’attenzione dello spettatore sottoponendolo a continue montagne russe emotive. 


Recensione di Sonia Remoli