Recensione dello spettacolo STORIE DI PERSONE – di e con Ascanio Celestini

Terza edizione del Festival “Teatro delle Migrazioni”

dal 1° al 3 luglio 2024, presso il Nuovo Teatro Ateneo


NUOVO TEATRO ATENEO, 1 Luglio 2024

Storie di persone

Di e con Ascanio Celestini

e con, alla fisarmonica, Gianluca Casadei

produzione Fabbrica srl


In che modo si riconosce valore alla vita di un uomo o di una donna? 

Siamo sicuri di saperlo? Ma soprattutto, siamo sicuri di riuscire a farlo ? 

Perché il primo requisito per valorizzare la vita  di un essere umano è riconoscerne la “diversità”: riconoscere come speciale quel qualcosa che lo rende “diverso da noi” e dagli altri.

Ad  iniziare dal nome proprio, ovvero ciò che ci attribuisce quel primo riconoscimento d’identità, tale da poter essere considerati esistenti e quindi da poter essere ricordati. “Io sono Joseph, ricorda il mio nome” – insiste a sottolineare il protagonista della “prima storia” ( appartenente ad un progetto di ricerca sui migranti iniziato nel 2015 e composto da racconti raccolti sul campo) “cantata” da Ascanio Celestini,  accompagnato alla fisarmonica da Gianluca Casadei.

Particolarmente attento nel restituire non solo la testimonianza ma anche “lo stile  espressivo” proprio del racconto di Joseph, Ascanio Celestini  raccoglie e cesella la sua “storia” restituendoci le parole che Joseph ha cercato e trovato per dirlo, il suo rammarico.  

Un rammarico discreto, tanto da essere cortese. Ma intenso: pieno di stupore.

Ne scaturisce un commovente racconto dello stare al mondo di uomo dalla profonda disponibilità umana, che ha accettato di fare lavori per i quali non era richiesta nessuna competenza.  Come, ad esempio, il seppellitore di salme.

Ma siamo davvero sicuri che per svolgere questo lavoro non si richieda nessuna competenza?  Cura di Joseph – scopriremo – sarà infatti non solo quella di soddisfare l’efficienza dello scavare una fossa per poi richiuderla, ma anche quella di preparare ogni corpo appena morto ad attraversare l’ultimo viaggio – la discesa nella fossa – attraverso “un canto personalizzato” che completi quel che manca al suo desiderare. 

Un giorno gli capitò, ad esempio, una salma che non era stata onorata da un funerale. E lui allora gli “canta” tutto il percorso che la sua salma avrebbe fatto se davvero avesse ricevuto in dono un funerale. Inclusa la seduzione olfattiva di quelle siepi che si gonfiano di fiori di gelsomino, che avrebbe incontrato durante il tragitto.

Ma siccome – come recita un proverbio eritreo – “l’uccello che canta non costruisce il nido” è tempo per Joseph di mettersi in cammino con un suo compagno di viaggio. Le difficoltà non tardano a palesarsi – come la melodia densamente concitata “cantata” dalla fisarmonica di Gianluca Casadei sottolinea, quale drammatico contrappunto – ma loro non si arrendono.

Finché un giorno Joseph non arriverà a scoprire che in fondo al mare esiste un cielo di corpi morti che,  a differenza delle stelle in cielo, non brillano di luce perché non hanno un nome, né qualcuno che li canti. Nessuno che senta l’esigenza di ricavare nella terra il loro ultimo nido; nessuno che li metta a letto sotto una morbida coltre, per l’ultimo sogno. Nessuno che ne canti  il valore.

Ma  quanto costa, e quindi, quanto vale una vita umana ?   Forse per avvicinarsi ad una risposta occorre chiedersi prima di cosa è fatta la specificità di ogni vita: cosa c’è dentro, al suo interno. 

Un po’ come l’interno così misterioso di quegli scatoloni di cui ci parla la seconda storia: quella della cieca inaccettabilità della diversità di Giovanni.

Giovanni è diverso ma non come uno zingaro: no, lui è “uno stanziale” non ruba, va a scuola ed  è educato. “Cammina sulle righe” benissimo, infatti.  

Ma ha qualcosa di diverso dentro, qualcosa di incomprensibile. E tale deve rimanere: come si  fa con gli scatoloni che tutto il giorno suo padre sposta ma di cui è tabù chiedersi che cosa contengano, pena la perdita del lavoro.  

E Giovanni, a forza di essere spostato come un pacco dal contenuto da ignorare, non ce la fa.  E la responsabilità tende a voler ricadere su uno dei tanto odiati zingari. L’odio infatti aiuta a vincere la paura, propria di chi si considera “puro”, del presunto “impuro”.  E ci riesce proiettando “la propria impurità” sull’altro. 

Così l’inciviltà dell’ignoranza fa del “non sapere” una pretesa di verità: un pregiudizio.

Ascanio Celestini, accompagnato dalla fisarmonica di Gianluca Casadei, c’incanta. E’ una mirabile capacità narrativa, la sua, che riesce a farci arrivare – quasi con ingenua soavità – la ferocia di cui siamo capaci noi “stanziali”. Il suo è un rito magico che pone l’accento sulla parola, prima magia dell’uomo.

Ecco allora il prendere forma, sul campo, di una raccolta di “storie” preziose, proprio perché diverse.  Storie che ci consegnano la possibilità di  custodire una memoria e di apprendere da ciò che i nostri simili hanno fatto in passato. 

Perché migrare, soprattutto in gruppo, è una vitale esigenza comunicativa per cercare un luogo migliore in cui vivere. Sempre più spesso guerre, depressioni economiche, cataclismi spezzano il legame sociale con la propria terra d’origine, imponendo la terribile fuga verso un posto dove sopravvivere in serenità non sia impossibile.

Perché la storia, così come ogni storia, non è un sistema che procede accumulando progressivamente quote di verità sempre maggiori. E’ un percorso discontinuo, costellato di fratture e di momenti rivoluzionari, in cui nuovi sguardi soppiantano i vecchi.

Perché la storia, così come ogni storia,  chiede di essere riletta e riascoltata sempre, continuamente.

Perché la storia, così come ogni storia, non si lascia confinare in una ricostruzione ordinata ma ci si dà in maniera sempre nuova nel presente. Ci versa nell’orecchio il suo eco, in attesa di integrazione.

Perché raccontare storie è la cifra più importante della  nostra specie. 

Ascanio Celestini


Recensione di Sonia Remoli

Incontro con TONI SERVILLO e FERRUCCIO MAROTTI su Eduardo: ultima lezione, ultimo spettacolo. Il punto di arrivo il punto di partenza

TEATRO ATENEO, 12 Dicembre 2023 –

Ieri, in un tiepido pomeriggio del dicembre romano, il Teatro Ateneo della Sapienza Università di Roma si è animato di uno speciale fervore per l’attesa della testimonianza di Toni Servillo sull’ultima lezione e l’ultimo spettacolo di Eduardo De Filippo: Il punto d’arrivo, il punto di partenza. Momenti indimenticabili della storia e della pedagogia del teatro, conservati con sacro rispetto grazie a un docufilm di Ferruccio Marotti.

Il Teatro Ateneo


Considerato l’erede spirituale di Eduardo, Servillo proprio qui al Teatro Ateneo portò in scena “Sabato, Domenica e Lunedì” e “Le voci di dentro”. E il suo lavoro convinse così  profondamente la vedova di Eduardo – invitata dall’acuto Ferruccio Mariotti che aveva avuto sentore di qualcosa di prodigioso – da concedere eccezionalmente i diritti dello spettacolo. 

Toni Servillo e Anna Bonaiuto in “Sabato, domenica e lunedì” di Toni Servillo


È ancora la cura appassionata di Ferruccio Marotti a fornire una contestualizzazione-rievocazione del docufilm rivelandoci l’occasione che ospitò l’ultima lezione e l’ultima esibizione di Eduardo: una residenza estiva del 1983 a Castel del Bosco, nei pressi di Montopoli in Val d’Arno, aperta agli studenti di tutte le università italiane.

Ferruccio Marotti

In quell’evento fu proprio Marotti a chiedere ad Eduardo De Filippo una sua illustrazione del legame tra tradizione e innovazione. Eduardo, così lieto della richiesta, vi aggiunse anche una dimostrazione pratica. E quindi oltre ad esporre e a commentare con raffinato carisma la sua “poetica del punto di arrivo e del punto di partenza”, ne diede anche un saggio: regalando una versione specialissima della celeberrima “scena del caffè”  contenuta in “Questi fantasmi” (1946).

Eduardo nella scena del caffè in “Questi fantasmi !” (1946)

Scena che solitamente si realizza nell’arco di  4 minuti ma che in questa occasione raggiunge un livello di “lievitazione” tale  da raggiungere il compimento nell’arco di ben 11 minuti. La sua partecipazione fu talmente coinvolta e coinvolgente che per la prima volta Eduardo perse il controllo. E si emozionò. A tal punto che il pace-maker che portava, mandò in tilt per un momento il radio-microfono.

Toni Servillo


Da qui, il racconto della tradizione viene portato avanti attraverso la travolgente narrazione del suo devoto interprete Toni Servillo. Per lui il Maestro è un modello non solo di professionalità ma soprattutto di un particolar modo di stare al mondo. Un maestro pedagogo. Un’epifania che Servillo visse fin da piccolissimo quando s’incantava davanti al televisore guardando le opere di Eduardo: quell’universo umano che vedeva in scena era lo stesso che aveva in casa.

Una tensione pedagogica densamente riscontrabile anche nel docufilm “messo in salvo” dalla pregevole attenzione di Ferruccio  Marotti e molto vicina a quella da cui era abitato anche Louis Jouvet che gravitava, soprattutto dal 1934 al 1951, su un teatro omonimo: il Teatro Athénée di Parigi.

Entrambi nelle loro “poetiche” sono avvicinati da un certo sentire pedagogico fondato sul fare teatro rapiti dal “sentimento”:  una capacità di saper guardare “con l’anima nell’ora” . Spendendosi.  E poi, sedotti dalla “complessità”, abili a trovare “le parole” e il “modo” per dirla.  Per “trascriverla”.

In un avanzare tormentato, guidato da una continuità che non esclude la discontinuità. Dove ci può  essere un “tac, tic” perché proviene da una conoscenza profonda del “tic, tac”. E chi non lo fa “è un ladro”.

Ferruccio Marotti e Toni Servillo

Perché per Eduardo la morte (di un maestro) costituisce un punto di partenza (per gli allievi). È questa l’immortalità che ci è concessa. Unitamente alla capacità di “sognare”.

Perché “la vita che continua è la tradizione”.

Eduardo De Filippo

Un’eredità raccolta e portata avanti anche dallo stesso Teatro Ateneo: un prezioso avamposto sulla realtà e sulla tradizione. Perché questo è il Teatro: “uno sguardo prismatico sulla vita”.

Con grande successo giunge al termine così al Nuovo Teatro Ateneo la seconda edizione della rassegna – “L’attore e il performer: tradizione e ricerca. Memorie teatrali di fine millennio dall’Archivio Storico Audiovisivo del Centro Teatro Ateneo – Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo – Sapienza Università di Roma. 

Una serie di eventi per recuperare, valorizzare e far conoscere il patrimonio dell’Archivio, guidato dalla direzione artistica di Ferruccio Marotti e dal coordinamento di Stefano Locatelli 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del docufilm ROBERTO BENIGNI – Il comico come invenzione –

TEATRO ATENEO, 20 Novembre 2023 –

In un seminario del 1985 al Teatro Ateneo Ferruccio Marotti chiede ad un giovane Roberto Benigni da che cosa si origina, a suo avviso, l’effetto “comico”.

Benigni risponde che non si può dire. Ci si arriva improvvisando e andando avanti per un percorso che man mano diventa una rete di percorsi. Finché ad un certo punto, inaspettatamente, si manifesta l’aggancio comico. È una sorta di epifania misteriosa che non appena appare è così irresistibile che per mantenerla vitale, permettendole quindi di rimanifestarsi sotto altra forma, si deve cambiare percorso, voltando lo sguardo inventivo in un’altra direzione. In attesa che nel corso della narrazione improvvisata si manifesti di nuovo qualcosa capace di provocare, in una rete di incroci semantici, l’effetto comico sullo spettatore.

E anche per chi ascolta accade qualcosa di misteriosamente simile. È qualcosa che rapisce e fa ridere perché sfugge proprio mentre lo si sta raggiungendo. Qualcosa che lascia a bocca asciutta ma paradossalmente felici. Felici di essere arrivati prossimi a qualcosa di “divino”.

Platone diceva che s’impara solo per seduzione. E probabilmente si ride per qualcosa di simile. Perché “il comico non guarda come un cronista, ma vede come un poeta”. È uno sguardo, il suo, attento a sottrarre per poter creare: “ciò che nessuno ci toglie, nessuno ci può dare”.

Roberto Benigni confessa poi di essere profondamente innamorato della “parola” e del mistero che la circonda: ama giocarci, creando incroci, anagrammi. Il suo profondo desiderio di ricerca semantica per certi versi rimanda al “viz” ebraico.

Ma non è il suo il piacere del gestire una sorta di “potere”. Tutt’altro è il piacere di essere avvolto dal mistero: di presentarsi al suo cospetto disarmato lasciandosi guidare da un gioco sulle parole che non è lui a condurre ma nel quale è condotto. Divinamente.

Un gioco che diventa uno stile di vita, che lo porta a chiedersi quotidianamente: “Chissà che cosa farò !?”. 


Gli appuntamenti al Teatro Ateneo con la seconda edizione della rassegna  “L’attore e il performer: tradizione e ricerca. Memorie teatrali di fine millennio” dall’Archivio Storico Audiovisivo del Centro Teatro Ateneo Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo Sapienza Università di Roma proseguono con il seguente calendario:

Il 4 dicembre alle 17.00

DARIO FO – AUTOBIOGRAFIA DI UN FABULATORE, introdotto da Paolo Rossi con Ferruccio Marotti, una videosintesi delle lezioni che Dario Fo tenne al Teatro Ateneo, succedendo a Eduardo dopo la sua morte come docente di Drammaturgia, nel corso di tre anni.

Il 12 dicembre alle 17.00

a conclusione del ciclo Toni Servillo, insieme con Ferruccio Marotti, introdurrà

EDUARDO RACCONTA EDUARDO: UN’AUTOBIOGRAFIA QUASI SEGRETA DI EDUARDO DE FILIPPO, una videosintesi dei momenti in cui Eduardo, negli anni trascorsi alla Sapienza, ha raccontato di sé e della sua vita, accompagnati da alcuni dei brani più famosi delle sue opere, con cui avranno inizio le celebrazioni dei quarant’anni della morte del grande autore e attore, che al Teatro Ateneo ha lavorato, gli ultimi quattro anni della sua vita, al sogno utopico di creare una bottega di teatro, volta a proiettare la tradizione del teatro verso il futuro.


Ferruccio Marotti

Dopo la prima edizione – nata nel 2022 – che ha visto restaurati e digitalizzati oltre mille video che documentano l’attività del Centro Teatro Ateneo – centro d’eccellenza di ricerca sull’attore dell’Università di Roma “La Sapienza”, diretto da Ferruccio Marotti, il progetto prosegue grazie al sostegno del Ministero della Cultura. 

L’obiettivo è quello di far conoscere il patrimonio conservato presso l’Archivio, che fa ora capo al Dipartimento SARAS (Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo) della Sapienza Università di Roma. Il progetto dal 2022 ha riscosso una grande attenzione di pubblico e ricevuto adesioni e richieste di collaborazione che permettono oggi di dare un ulteriore risonanza alle attività, valorizzando il prezioso materiale conservato nell’archivio della Sapienza. Ad ospitare gli eventi saranno il Teatro di Roma, lo Stabile di Napoli e naturalmente il Teatro Ateneo, dove si svolsero quarant’anni or sono le attività conservate nell’archivio. Nel 2024 poi i maggiori laboratori verranno trasmessi da Rai Cultura e diffusi sul web.