16 e 17 Settembre 2025

“Che poi bastava chiamarla …”
“Che poi bastava il burro di arachidi …”
Ma perché ci risulta così difficile “collegarci” con noi stessi dando voce a ciò che desideriamo!?
Quella intessuta dai tre talentuosi autori/attori Edoardo Trotta, Manuel Ficini, Erich Lopes – con la consulenza di Gabriele Di Luca – è una drammaturgia dove, in un sapiente gioco di cerchi concentrici, tutti cercano di evitare la forza di attrazione che li chiama ad entrare “in collegamento” con un fertile buco di buio: una fragilità dentro la quale però si nasconde sempre un’occasione da non sprecare.
Nello specifico: tre amici, apparentemente uniti dal sogno di aprire un buco, “il Buco dell’Aux” ovvero un locale per dare voce a sfoghi artistici e non solo, sono in verità separati dai lacci dei propri problemi personali, nel buco oscuro dei quali non riescono ad accedere.
C’è poi qualcuno, tra i tre amici, che protegge i piccoli invasori del loro locale dall’entrare nei buchi a loro destinati.
E ancora: le stesse persone del pubblico, avventori del locale, seppur calorosamente invitate si trattengono dall’entrare nel buco di buio creativamente liberatorio che il locale mette loro a disposizione, per dare voce agli sfoghi di tutti coloro che lo desiderano. E che prima non avevano un posto per farlo. Ma poi alla fine qualcosa succede…

Perché superando quella maledetta paura, che sta a guardia dell’ingresso del buco del nostro disagio, si può riuscire a sentirsi “a casa”: cioè veri, autentici. Nel bene e nel male: con i nostri pregi e con le nostre fragilità. La differenza la fa l’uso che riusciamo a fare del nostro disagio: se è ricco in compassione, dal disagio inaspettatamente zampillano preziose occasioni creative, vitali.
E quindi la domanda che i tre autori Edoardo Trotta, Manuel Ficini e Erich Lopes si rivolgono e ci rivolgono è: visto che per tutti è difficile entrare “in collegamento” con noi stessi e quindi con i nostri desideri, cosa siamo disposti a fare per accendere, più che riempire, il nostro buco di buio?
Una possibile soluzione potrebbe essere – come suggerito dallo sguardo registico dello spettacolo, la cui consulenza è di Silvio Peroni – quella di non focalizzarsi sul raggiungimento della perfezione della prestazione a tutti i costi, quanto piuttosto su quel sentirsi più liberi, regalato dalla fluidità balbuziente di un continuo “provare”.
E dallo “stare” – senza avere troppa fretta ad uscirne – proprio in quel velo bianco, così cromaticamente pieno di colori e di contraddizioni, ben suggerito dai costumi di scena.

Lo stesso spazio scenico è uno spazio in fieri, in costruzione e decostruzione: perché ogni sogno non è mai lineare. Perché ogni crescita è fatta anche di una ricerca sempre nuova di un’intimità, che non è facile condividere con gli altri senza rimanerne invasi.

In scena il ritmo è alto e non ci sono cedimenti, ma quello che più colpisce è il tempo musicale delle pause: profondi buchi di senso. Pause usate cioè per dare ritmo, espressività e respiro, ad un pensiero non esprimibile altrettanto efficacemente attraverso le parole.
Pause disegnate dalla drammaturgia delle luci – quali segni di interpunzione emotiva – che sanno andare oltre la semplice rappresentazione del silenzio, o dello scorrere del tempo. Per darsi invece come elementi attivi, capaci di creare attesa, enfasi, contrasto. Permettendo agli spettatori di riflettere e quindi di connettersi con quel particolare momento, fino ad apprezzarne il suono emozionale che produce.
Perché anche un calibrato uso delle pause può dare voce, proprio come un aux.
Ben concertati tra loro Edoardo Trotta, Manuel Ficini e Erich Lopes: continuamente alla ricerca di una spontaneità che ciascuno sa declinare sulle proprie corde avvitandosi a quelle dell’altro, imbastiscono uno spettacolo che profuma di “romanzo di formazione”.
E che racconta con grande sensibilità la complessità delle dinamiche relazionali, la difficoltà nel comunicare, la precarietà, l’arrivismo untuoso e la voglia di riscatto. Con una particolare attenzione ai dialoghi – e ancor più a ciò che non viene detto – capace di creare momenti di realismo commovente e ironico.
Recensione di Sonia Remoli
