Recensione a L’ANALFABETA – Fanny & Alexander – Federica Fracassi

TEATRO VASCELLO

18 e 19 Ottobre 2025

C’è un confine. Ma non ci separa davvero. E’ uno specchio.


Difronte a questo specchio la luce permette di vedersi riflessi. Ma quando si scende nel buio, in quello stesso specchio vediamo l’altro da noi. 

E’ uno specchio che ci parla della possibilità di entrare in relazione con noi stessi: esperienza che ci avvicina e ci allontana. Da noi stessi e dall’altro. 

Proprio come fa un confine: luogo che permette di separarci, di individuarci, ma anche di incontrarci con l’altro. Perché ogni confine è anche una soglia. E’ anche uno specchio. 



Splendido questo primo approccio alla scrittura di Ágota Kristóf – su traduzione e adattamento di Chiara Lagani – offerto agli spettatori dall’allestimento scenico di Luigi Noah De Angelis (fondatore assieme alla Lagani della Bottega d’arte Fanny&Alexander).

Di De Angelis qui è la cura della regia, delle scene, delle luci, dei video: elementi di una sinfonia drammaturgica declinata – proprio come la scrittura della Kristóf – attorno al sentire del celarsi, pur desiderando attirare l’attenzione dell’altro. Pur desiderando che l’altro si faccia prossimo e che veda “in primo piano” ciò che si tende ad allontanare.


Quella che intravediamo nel buio è infatti una Kristóf che ci si dà “di spalle”, intenta al suo tavolo da lavoro. E’ interpretata da una stupefacente Federica Fracassi, che la drammaturgia delle luci di De Angelis ci restituisce dapprima in un’ inquietante bidimensionalità fantasmatica ma che poi, man mano che il nostro sguardo le si avvicina, si dà in forma e sostanza. Pur continuando a celarsi all’incontro con il nostro sguardo.


Entrati ormai nello specchio, accade che sul confine con questa scena un’altra se ne dischiuda, svelandoci le mani della Kristóf al lavoro. E’ qualcosa di più di una tecnica di meccanica di precisione, la sua. Così come l’incessante sottofondo sonoro, non è solo il rilascio dell’energia accumulata e trasferita nel treno del tempo. 

(ph. Masiar Pasquali)



È una nuova forma di conoscenza. E’ l’iniziale recupero di un’originaria forma linguistica: una lingua fatta di parole, di corpi e di tatto. Una lingua che permette alla Kristóf di nascere una seconda volta, essendo proprio qui, nell’ habitat della fabbrica, raggiunta da una nuova modalità di conoscenza, da una nuova modalità d’apprendere. Se stessa e gli altri.

“E’ diventando assolutamente niente che si può diventare uno scrittore” – la Kristóf farà dire a Tobias, protagonista del suo “Ieri”. Occorre, come è accaduto anche a lei, perdere tutto per poter sentire il bisogno urgente di far scaricare la molla, che “la corona“ del proprio vissuto ha avvolto su se stessa, serratamente. 

(ph. Masiar Pasquali)


E così, ormai definitivamente esiliata dalla sua lingua madre, sarà lasciando che le sue mani vengano guidate da un nuovo sentire, fatto di cura verso i corpi dei componenti degli orologi, che la Kristóf inizierà ad imparare a “scrivere” il suo tempo.

Già a partire dal momento in cui, provando e riprovando a contarlo, inizierà col misurarlo in francese.
Ma anche quando la stessa ripetitività di questa lingua meccanicamente tattile darà asilo alle eleganti figure retoriche del suo sentire. Ad esempio, a quella dell’anafora, che racconta così bene la Kristóf :

Sono svanite le corse a piedi nudi per il bosco sulla terra umida fino alla ‘roccia blu’; svaniti gli alberi su cui arrampicarsi, da cui cadere quando un ramo marcio si rompe; svanito anche Yano che mi aiuta a rialzarmi; svanite le passeggiate notturne sui tetti; svanito Tila che va a fare la spia alla mamma” (da “L’analfabeta”).

E’ attraverso la complice visualizzazione delle “proiezioni” simboliche della Kristòf – artisticamente realizzata da Luigi Noah De Angelis – che lo spettatore ricontatta lo sguardo più intimamente autentico della Kristòf su se stessa. Dove, proprio come le lancette di un orologio, il duplice ruotare delle posture del suo corpo, segna le progressive torsioni della sua apertura emotiva ad entrare in relazione con l’altro da se. 

A questo nuovo approccio auto-conoscitivo, la Kristòf avrà occasione di associare anche un libero uso di un altro tipo di corpo, quello umano: il quadrante del volto quale quadrante dell’orologio. Saranno le sue colleghe di lavoro infatti che, attraverso il proprio indice, le in-segneranno il nome francese di ciascuna parte del proprio volto.

Ed è così che quel rumore continuo delle macchine in fabbrica, che toglie voce alla parola, permette però lo scaturire di un’altra lingua: una lingua mescolata al corpo. 

Di profonda bellezza poetica è la scelta di sagomare l’attenzione dello spettacolo su questa meravigliosa lingua della cura e della tattilità, capace di riattivare in Kristòf un dialogo con se stessa. E quindi con la lingua originaria: quella che Jacques Lacan chiama “lalangue”. Una lingua che non esce fuori dal corpo ma che si mescola al corpo. Una lingua depositata nell’inconscio, che precede quella alfabetica e prima ancora quella del lessico familiare.

Sua, della Kristòf, è infatti una particolare difficoltà – dovuta ai traumi della sua vita – ad entrare “in relazione” con l’altro: dentro e fuori di sé. La dimensione del “due” per lei, anziché sinonimo di relazione, è piuttosto terrore della sopraffazione: l’altro è un nemico da cui difendersi, perché intenzionato ad uccidere. E questo stesso atteggiamento l’accompagna anche nell’apprendimento emotivo di una seconda lingua:

“Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l’aiuto di un dizionario da consultare di frequente. È per questa ragione che definisco anche la lingua francese una lingua nemica. Ma ce n’è un’altra di ragione, ed è la più grave: questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna” (da L’analfabeta). 

“E’ nella lingua, che si deposita tutto ciò che è familiare – spiega Hans Georg Gadamer – gli usi, i costumi, il nostro mondo abituale, risuonano tutti dai suoni del nostro mondo linguistico. E’ lì che ci sentiamo a casa. Ed è la distanza da questo mondo che ci fa sentire esiliati”. 

Ed è affascinante come questo spettacolo, fin dall’inizio, ci immerga in sonorità che solleticano nello spettatore la suggestione dell’essere in presenza di un diverso habitat, di un diverso mondo emotivo (la cura del sound design è di Damiano Meacci). Un po’ come se la pratica di creazione performativa dell’eterodirezione, da tempo sperimentata con successo dalla bottega d’arte Fanny & Alexander sugli interpreti, fosse sperimentata indirettamente anche sullo spettatore. Portato così ad abbandonarsi, in un invito all’affido, al suono che gli viene versato nelle orecchie, per viversi intimamente lo spettacolo.

(ph. Masiar Pasquali)

“Se l’incapacità di parlare è l’esilio da cui tutti veniamo, vivere significa trovare asilo in una lingua tentando di rendere abitabile la sua estraneità”. Ciò può avvenire nel dialogo – o per dirla con Gadamer  “con quel lento risvegliarsi dello scambio di sguardi, in quel primo tastare, in quel primo balbettare suoni somiglianti alla lingua e infine nelle prime parole». Ed è quello che accade alla Kristòf nell’habitat fascinoso della fabbrica di orologi, occasione per scendere a guardare e a toccare gli ingranaggi del suo vissuto.

Àgota Kristòf (1935 – 2011)

Ne deriverà una scrittura scarnita, eppure essenzialmente preziosa, cifra del suo stile. Assieme ad una modalità d’intesa con il lettore/spettatore cruda, eppure erotica: quella del tenersi vicina nella distanza. Una modalità, dal sapore dell’ossimoro, che ricorda una sorta di imprinting paterno, rintracciabile quando lei racconta che completamento delle punizioni materne era il doversi recare dal padre, che l’accoglieva dicendole di avvicinarsi per poi ordinarle di sedersi lontana.

Sarà questa scrittura a poter dare asilo ai personaggi delle sue opere. E della sua vita, che qui Federica Fracassi incarna con irresistibile inquietudine.

Sarà questa scrittura a riportarla in contatto con il ruggito del suo sé interiore, fino ad avvicinarla consapevolmente alla propria autostima.

Sarà questa scrittura a suggellare la sua sfida: la sfida di un’analfabeta.

Un’incredibile Federica Fracassi mirabilmente restituisce quell’inclinazione vitale della Kristòf, dove la pesantezza di tutto il dolore accumulato s’incontra con la leggerezza di un’ostinazione di infantile stupore. Lei, narratrice di (sue) storie, che espone con la lucidità con cui si spiegherebbero le regole di un gioco. Un gioco serio: tremendo e ammaliante. Così com’è la vita.

Dove si vince tutte le volte che “si scrive un libro”, ovvero tutte le volte in cui si decide di entrare nel buio dello specchio. Nel buio del relazionarsi con se stessi. Come Àgota Kristòf invita a fare in questo libro. E non solo in questo.

“Ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient’altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia” ( da “Trilogia della citta di K” ).

Damiano Meacci, Chiara Lagani, Luigi Noah De Angelis, Federica Fracassi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione iGIRL – performer e regia Federica Rosellini

ROMAEUROPA FESTIVAL 2025

Mattatoio

8 e 9 Ottobre 2025

E’ tra noi.

Ci aspetta.

Non è sola: ha eletto a compagna di viaggio, come un transumante, un animale.

Una gallina.

Animale che i Greci consideravano sacro e associavano alla dea della saggezza. Le galline cercano nutrimento sotto terra e questo, simbolicamente, allude ad una ricerca della verità non in superficie. La gallina poi è un animale che sa relazionarsi, sa vivere in gruppo e in quanto tale è capace di sostegno e collaborazione. 

(ph. Piero Tauro)

Lei (una straordinaria Federica Rosellini) è invece una creatura transumante, che si lascia abitare da diverse identità. Una creatura dal sentore di sacro e di innocenza.

Insieme alla sua compagna di viaggio ci aspetta per partire alla volta di un misterioso viaggio. Un viaggio che inizia annunciandosi ai nostri occhi attraverso la prospettiva di lande immense, ricoperte di neve. Strade ghiacciate e spezzate in lastre, che trovano una prosecuzione anche sul palco, fino in platea. Gli avvincenti video, sospesi tra pathos e distanza emotiva, sono di Rä Di Martino.

Un mondo candido. Innocente. Sembrerebbe.

Ma “che cos’è la felicità – ci chiede voltandosi da un lato – ma voi avete amato? E’ stato doloroso?”.

Inizia lei a raccontare: in un tempo scandito per numeri che si dilatano in quadri, è lei che si dà cura di cucire frammenti di ricordi, di riflessioni intime e universali, di testimonianze mitologiche.

Frammenti che sono affiorati dal sottosuolo sulla pelle candida del suo corpo: in forma di tatuaggi e graffiti. 

(ph. Andrea Macchia)

Il darsi di ogni quadro temporale è possibile attraverso l’inquadratura – e quindi il fare luce, il dedicare attenzione e il volgere lo sguardo – su un frammento che affiora sul suo derma. 

E poi canta, si campiona e lascia che si sovrappongano più tracce: perché questo, noi umani, siamo. Delle stratificazioni. Degli enigmi che credono di potersi muovere liberamente. Ma sotto alla terra, sotto alla sabbia, che crediamo di calpestare e conquistare liberamente, si cela uno scacchiere di enigmi. E di atrocità.

(ph. Piero Tauro)

Siamo quindi il risultato anche della testarda Antigone: donna dalla lingua e dalla capacità argomentativa di un uomo. E così innamorata del “mondo di sotto”. 


Siamo fatti anche di suo padre Edipo, che ha sofferto la peggiore delle ferite: l’abbandono di una madre attesa ma che non arrivava mai. “Se sopravvivo a questo dolore, distruggo tutto” – pensava mentre un chiodo d’argento gli bloccava i piedi: solo, sul Monte Citerone, all’addiaccio. Il problema dell’abbandono è che non ha una cittadinanza: è una ferita assoluta che niente potrà chiudere. Siamo gli aborti di Dio. E, allora, ho contaminato tutti quelli che potevo contaminare”.
Ma forse non si tratta solo di contaminazione: forse è “la macchia, quella che seguiamo”. E non un ideale di pulizia. 

(ph. Rä Di Martino)

Siamo fatti di Giocasta: “che lo sapeva e non lo sapeva che quello era suo figlio … era come una melma … era tutto così contorto”.

Siamo fatti di Giovanna d’Arco: così attratta dalle ali degli angeli e dai cespugli di lavanda, dove sapeva che li avrebbe trovati.

Ma noi, invece, ci riteniamo uomini sapienti e ci raccontiamo altre storie: ci piace consolarci con la logica. 

E, invece, “torneremo mai così innocenti come i transumanti, che viaggiavano insieme agli animali?”. 
Loro, strati del nostro sé interno ed esterno. “Abbiamo il loro sangue, abbiamo fatto sesso con tutti quelli che avevano pelle e polmoni”. Ma diciamo di credere nel bene separato dal male. E di essere una versione distante dall’uomo di Neanderthal.

In verità, siamo preda dell’incertezza.

E cosa aiuta ad attraversare tempi di incertezza? Quando quello su cui sedevi trema e minaccia di andare in pezzi?
Di cosa nutrirsi in quegli attimi, in quei mesi, in quegli anni?
E cosa invece si può lasciare andare?

La condizione di incertezza in cui siamo ontologicamente immersi e che arriva a sommergerci in alcuni frangenti vitali, come ad esempio e’ successo nella scorsa pandemia – occasione di questa scrittura tremendamente seducente di Marina Carr – interroga e mette alla prova la qualità del nostro orientarci e del nostro saper trovare sempre nuovi equilibri esistenziali.

Marina Carr

L’incertezza infatti – se si riesce a sconfinare al di là di quel senso di confuso vuoto da eliminare assolutamente – si offre come terreno fertile per l’emergere di un desiderio autentico. Inconscio. Che si dà attraverso un’ “opacità” che resiste alla spiegazione razionale, ma che paradossalmente ci permette di trovare soluzioni proprio in questo non-sapere razionale. Di cui dobbiamo imparare a fidarci.

Come è accaduto qui a Marina Carr: nel riuscire ad attraversare la disperata incertezza dei tempi della pandemia, la drammaturga irlandese ci confida che ha sentito emergere in lei il desiderio, il richiamo, a ricollegarsi alla natura, al suo misterioso contatto. Perché “il mondo diventa ostile quando non si ha più un posto a tavola, intorno al fuoco della caverna”.

Lascia così emergere dal sottosuolo emotivo della sua incertezza, frammenti personali ed arcaici: un manto di risorse immateriali che ha cucito insieme, proprio in quanto frammenti. E – sprofondando in questo mondo fantasmatico, denso e misterioso, fatto di figure polimorfe e liminari – questi frammenti li ha tessuti in una tela misteriosa e caleidoscopica. Una tela in 21 quadri, che attraversa il tempo, per sconfinare in luoghi insondati e misteriosi. Opachi, appunto.

(ph. Andrea Macchia)

Federica Rosellini si lascia contattare intimamente da quella creatura indefinibilmente ferina narrata da Marina Carr, testo la cui traduzione è curata da Monica Capuani e da Valentina Rapetti. Ed è così che si origina in lei, per contagio creativo, un’entità che – rinunciando ad una coltre di pelliccia e al lungo crine – si propone in un total nude. Coperto solo di segni, che emergono dal suo derma (i tatuaggi sono di Simona D’Amico).

Il suo diviene un corpo-mondo, insieme microcosmo e macrocosmo: rappresentazione di un’identità individuale e collettiva, tesa tra rabbia e amore. Espressione di un processo creativo continuo, dove il “non finito” (il frammento) diventa il codice per cogliere la complessità.

(ph. Andrea Macchia)


Dono di questa performance – complici le musiche immersive di Daniela Pes e Gup Alcaro, che sfuggendo alle classificazioni favoriscono l’immersione dello spettatore nel flusso della multiforme narrazione – quello di aiutarci a sviluppare il nostro “sentire” certo e affidabile come un “sentore”, cioè come una vaga intuizione.

E lo fa in una maniera che è insieme sottile e di gusto forte: attraverso la riscoperta di quel grigiore proprio della “santa melanconia”, di quel lucore che si incontra solo in fondo alla discesa, di quella fulgente rabbia che sa aprirsi al nuovo. Atteggiamenti, questi, con un certo grado di indefinitezza, di sospensione, di impalpabilità, anche se radicati in una percezione sensoriale.

Mescolato e intrecciato, allora il sentore ci racconta la nostra finezza percettiva di un primo provvisorio sentire: quell’attitudine che riconosciamo in tanti altri animali. Potente come un presentimento.

(ph. Andrea Macchia)

Vigoroso e necessario questo rito della transumanza proposto dal corpo di Federica Rosellini.

Un rito insinuante, che arriva trasversalmente.

Un’iniziazione di cui, nel nostro sottosuolo, si sente gratitudine. Onorati verso chi, come lei, si fa veicolo per aiutare altri ad oltrepassare un confine: quello che ci porta un pò più in là delle nostre sicurezze.


Recensione di Sonia Remoli