Recensione dello spettacolo DAIMON 4.0 – Identità in download – scritto da Maria Grazia Aurilio e Tiziana Sensi – regia Tiziana Sensi

TEATRO MARCONI, 30 Ottobre 2024 –

Per realizzarci davvero dobbiamo perderci; dobbiamo cioè scoprire e lasciarci guidare dal nostro daimon. 

Nel linguaggio comune siamo soliti dire: “Per cosa sei portato ?”. Ecco, il daimon è questo: ciò da cui siamo portati. Un’attitudine, un talento: qualcosa che ci rende speciali, diversi, unici. E ci fa stare bene con noi stessi. Ci realizza.

Nessuno è privo di daimon. Ma occorre cercarlo. E poi lasciarlo libero di esprimersi. E seguirlo. Come in una danza.

E’ quello che appassionatamente  la caleidoscopica Tiziana Sensi ha cercato di farci “sentire” ieri sera. E il bersaglio è stato centrato. 

“Sono così eccitata che mi sono persa”: con credibile naturalezza, in più occasioni nel corso della sua performance, la Sensi si è lasciata guidare da alcuni complici del suo daimon: Caterina, Flavio… . E allo spettatore arriva quella fresca autenticità che ti fa “credere” a quello che lei dice.  E decidi di seguirla: perché seguendo lei, arrivi dentro te stesso. E ti ritrovi. E ti conosci un po’ di più.

E’ qualcosa di diametralmente opposto ad una subdola manipolazione: perché la parola teatrale è generosa, è altruistica, è senza secondi fini. 

Perché il Teatro è epidermico: si è prossimi, si è in presenza. 

Ci si guarda negli occhi, a Teatro, ma non da dietro uno schermo. 

Ci si annusa. E l’olfatto è il nostro cervello più antico, ancestrale. E non mente. 

La Sensi frequentemente nel corso dello spettacolo sente l’esigenza di chiedere alla regia che si alzino le luci sulla platea: anche lei ha bisogno di vederci e di annusarci, al di là dello schermo delle ombre che necessariamente cade sul pubblico. 

A lei non importa la perfezione: lei è disposta a correre il rischio di interrompere ripetutamente lo spettacolo per saggiare le nostre reazioni. Ma in verità non è un’interruzione: è un dono quello che lei ci sta facendo. Cercando la nostra attenzione, ci offre la propria. Non le interessa “ballare da sola”: è “il passo a due” quello che vuole. E’ la relazione che cerca di costruire con noi, al di là di ogni egoico narcisismo.

La sua è l’espressione del fascino di essere umani: in bilico tra fragilità ed eccellenza. Quell’eccellenza che ci regala l’unicità del nostro daimon. 

Qualcosa di diametralmente diverso dalla perfezione “verticale” a cui ci fa credere di poter raggiungere il mondo dei social.  Quella magia di luci, di filtri, di fallaci proiezioni di una maestosità onnipotente, con cui la Sensi-Social apre lo spettacolo. E ci si presenta con un fascino da sortilegio in un prologo di sublime bellezza .

Tutta la drammaturgia (un lavoro a quattro mani tra Maria Grazia Aurilio – psicologa, psicoterapeuta – e la stessa Sensi) sa fondere la luminosità della narrazione all’austerità dei dati scientifici, che la Sensi porta in scena a testimonianza di ciò che, con eleganza preoccupata, porta all’attenzione dello spettatore.

E’ un particolare teatro di narrazione il suo che dà ospitalità ad ogni colore del proprio condominio vocale. Ne risulta un personaggio polimorfico, che racchiude in sé una pluralità di individualità.

Partendo dalla ricerca del suo personale daimon, Tiziana Sensi – in un continuo confronto temporale tra passato e presente – piuttosto che demonizzare l’era digitale avverte l’esigenza di tentare di recuperare ciò che di prezioso è andato perso.

Ad esempio, un’equilibrata considerazione del giudizio degli altri.

Gilles Deleuze (noto filosofo francese) sosteneva che il peggiore degli incubi è vivere la propria vita come sogno di un altro. Ed è una tentazione in cui ci viene facile cadere, fuorviati dal fatto che -sebbene conoscere il proprio daimon sia ossigeno vitale – incontrarlo può essere spaesante. Il nostro daimon ci parla infatti di ciò che spesso ancora non conosciamo di noi stessi. Ma non è un motivo valido per allontanarcene e cadere nella trappola di dedicarci alla realizzazione del desiderio che gli altri hanno su di noi. E’ vero: è più semplice e in più ci rende “amabili”. Ma è la magra consolazione che riceviamo per aver rinunciato al nostro potere: il potere creativo.

Ne consegue un pericoloso e progressivo raffreddamento del desiderare, che conduce alla depressione. Anche tra i giovani. 

Perché quel senso di “mancanza” così prezioso per continuare a desiderare creativamente si trasforma in “vuoto” sterile, in nichilismo: conseguenza del seguire un desiderio che non ci appartiene, quello di qualcun altro appunto, spesso nascosto dietro lo schermo di uno smartphone.

Perché se è vero – come è vero – che la vita umana ha bisogno di “appartenenza”, è altrettanto vero che quest’esigenza va equilibrata anche con un’adeguata dose di “erranza”. Senza preoccuparsi di sbagliare: fallire e incontrare una momentanea crisi è necessario per crescere. Per esserci conoscenza deve esserci “dubbio”. Che non è un deficit, come spesso siamo portati a credere, ma una preziosa occasione che ci apre ad incontrare una verità più profonda, parti di noi che ancora non conosciamo. 

Insomma avere dei dubbi non è da “sfigati” che rischiano l’emarginazione sociale, come vogliono farci credere. Tutt’altro: farsi delle domande significa disporre ancora del potere creativo del proprio daimon, senza abdicarvi per un’ingannevole prospettiva di inclusione, all’interno di una massa anonima, dove ciascuno per appartenervi deve aver rinunciato alla propria personalità. 

Il Teatro, oltre ad essere il luogo giusto per parlare consapevolmente delle perdite conseguenti all’abbandono del nostro daimon, è anche un luogo dove queste perdite possono essere riconquistate.

Per questo l’idea che persegue lo spettacolo di Tiziana Sensi si rivela preziosa e necessaria nel recuperare il valore irrinunciabile della nostra voce, del nostro corpo, del nostro tempo.

Fino a riappropriarci progressivamente anche del piacere generativo dell’Attesa.

Tiziana Sensi


Recensione di Sonia Remoli