Recensione dello spettacolo I MEZZALIRA – Panni sporchi fritti in casa – scritto da Agnese Fallongo – regia di Raffaele Latagliata

TEATRO BASILICA, dal 15 al 20 Ottobre 2024

I Mezzalira  entrano in scena come in processione: vivono di ritualità e, si sa, le ritualità  sono assai rassicuranti. E depurano così bene il peso di ciò che dobbiamo celare !  

Ma la verità autentica è che siamo fatti di eccedenze: di un’energia così straripante che non riesce ad essere contenuta completamente dentro canoni e regole, un po’ troppo asfissianti.

E una famiglia che, come i Mezzalira, vive di preghiere e di fritture racconta molto di se stessa. 

Agnese Fallongo, Tiziano Caputo

Friggere rende un cibo così succulento, così irresistibilmente buono, da risultare davvero appagante. Le nostre papille gustative sono solleticate dapprima dal sale, o dallo zucchero, con cui si spolvera la superficie, poi arriva la sensazione del croccante e a seguire quella del morbido. Insomma, un piacere molto ricco. 

Dai Mezzalira si frigge per festeggiare ma anche per sopportare le avversità della vita: per far diventare buono e gradevole ciò che in purezza lo è molto meno. Si dice infatti: “fritto, diventa buono tutto!” Metaforicamente la frittura è un abito sotto al quale si cela qualcosa di diverso: il sottotitolo dello spettacolo “panni sporchi fritti” può alludere proprio a questo.

Tiziano Caputo, Agnese Fallongo

“Friggere è un lusso” – dice Crocefissa, la signora Mezzalira che si affida più volentieri alle preghiere, per lavare via la sporcizia dai panni. Pregare non costa niente e “più preghi più Dio ti ascolta”. Del friggere, però, la sua modalità di pregare ha il frigolare  dell’olio che bolle in pentola: è, il suo, un pregare ad alte temperature.  E l’interpretazione della Fallongo è irresistibile, almeno quanto il fritto.

Crocefissa è però un nome davvero invadente, che non può non influenzare il destino di chi lo riceve come nome proprio. Non a caso la ragazza sposa un giovane di nome Salvo che però, diversamente da lei, non ama pregare quanto piuttosto “conoscere se stesso” e quindi non sottomettersi. In quanto tale è per lei – così ossequiosa e che di cognome fa Martire – una croce e una delizia.

Tiziano Caputo, Adriano Evangelisti, Agnese Fallongo

La coppia Mezzalira ha un figlio soprannominato Petrusino, che vuol dire “prezzemolo”, proprio per identificarlo con la sua indole curiosa. A lui, presente in scena – è un fascinoso Adriano Evangelisti a rappresentarlo –  è affidata la narrazione esterna della storia della sua famiglia che, vista dall’interno con i suoi occhi, risulta davvero intrigante. 

Pasqualina invece è la figlia più grande dei Mezzalira che, a differenza di Petrusino è molto appassionata dallo studio, dove ottiene ottimi risultati. Ma è una donna, e per sua mamma Crocefissa le donne devono cucire, non studiare. “Cucire” non allude solo ad una particolare attività manuale ma, metaforicamente, anche ad un particolare stare al mondo, dove si richiede a una donna quel saper imbastire e quel saper congiungere di cui qui né madre, né figlia riescono a dare il meglio. Perché nessuna delle due, in fondo, lo vuole. Crocefissa lo nasconde. Pasqualina no: lei non riesce – a differenza del destino affidatole anche dal nome – a “passare oltre”; non riesce “ad attraversare” questa delusione e ad accettare di ergersi ad agnello sacrificale. Non a caso, forse, il cuore della narrazione in scena si svolge proprio il giorno di Pasqua, occasione interessante per soppesare tradizioni e aprire la via a riflessioni sul rito.

Agnese Fallongo

Il quadro familiare trova completezza con una nonna viva e vibrante, dalla saggezza ancestrale, esperta in terapeutiche fritture. E’ interpretata da un sorprendente Tiziano Caputo che parla con lo sguardo, con quelle torsioni improvvise del busto ( così piene di sottotesti) e con quell’autentica ironia di chi la sa lunga. Davvero una restituzione felice di una saggezza che si ammanta di buon costume ma che conosce e sa percorrere anche altre vie, tutte umane.

Tiziano Caputo e Agnese Fallongo

Fallongo e Caputo, conosciuti e apprezzati qui a Roma la scorsa stagione grazie al Teatro Basilica che ha portato in scena il loro “Letizia va alla guerra: la suora, la sposa, la puttana”, con questo nuovo lavoro riescono a far entrare lo spettatore nelle dinamiche di una famiglia che, più che in una casa, sembra aver trovato alloggio in un gran calderone d’olio bollente, tanto le pluripartiture dei due sono ricche in crepitii e scoppiettii, propri di una gran bella frittura mista. 

La recitazione così casta – eppure erotica – di Agnese Fallongo e Tiziano Caputo riesce a rendere efficacemente – complice anche un suggestivo disegno luci – lo shakespeariano darsi fritto dello sporco, che trova così spesso ospitalità nei nuclei familiari e nella vita stessa. 

Agnese Fallongo, Adriano Evangelist

La qualità della loro recitazione è impreziosita da canti dal sapore ancestrale, che sanno rendere e veicolare il senso del “sacro” meglio delle parole. Va sottolineato, poi, un particolare uso degli oggetti di scena, che prima di essere tali sono scenografie polimorfiche. E poi che dire di quegli effetti ossessivi e piacevolmente pungenti – propri di alcune sonorità ambientali (esteriori e interiori) – resi con un  contrappunto di sfriggimenti e di sfrigolii, ottenuti attraverso percussioni e sfregamenti materici e vocali ?  Geniale !

Lo spettacolo resta in scena fino a domenica 20 Ottobre

Raffaele Latagliata, Adriano Evangelisti, Agnese Fallongo, Tiziano Caputo


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LETIZIA VA ALLA GUERRA: la suora, la sposa e la puttana – di Agnese Fallongo – regia di Adriano Evangelisti

TEATRO BASILICA, dal 9 al 14 Gennaio 2024 –

Spesso la vita ci chiude in una cornice, bloccando la nostra progettualità. O forse no: forse la vita, proprio mettendo un limite, ci ingegna a portare a compimento i nostri desideri per altre vie. Per altre vite.

Agnese Fallongo

L’estrosa circolarità di questa brillante e commovente trilogia drammaturgica di Agnese Fallongo regala un’apparente indipendenza alle tre storie raccontate. In verità, viste nel loro insieme, le storie mostrano numerose connessioni fra loro in quanto elementi di un’opera pensata nel suo complesso, dove ogni progettualità va letta in rapporto con le altre.

Tiziano Caputo e Agnese Fallongo

Le tre protagoniste delle tre storie ad una prima lettura sono legate tra loro dall’aver ricevuto lo stesso nome “Letizia” e dall’essere state “castrate” dallo scenario nel quale si ritrovano immerse. Poi si scoprirà altro. Ma la cosa più preziosa che la drammaturgia e la stessa regia di Adriano Evangelisti sembrano suggerire è che queste donne, al di là degli impedimenti esistenziali, vengono “salvate” e quindi riconusciute nel loro valore, proprio perché le loro storie sono state “raccontate”. Perchè abbiamo dedicato loro la nostra attenzione. Le abbiamo amate.

Etimologicamente “Letizia” è un nome proprio che ci parla di colei che, essendo fertile, crea e dona frutti. Nome omen: un nome, un destino. Le tre figure femminili infatti sanno fare, di quello che gli altri hanno fatto di loro, qualcosa di fertile e di donativo. Nonostante i condizionamenti del microcosmo familiare e del macrocosmo storico-sociale le tre femminilità, simbolo di un’intima trilogia a fondamento della psicologia della donna, proprio nel lasciasi spazio a vicenda, riescono a dare sostanza a progettualità. 

Tiziano Caputo

Mirabile la resa dello spazio scenico, la drammaturgia delle luci ma soprattutto quella affidata ai canti dei due protagonisti in scena (Agnese Fallongo e Tiziano Caputo), dove la malinconia drammatica sa legarsi ad una tenace propositività. Efficacissima la scelta di rendere alcuni canti (accompagnati dal vivo dalla chitarra di Tiziano Caputo) e piccoli monologhi indecifrabili. Ma solo se attraversati dai principi della logica: eloquentissimi invece per la nostra logica “arcaica”. Dei veri gioielli di elegante espressività.

Agnese Fallongo e Tiziano Caputo

Le cornici vuote che abitano la scena, regalando poliedriche prospettive, vengono utilizzate con acutezza (il coordinamento creativo è curato da Raffaele Latagliata) per rendere i vari sottovesti del concetto di “limite”: come elemento che sancisce una separazione; come luogo d’incontro e come confine da oltrepassare.

Agnese Fallongo e Tiziano Caputo

La regia e l’interpretazione dei due attori Agnese Fallongo e Tiziano Caputo regalano una magistrale resa, quasi cinematografica, dei passaggi narrativi (fluidi o a schiaffo), dei primi piani e degli a parte. 

Molto belle anche le scelte comunicative rese dalla prossemica e in generale il duttile e quindi generoso lasciarsi attraversare da parte degli interpreti dalle “anime” dei diversi personaggi.

Tiziano Caputo e Agnese Fallongo

Lo spettacolo resterà in scena al Teatro Basilica fino al 14 gennaio 2024.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo MACBETH di William Shakespeare – regia traduzione e adattamento di Daniele Salvo-

GIGI PROIETTI GLOBE THEATRE, dal 2 al 25 Settembre 2022 –

Com’è irresistibilmente umano lasciarsi divorare da un’insaziabile fame d’infinito!

E sperimentare l’ingovernabilità del brivido della vita, così come del brivido della morte!

Cosa arriviamo a fare quando l’ “immaginario” rapisce l’animo umano a scapito del “visibile”?

Quanta crudeltà piacevolmente sopraffina proviamo nell’essere attizzati verso un desiderio (umanamente) irraggiungibile?

Su questi enigmi sembra invitarci a riflettere la regia, ferocemente elegante, del “Macbeth” di Daniele Salvo, in scena ieri sera al Gigi Proietti Globe Theatre.

Daniele Salvo

Un regista, Daniele Salvo, capace di coniugare una ‘maniacale’ attenzione filologica sulla scrittura e un rigoroso sguardo sulla foniatria dello strumento vocale ad una interessante apertura verso orizzonti visionariamente umani. È, il suo, un “portare in salvo dal freddo le parole”, per dirla con il poeta Francesco Scarabicchi.

Ma soprattutto è un regista che persegue una sua verità interpretativa – sicuramente con il concorso di tutti i mezzi espressivi a sua disposizione (musica, luci, scene, costumi) – ma “in primis” chiedendo all’attore di compromettersi emotivamente. In quest’ottica, il lavoro sul linguaggio diventa un lavoro al servizio dell’emotività, verso un recupero del rapporto originario significante-significato. 

John Singer Sargent, Ellen Terry as Lady Macbeth 1889

Nello specifico, a far risaltare la centralità del linguaggio/vocalità/emozione, la scelta di avere una scena (curata da Fabiana Di Marco) fin dall’inizio quasi totalmente vuota ma che sa come animarsi: pochi ma efficacissimi oggetti entrano ed escono “a vista”; piccole botole evaporano presenze esoteriche; velatini fissi e mobili regalano forti suggestioni.

Suggestione che diventa pura bellezza quando i velatini vengono utilizzati e “accesi” incisivamente (la cura del disegno luci è di Umile Vainieri) a coronamento di scene, vere e proprie opere d’arte pittoriche. Mi riferisco alla scena del banchetto d’accoglienza al re Duncan (splendida rivisitazione dell’ “Ultima cena” di Leonardo da Vinci) e alla scena della morte dello stesso re (drammatica variazione del “Cristo morto” del Mantegna).

Melania Giglio è Lady Macbeth

Potenti e persuasivamente eleganti i costumi di Daniele Gelsi: dai velluti al latex, dalle pelli ai dettagli in pelliccia, alla magnificenza dei mantelli da “haute couture”. Di sublime efficacia il contributo musicale del versatile ed eclettico M° Marco Podda, compositore e medico foniatra.

Graziano Piazza (Macbeth) e Melania Giglio (Lady Macbeth)

Calibratissima la presenza di ogni attore sulla scena: dagli “a parte”, alle scene corali.

Brilla di una luce particolare il dilaniato Macbeth di Graziano Piazza e ancor più la sua Lady M, ovvero la ferina e conturbante Melania Giglio: famelica di esuberanti ed invasati riempimenti.

Melania Giglio è Lady Macbeth

Molto interessante l’adattamento di Daniele Salvo: fedele nell’esaltare le commistioni contrastanti (“ciò che è bello è brutto e ciò che è brutto è bello”) insite nel microcosmo umano e nel macrocosmo metafisico sacro ed esoterico (così vivo anche nel rinascimento elisabettiano) e

Alessandra Roccasalva, Marcus Gheeraerts the Younger, Queen Elizabeth I

decisamente originale nell’individuare un’ancestrale potenza del linguaggio erotico, che parte dalle “fatidiche sorelle”, passa attraverso i due coniugi, per arrivare fino al portiere del castello. Un alfabeto capace di far coesistere l’orizzontalità con la verticalità; il sacro e la profanazione; la vita con la morte.

Una sorta di preistoria della coscienza dove cielo e terra, acqua e fuoco, bene e male, non sono ancora nettamente separati. Un inconscio privato e collettivo dove, per dirla con Sigmund Freud, “l’Io non è padrone in casa propria” e ci parla della realtà che atteggiamenti apparentemente ascrivibili a casi di eccezionalità, appartengono in verità a quella fame d’infinito che ci abita e che fatichiamo a gestire.


Recensione di Sonia Remoli