Recensione dello spettacolo BEATI VOI CHE PENSATE AL SUCCESSO NOI SOLI PENSIAMO ALLA MORTE E AL SESSO – drammaturgia Tommaso Cardelli e Tommaso Emiliani – regia Alessandro Di Murro –

TEATRO BASILICA, dal 14 al 17 Novembre 2024

Metti una sera al Basilica con la platea insufficiente ad accogliere un’onda di ventenni;

metti 5 interpreti del collettivo “Gruppo della creta” in scena con una performance ispirata alle opere di Juan Rodolfo Wilcock;

metti un titolo “Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso”

ne scaturirà una pubblica manifestazione di consenso e ammirazione.

Juan Rodolfo Wilcock (1919 – 1978)

I giovani hanno apprezzato l’idea di una performance-rituale, musicalmente accogliente, libera da una rigida architettura.  Come la scena: un luogo della mente abitato da un unico oggetto di scena – un divano gonfiabile bianco – nella duplice valenza etimologica di luogo di confine e di luogo poetico. 

Ma niente di statico, però: proprio così come nel mondo persiano, le decisioni più importanti erano prese nei divani a cavallo (riunioni condotte in sella) così, qui, il divano è l’occasione per fare altro.

Interrogarsi, ad esempio. 

Un interrogarsi immaginato come un movimento rituale con un dentro e un fuori dal confine della dogana-divano: quasi un’area psichica inconscia, foriera di continue domande. E identificata in un tronco nudo e secco. 

In effetti è questa la struttura della performance: un rituale tra una parte e l’altra del confine, tra conscio e inconscio, tra domande e risposte, non necessariamente chiare ed esaustive. Ma in rapporto osmotico.

E’ il ritratto di una generazione, quella attuale, che s’interroga sulla morte, sul sesso, sulla verità. Meno sul successo. Lo fa con dolcezza sensuale ma anche feroce. Ma ciò che conta è non smettere di interrogarsi. 

E poi continuare, sempre, ad immaginare. 

Come Wilcock raccomandava a suo figlio: 

“… Ricorda che c’è una sola cosa/ affermativa, l’invenzione; /il sistema invece è caratteristico/della mancanza d’immaginazione./Ricorda che tutto/ accade /a caso e che niente dura, /il che non ti vieta di fare/ un disegno sul vetro appannato,/né di cantare qualche nota/ 
semplice quando sei contento;/può darsi che sia un bel disegno,/che la canzone sia bella: /ma questo non ha certo importanza, /basta che piacciano a te…”.

E immaginando, vivere. Anche, in attesa di passare all’atto, stazionando su un divano: luogo-dogana in cui si trasportano le energie prima di introdurle nel paese di destinazione. Immaginando come poter arrivare lì, dove si desidera andare. Perché, come diceva Wilkock:

Vivere è percorrere il mondo
attraversando ponti di fumo;
quando si è giunti dall’altra parte
che importa se i ponti precipitano.
Per arrivare in qualche luogo
bisogna trovare un passaggio
e non fa niente se scesi dalla vettura
si scopre che questa era un miraggio”.

Una performance, questa del Gruppo della Creta (qui in scena Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Amedeo Monda, Laura Pannia, Alessandro di Murro) che fotografa una criticità attuale e ne propone una lettura non necessariamente fatalista. Anzi, incline a quella propositività dello “stessere ciò che c’incuora” di cui parlava Wilcock:

“Ripudiamo la facilità/come si allontana un serpente;/la facilità/dissolvente quasi-verità./ Del pensiero troppo ordinato/scoraggiamo la seduzione;/negli eccessi dell’argomentazione/non sperperiamo il nostro legato./Cerchiamo soltanto di stessere/dal tessuto di ogni ora/ciò che ci nutre, ciò che/c’incuora,/ l’universalità dell’essere.

La platea sembrava respirare assieme agli interpreti, tanta la partecipazione.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA NOTTE DI VITALIANO TREVISAN – mise en éspace di Andrea Baracco – drammaturgia a cura di Jacopo Squizzato –

TEATRO BASILICA, 27 Maggio 2024

E’ la sua voce ad aprire la mise en éspace curata da Andrea Baracco: una voce così materica eppure così in disequilibrio. Oscura, dolente, contorta. Tenera, a suo modo dolce, musicale.

Una voce necessariamente “incompiuta” per potersi rendere disponibile a generare continuamente nuove aderenze linguistico-morfologiche aspre e ruvide. Come quelle che agitano la vita. 

Una voce necessariamente “incompiuta” com’è la natura della conoscenza per noi umani: “sempre da dilettanti, altrimenti non ci sarebbe letteratura”.  

Una voce necessariamente “incompiuta” perché, come la sua scrittura, visceralmente ossessionata dalla necessità di essere “vera”. E quindi costantemente sul ciglio del precipizio, prossima al crollo.  

Vitaliano Trevisan

Ora, soffiando in scena la sua aura, può prendere avvio la rievocazione del suo stare al mondo, che coincide con la particolare postura della sua scrittura.

Ecco allora entrare in scena coloro che fortemente hanno sentito il desiderio di ricordare l’unicità della vita di Vitaliano Trevisan, ritessendola in un arazzo di cui le loro voci si fanno fili.

E’ così che Jacopo Squillazzo – che ne cura l’intreccio drammaturgico – ci propone di partecipare ad una lettura a ritroso della vita di Trevisan, partendo appunto dall’ultimo libro “Black Tulips” e dalle esperienze legate alla fuga in Nigeria, suo paradiso di autenticità esistenziale. 

E’ Valerio Binasco ad incarnare le parole di questo testo e a rendere la morfologia di un Trevisan appesantito dal continuo essere attraversato dalla vita così come dalla morte. Ce ne parla l’efficace postura di Binasco: una postura rigida, gravata dal carico che sembra materializzarsi sulle sue spalle, che ne restano schiacciate. Ma reggono ancora queste spalle – facendosi “trasparenti” – il peso dei molteplici frammenti che agitano il caos esistenziale.

Valerio Binasco

Ai suoi passi da sessantenne in Nigeria si intrecciano, diversamente ossessivi, quelli del quarantenne Trevisan dei “Quindicimila passi”. Vivono nella voce di Gabriele Portoghese che ne rende lo stupore ironicamente drammatico del constatare che nulla torna nei conti dei passi. E intanto tutta questa fatica del contare gli ha fatto perdere il senso delle mete raggiunte. Ma gli ha permesso, evitando di farsi cogliere di sorpresa, di non sprofondare nell’abisso esistenziale.

Una modalità – questa di inscrivere nello spazio dei passi e della carta il suo distacco dal dolore esistenziale – che l’arte può assumere per rappresentare credibilmente “la pena riflessiva” della vita: quel rimuginare senza orizzonte che non conosce pace per l’anima. “Un’ arte del tempo”: la sola adatta a rendere ciò che è mobile.

Gabriele Portoghese

Dall’arte ossessiva del contare si arriva di nuovo in Nigeria: qui ad abitare Trevisan è l’ossessione cromatica del suo biancore, e quello di pochi altri, su tutto questo paradiso di nero. Dove ci si può ancora permettere di sdraiarsi sulle panchine.

Privilegio che i veneti e i vicentini non approverebbero, ossessionati quali sono da quel tanto fare (“il mal della piera”) senza però riuscire a “sapersi vendere”. Ed è l’espressività dell’affascinante minimalismo mimico di Daria Deflorian a farsi carne nelle parole seminate in “Tristissimi giardini”.  

A lei il compito di “rappresentare” ad esempio il fascino irresistibile di una caduta, come quella che avviene anche in amore, resa con le suggestioni e i ritmi di quella musicalità jazzata propria degli “standards”. Ma Trevisan, e con lui la Deflorian, vanno oltre: qui non c’è il gusto per il gioco ma il riconoscimento di una modalità che rende credibile il pulsare dei pensieri della vita. Ai quali si tende a rimanere legati come ad una catena.

Daria Deflorian

E mentre prosegue l’intreccio della tessitura a 6 mani della vita e della scrittura di Trevisan, noi del pubblico abbiamo come la sensazione di passeggiare accanto a Vitaliano, provando a seguire i suoi passi e le sue fughe, grazie al disegno “libero” dell’arazzo, che intanto si sta componendo. E che rimarrà “fatalmente incompleto”. 

Un’inspiegabilità “che non è un invito a risolvere enigmi, non è un invito ad essere arguti, bensì un ammonimento della morte al vivente: ‘Io non ho bisogno di spiegazioni, (…) pensa solo che con questa decisione tutto è finito’» ( da “Accanto a una tomba”, in Standards, vol. 1, Sironi, 2002).

“Farmi domande, a questo mi attengo”: il lavoro “manuale” della scrittura di Trevisan non pretende infatti mettere ordine nella vita, quanto piuttosto renderne – in modo rigorosamente ordinato – l’intrinseco disordine.

Vitaliano Trevisan

Una notte, quella di ieri sera dedicata a Vitaliano Trevisan – in un Teatro Basilica intasato da tutti coloro che non hanno resistito a tornare a rileggere ancora e ancora lo sguardo di un uomo spigoloso, crudo e illuminante qual era lui  – che non sarà l’unica. 

Questo  progetto, che nasce qui a Roma al Teatro Basilica ed è curato da Carnezzeria (direzione artistica Emma Dante e Aldo Grompone), viaggerà infatti in altre città italiane.


Recensione di Sonia Remoli