Mattatoio
8 e 9 Ottobre 2025


E’ tra noi.
Ci aspetta.
Non è sola: ha eletto a compagna di viaggio, come un transumante, un animale.
Una gallina.
Animale che i Greci consideravano sacro e associavano alla dea della saggezza. Le galline cercano nutrimento sotto terra e questo, simbolicamente, allude ad una ricerca della verità non in superficie. La gallina poi è un animale che sa relazionarsi, sa vivere in gruppo e in quanto tale è capace di sostegno e collaborazione.

(ph. Piero Tauro)
Lei (una straordinaria Federica Rosellini) è invece una creatura transumante, che si lascia abitare da diverse identità. Una creatura dal sentore di sacro e di innocenza.
Insieme alla sua compagna di viaggio ci aspetta per partire alla volta di un misterioso viaggio. Un viaggio che inizia annunciandosi ai nostri occhi attraverso la prospettiva di lande immense, ricoperte di neve. Strade ghiacciate e spezzate in lastre, che trovano una prosecuzione anche sul palco, fino in platea. Gli avvincenti video, sospesi tra pathos e distanza emotiva, sono di Rä Di Martino.
Un mondo candido. Innocente. Sembrerebbe.
Ma “che cos’è la felicità – ci chiede voltandosi da un lato – ma voi avete amato? E’ stato doloroso?”.
Inizia lei a raccontare: in un tempo scandito per numeri che si dilatano in quadri, è lei che si dà cura di cucire frammenti di ricordi, di riflessioni intime e universali, di testimonianze mitologiche.
Frammenti che sono affiorati dal sottosuolo sulla pelle candida del suo corpo: in forma di tatuaggi e graffiti.

(ph. Andrea Macchia)
Il darsi di ogni quadro temporale è possibile attraverso l’inquadratura – e quindi il fare luce, il dedicare attenzione e il volgere lo sguardo – su un frammento che affiora sul suo derma.
E poi canta, si campiona e lascia che si sovrappongano più tracce: perché questo, noi umani, siamo. Delle stratificazioni. Degli enigmi che credono di potersi muovere liberamente. Ma sotto alla terra, sotto alla sabbia, che crediamo di calpestare e conquistare liberamente, si cela uno scacchiere di enigmi. E di atrocità.

(ph. Piero Tauro)
Siamo quindi il risultato anche della testarda Antigone: donna dalla lingua e dalla capacità argomentativa di un uomo. E così innamorata del “mondo di sotto”.
Siamo fatti anche di suo padre Edipo, che ha sofferto la peggiore delle ferite: l’abbandono di una madre attesa ma che non arrivava mai. “Se sopravvivo a questo dolore, distruggo tutto” – pensava mentre un chiodo d’argento gli bloccava i piedi: solo, sul Monte Citerone, all’addiaccio. Il problema dell’abbandono è che non ha una cittadinanza: è una ferita assoluta che niente potrà chiudere. Siamo gli aborti di Dio. E, allora, ho contaminato tutti quelli che potevo contaminare”.
Ma forse non si tratta solo di contaminazione: forse è “la macchia, quella che seguiamo”. E non un ideale di pulizia.

(ph. Rä Di Martino)
Siamo fatti di Giocasta: “che lo sapeva e non lo sapeva che quello era suo figlio … era come una melma … era tutto così contorto”.
Siamo fatti di Giovanna d’Arco: così attratta dalle ali degli angeli e dai cespugli di lavanda, dove sapeva che li avrebbe trovati.
Ma noi, invece, ci riteniamo uomini sapienti e ci raccontiamo altre storie: ci piace consolarci con la logica.
E, invece, “torneremo mai così innocenti come i transumanti, che viaggiavano insieme agli animali?”.
Loro, strati del nostro sé interno ed esterno. “Abbiamo il loro sangue, abbiamo fatto sesso con tutti quelli che avevano pelle e polmoni”. Ma diciamo di credere nel bene separato dal male. E di essere una versione distante dall’uomo di Neanderthal.
In verità, siamo preda dell’incertezza.

E cosa aiuta ad attraversare tempi di incertezza? Quando quello su cui sedevi trema e minaccia di andare in pezzi?
Di cosa nutrirsi in quegli attimi, in quei mesi, in quegli anni?
E cosa invece si può lasciare andare?
La condizione di incertezza in cui siamo ontologicamente immersi e che arriva a sommergerci in alcuni frangenti vitali, come ad esempio e’ successo nella scorsa pandemia – occasione di questa scrittura tremendamente seducente di Marina Carr – interroga e mette alla prova la qualità del nostro orientarci e del nostro saper trovare sempre nuovi equilibri esistenziali.

Marina Carr
L’incertezza infatti – se si riesce a sconfinare al di là di quel senso di confuso vuoto da eliminare assolutamente – si offre come terreno fertile per l’emergere di un desiderio autentico. Inconscio. Che si dà attraverso un’ “opacità” che resiste alla spiegazione razionale, ma che paradossalmente ci permette di trovare soluzioni proprio in questo non-sapere razionale. Di cui dobbiamo imparare a fidarci.
Come è accaduto qui a Marina Carr: nel riuscire ad attraversare la disperata incertezza dei tempi della pandemia, la drammaturga irlandese ci confida che ha sentito emergere in lei il desiderio, il richiamo, a ricollegarsi alla natura, al suo misterioso contatto. Perché “il mondo diventa ostile quando non si ha più un posto a tavola, intorno al fuoco della caverna”.

Lascia così emergere dal sottosuolo emotivo della sua incertezza, frammenti personali ed arcaici: un manto di risorse immateriali che ha cucito insieme, proprio in quanto frammenti. E – sprofondando in questo mondo fantasmatico, denso e misterioso, fatto di figure polimorfe e liminari – questi frammenti li ha tessuti in una tela misteriosa e caleidoscopica. Una tela in 21 quadri, che attraversa il tempo, per sconfinare in luoghi insondati e misteriosi. Opachi, appunto.

(ph. Andrea Macchia)
Federica Rosellini si lascia contattare intimamente da quella creatura indefinibilmente ferina narrata da Marina Carr, testo la cui traduzione è curata da Monica Capuani e da Valentina Rapetti. Ed è così che si origina in lei, per contagio creativo, un’entità che – rinunciando ad una coltre di pelliccia e al lungo crine – si propone in un total nude. Coperto solo di segni, che emergono dal suo derma (i tatuaggi sono di Simona D’Amico).
Il suo diviene un corpo-mondo, insieme microcosmo e macrocosmo: rappresentazione di un’identità individuale e collettiva, tesa tra rabbia e amore. Espressione di un processo creativo continuo, dove il “non finito” (il frammento) diventa il codice per cogliere la complessità.

(ph. Andrea Macchia)
Dono di questa performance – complici le musiche immersive di Daniela Pes e Gup Alcaro, che sfuggendo alle classificazioni favoriscono l’immersione dello spettatore nel flusso della multiforme narrazione – quello di aiutarci a sviluppare il nostro “sentire” certo e affidabile come un “sentore”, cioè come una vaga intuizione.
E lo fa in una maniera che è insieme sottile e di gusto forte: attraverso la riscoperta di quel grigiore proprio della “santa melanconia”, di quel lucore che si incontra solo in fondo alla discesa, di quella fulgente rabbia che sa aprirsi al nuovo. Atteggiamenti, questi, con un certo grado di indefinitezza, di sospensione, di impalpabilità, anche se radicati in una percezione sensoriale.
Mescolato e intrecciato, allora il sentore ci racconta la nostra finezza percettiva di un primo provvisorio sentire: quell’attitudine che riconosciamo in tanti altri animali. Potente come un presentimento.

(ph. Andrea Macchia)
Vigoroso e necessario questo rito della transumanza proposto dal corpo di Federica Rosellini.
Un rito insinuante, che arriva trasversalmente.
Un’iniziazione di cui, nel nostro sottosuolo, si sente gratitudine. Onorati verso chi, come lei, si fa veicolo per aiutare altri ad oltrepassare un confine: quello che ci porta un pò più in là delle nostre sicurezze.

Recensione di Sonia Remoli



