Recensione dello spettacolo L’ULTIMO ICARO – drammaturgia e regia di Pietro Floridia

Terza edizione del Festival “Teatro delle Migrazioni”

dal 1° al 3 Luglio 2024, presso il Nuovo Teatro Ateneo

Sapienza Università di Roma


NUOVO TEATRO ATENEO, 3 Luglio 2024

L’Ultimo Icaro

drammaturgia e regia di Pietro Floridia

con Donatella Allegro, Anna Luigia Autiero, Younes El Bouzari

al drone Francesco Lombardi

scenografie Luana Pavani

musica Stefano D’Arcangelo

videodisegni Sara Pour


Quanto siamo intimamente legati al desiderio di volare ? 

Cosa siamo disposti a fare per assecondare questa spinta ontologica così legata al nostro desiderio più profondo di libertà’ ? 

Una libertà che così magnificamente trova espressione nell’ebbrezza del volo e che non sembra essere sfiorata da una spinta centripeta alla sicurezza, che pure ci abita? 

Lo spettacolo portato in scena ieri sera al Nuovo Teatro Ateneo dell’Università Sapienza di Roma a conclusione della terza edizione del Festival “Teatro delle Migrazioni”, ha rappresentato un tentativo di sublime efficacia nel rendere la labirintica rete di punti di vista su questo folle e necessario desiderio: quello del volo.

Lo sguardo drammaturgico e registico di Pietro Floridia sceglie di impostare la narrazione con un taglio giornalistico: si parte da un’intervista “on air” che dà avvio alla ricostruzione della vicenda – al limite tra una fake e una teoria da sito complottista – che vede protagonista un cosiddetto “arabo volante” presunto “veicolo” per l’ingresso clandestino di migranti. Taglio giornalistico successivamente integrato arricchendolo – e quindi contaminandolo – con una molteplicità di punti di vista, resi registicamente con un’efficace ed avvincente tecnica, anche cinematografica, di suspence. 

Suspence che si origina dalla scrittura drammaturgica per arrivare a declinarsi nella multiforme suggestione di proiezioni visive – anche specchio di dinamiche interiori – raffinatamente integrate alla liricità di un evocativo disegno luci. 

Pietro Floridia

Ed è attraverso la bellezza della struggente malinconia del canto-racconto di Joseph “l’arabo volante” (un Younes El Bouzari la cui voce sa farsi cielo e corpo) che arriviamo a fare esperienza di quanto la nostra natura umana educata -quando non obbligata-  a muoversi dentro confini, patisca l’effetto-gabbia.

E poi, è ancora attraverso l’atto d’amore, espressione di sconfinata vitalità umana, che possiamo sperimentare qualcosa di simile all’ebbrezza del volo. Così come nell’attività artistica. Ma in tutte queste modalità espressive sembra non essere possibile rifuggire da un desiderio umanissimo di confinamento, di manipolazione.  

Labilissimo è infatti il limite tra la ricerca della libertà e la tentazione alla sopraffazione. E la regia di Pietro Floridia sa come visualizzare – e quindi veicolare emotivamente seducendo la mente – questa tensione esistenziale nella quale, volando, rischiamo di finire bruciando noi stessi o l’Altro.

E’ l’urgenza che abbiamo di “lasciare un segno” che fa sconfinare la nostra esperienza di volo, di libertà.

E’, ad esempio, il tratto che l’artista (un’accattivante Anna Luigia Autiero) traccia durante l’atto d’amore con il suo modello-amante Jouseph, intenta prioritariamente a portare a realizzazione il suo ciclo di quadri dedicati all’esperienza del volo.  Splendida qui la drammaturgia dei corpi, che ci racconta con sensuale lacerazione come l’atto d’amore sia non tanto “un rapporto” sessuale quanto piuttosto un “corpo a corpo” tra un fluido incontrarsi e un confinante mettere l’altro “in croce”.

E’ il desiderio di sapere che l’antropologa (un’efficacissima Donatella Allegro) sente di assecondare per un’urgenza di conoscenza sempre più esigente.  E che poi prende la forma (il segno) di un dossier sul caso dell’ “arabo volante”. Desiderio del quale riesce anche a contaminarsi, abbandonandosi nell’adesione al sogno di volare con  Jouseph.

Riuscire a instaurare un fertile conflitto dialettico tra queste due tendenze che ci abitano, quella verso la libertà e quella verso il controllo, può rendere il nostro stare al mondo un’esperienza interessante e feconda.  Perché “il confine” non è solo il luogo che separa ma anche “la soglia” sulla quale ci si può incontrare. Così da evitare il più possibile la degenerazione dannosa in rapporti di simbiosi o di sopraffazione di varia natura.

E’ un invito ad una riflessione oggi più che mai necessaria, questa sollecitata con grazia inquietante dal teatro di cui si fa testimone il collettivo dei Cantieri Meticci, che accoglie e restituisce i temperamenti della geografi umana di artisti provenienti da 30 diversi Paesi del mondo.

Che elegge a luoghi di interesse quei luoghi che ancora tendono a rimanere troppo inesplorati: le periferie, le scuole, i centri di accoglienza, le piccole biblioteche di quartiere, le parrocchie. Fucine di storie di un’umanità desiderosa di incontrarsi “sulla soglia” con le realtà centrali della città, così da poter dare vita ad un’inedita Agorà. Perché ciò che ci risulta estraneo, “straniero” può essere accolto anche come un “ospite”.

Perché saper volare significa anche saper atterrare, cioè far sì che con la terra si realizzi un incontro e non un drammatico scontro. Come Abbās ibn Firnās, inventore arabo del primo aereomobile nel IX sec. ci ha insegnato: solo cercando di integrare e di accordare tra loro ali e coda si può davvero volare.

Abbās ibn Firnās


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo STORIE DI PERSONE – di e con Ascanio Celestini

Terza edizione del Festival “Teatro delle Migrazioni”

dal 1° al 3 luglio 2024, presso il Nuovo Teatro Ateneo


NUOVO TEATRO ATENEO, 1 Luglio 2024

Storie di persone

Di e con Ascanio Celestini

e con, alla fisarmonica, Gianluca Casadei

produzione Fabbrica srl


In che modo si riconosce valore alla vita di un uomo o di una donna? 

Siamo sicuri di saperlo? Ma soprattutto, siamo sicuri di riuscire a farlo ? 

Perché il primo requisito per valorizzare la vita  di un essere umano è riconoscerne la “diversità”: riconoscere come speciale quel qualcosa che lo rende “diverso da noi” e dagli altri.

Ad  iniziare dal nome proprio, ovvero ciò che ci attribuisce quel primo riconoscimento d’identità, tale da poter essere considerati esistenti e quindi da poter essere ricordati. “Io sono Joseph, ricorda il mio nome” – insiste a sottolineare il protagonista della “prima storia” ( appartenente ad un progetto di ricerca sui migranti iniziato nel 2015 e composto da racconti raccolti sul campo) “cantata” da Ascanio Celestini,  accompagnato alla fisarmonica da Gianluca Casadei.

Particolarmente attento nel restituire non solo la testimonianza ma anche “lo stile  espressivo” proprio del racconto di Joseph, Ascanio Celestini  raccoglie e cesella la sua “storia” restituendoci le parole che Joseph ha cercato e trovato per dirlo, il suo rammarico.  

Un rammarico discreto, tanto da essere cortese. Ma intenso: pieno di stupore.

Ne scaturisce un commovente racconto dello stare al mondo di uomo dalla profonda disponibilità umana, che ha accettato di fare lavori per i quali non era richiesta nessuna competenza.  Come, ad esempio, il seppellitore di salme.

Ma siamo davvero sicuri che per svolgere questo lavoro non si richieda nessuna competenza?  Cura di Joseph – scopriremo – sarà infatti non solo quella di soddisfare l’efficienza dello scavare una fossa per poi richiuderla, ma anche quella di preparare ogni corpo appena morto ad attraversare l’ultimo viaggio – la discesa nella fossa – attraverso “un canto personalizzato” che completi quel che manca al suo desiderare. 

Un giorno gli capitò, ad esempio, una salma che non era stata onorata da un funerale. E lui allora gli “canta” tutto il percorso che la sua salma avrebbe fatto se davvero avesse ricevuto in dono un funerale. Inclusa la seduzione olfattiva di quelle siepi che si gonfiano di fiori di gelsomino, che avrebbe incontrato durante il tragitto.

Ma siccome – come recita un proverbio eritreo – “l’uccello che canta non costruisce il nido” è tempo per Joseph di mettersi in cammino con un suo compagno di viaggio. Le difficoltà non tardano a palesarsi – come la melodia densamente concitata “cantata” dalla fisarmonica di Gianluca Casadei sottolinea, quale drammatico contrappunto – ma loro non si arrendono.

Finché un giorno Joseph non arriverà a scoprire che in fondo al mare esiste un cielo di corpi morti che,  a differenza delle stelle in cielo, non brillano di luce perché non hanno un nome, né qualcuno che li canti. Nessuno che senta l’esigenza di ricavare nella terra il loro ultimo nido; nessuno che li metta a letto sotto una morbida coltre, per l’ultimo sogno. Nessuno che ne canti  il valore.

Ma  quanto costa, e quindi, quanto vale una vita umana ?   Forse per avvicinarsi ad una risposta occorre chiedersi prima di cosa è fatta la specificità di ogni vita: cosa c’è dentro, al suo interno. 

Un po’ come l’interno così misterioso di quegli scatoloni di cui ci parla la seconda storia: quella della cieca inaccettabilità della diversità di Giovanni.

Giovanni è diverso ma non come uno zingaro: no, lui è “uno stanziale” non ruba, va a scuola ed  è educato. “Cammina sulle righe” benissimo, infatti.  

Ma ha qualcosa di diverso dentro, qualcosa di incomprensibile. E tale deve rimanere: come si  fa con gli scatoloni che tutto il giorno suo padre sposta ma di cui è tabù chiedersi che cosa contengano, pena la perdita del lavoro.  

E Giovanni, a forza di essere spostato come un pacco dal contenuto da ignorare, non ce la fa.  E la responsabilità tende a voler ricadere su uno dei tanto odiati zingari. L’odio infatti aiuta a vincere la paura, propria di chi si considera “puro”, del presunto “impuro”.  E ci riesce proiettando “la propria impurità” sull’altro. 

Così l’inciviltà dell’ignoranza fa del “non sapere” una pretesa di verità: un pregiudizio.

Ascanio Celestini, accompagnato dalla fisarmonica di Gianluca Casadei, c’incanta. E’ una mirabile capacità narrativa, la sua, che riesce a farci arrivare – quasi con ingenua soavità – la ferocia di cui siamo capaci noi “stanziali”. Il suo è un rito magico che pone l’accento sulla parola, prima magia dell’uomo.

Ecco allora il prendere forma, sul campo, di una raccolta di “storie” preziose, proprio perché diverse.  Storie che ci consegnano la possibilità di  custodire una memoria e di apprendere da ciò che i nostri simili hanno fatto in passato. 

Perché migrare, soprattutto in gruppo, è una vitale esigenza comunicativa per cercare un luogo migliore in cui vivere. Sempre più spesso guerre, depressioni economiche, cataclismi spezzano il legame sociale con la propria terra d’origine, imponendo la terribile fuga verso un posto dove sopravvivere in serenità non sia impossibile.

Perché la storia, così come ogni storia, non è un sistema che procede accumulando progressivamente quote di verità sempre maggiori. E’ un percorso discontinuo, costellato di fratture e di momenti rivoluzionari, in cui nuovi sguardi soppiantano i vecchi.

Perché la storia, così come ogni storia,  chiede di essere riletta e riascoltata sempre, continuamente.

Perché la storia, così come ogni storia, non si lascia confinare in una ricostruzione ordinata ma ci si dà in maniera sempre nuova nel presente. Ci versa nell’orecchio il suo eco, in attesa di integrazione.

Perché raccontare storie è la cifra più importante della  nostra specie. 

Ascanio Celestini


Recensione di Sonia Remoli