Recensione L’ AVARO

traduzione e adattamento Letizia Russo

– regia Luigi Saravo –

TEATRO QUIRINO, dal 17 al 22 Dicembre 2024

Se è vero che i soldi possono condurci a perdere la percezione di noi stessi e del mondo, l’amore -ovvero quella forza generosa che tiene uniti in relazione elementi diversi – può avere la meglio sul desiderio conservativo dell’avarizia. 

Questa una delle sensazioni che arrivano più pervasivamente allo spettatore, complice la traduzione e l’adattamento seducentemente calzanti alla nostra quotidianità di Letizia Russo, sinergicamente congiunti all’ avvincente sguardo registico di Luigi Saravo. Che ne cura (assieme a Lorenzo Russo Rainaldi) con efficace raffinatezza anche le scene, esaltate dalla cromoterapia luminosa di Aldo Mantovani e dal contrappunto sonoro e musicale del compositore Paolo Silvestri.

Se infatti l’avaro è colui che desidera ardentemente ma che poi non è capace di condividere né di essere generoso (e Ugo Dighero ce ne dona uno stupefacente interpretazione), il desiderare amoroso ci parla d’altro: ci parla di “quell’essere governati da quel dolce potere” che conduce quasi a dimenticare se stessi a favore della “relazione”. Ci parla di quel timore di amare troppo – perché non egoisticamente autoreferenziato, né condizionato dal giudizio degli altri – che si palesa solo fuori dalla bolla amorosa.  “Quel dolce potere” di cui ci parla qui Elisa (Elisabetta Mazzullo) ma soprattutto Valerio (Fabio Barone) che, come dal primo incontro, continua a salvare dalle onde del destino la sua amata, rendendosi disponibile ad esplorare nuove identità di se stesso. 

Qualcosa di ben diverso dal conquistare l’altro “compiacendolo”: un piacere relativo, non assoluto.

E non così distante dall’ambiguo piacere di condividere i nostri selfie: quell’illusione con la quale ci specchiamo, credendo di poter cogliere narcisisticamente l’attimo fuggente.

Decisamente di altra stoffa è “il trasporto all’ aver cura”: una declinazione del desiderare generoso, che nessuno qui può non notare, ad esempio, in Marianna (Rebecca Redaelli). Anche Arpagone ne rimane conquistato, ma ancora una volta solo egoisticamente. 

La sua psiche è resa opportunamente da una scena che ne evidenzia i rigidi confini, attraverso mura con le quali l’Avaro delimita esternamente l’infinitezza avventurosa del bosco (metafora della vita) e internamente il sottosuolo del proprio inconscio, riducendolo ad una botola custode del suo unico desiderare conservativo monetario. Resta indifeso però l’Avaro contro l’invasione di ricorrenti allucinazioni di antichi  cori “infantili” sull’ambiguo prezzo del “bene”, che lo spingono a trattenere più che ad investire. Immolandosi inconsapevolmente sull’altare del dio denaro, confuso con il “bene”. 

Mobili, invece, si plasmano gli spazi in cui tentano di trovare espressione le relazioni umane (molto interessante anche il lavoro sulla prossemica). Spazi a volte resi rassicurantemente troppo limpidi, fino ad una trasparenza che esclude il rischio del con-tatto. E che tanto ci ricorda la rassicurante trasparenza dei nostri schermi tecnologici, spesso solo apparentemente differenti dalle mura di laterizi.

L’avarizia è una “maledizione” – confida Cleonte (Stefano Dilauro) a sua sorella Elisa – che va “spezzata”, disinnescata, traducendola in un desiderio personale fertile, capace cioè di generare autentici frutti, da condividere. Generosamente. Perché – come sosteneva Gilles Deleuze – non c’è niente di peggio che vivere il sogno di un altro, anziché il proprio. 

I figli di Arpagone, a differenza del proprio padre, sanno che il desiderio è ossigeno vitale – e che in quanto vitale è spaesante, non rassicurante. E che si cresce solo quando le certezze acquisite vacillano: quando ciò che nel tempo ha reso forte e rigido il nostro “io” viene messo in discussione e chiede un’interpretazione critica personale.

Compiacere gli altri è più semplice: asseconda una nostra innata tensione alla conservazione protettiva. Per di più abdicare al nostro desiderio per realizzare quello di qualcuno a cui teniamo, ci rende amabili. Ma se questa tensione non viene integrata e resa produttiva restando fedeli al nostro desiderio, finiamo per inaridirci asciugando tutta la nostra linfa vitale. Non a caso Valerio dice ad Elisa che l’avarizia del padre rischia di “strangolarla”, così come sta strangolando lui stesso. Perché se è vero che la vita umana ha bisogno di “appartenenza”, è parimenti vero che ha bisogno anche di “erranza”. 

Una regia – questa di Luigi Saravo su traduzione e adattamento di Letizia Russo – che trova il giusto equilibrio nel denunciare e nel farsi portavoce propositivo di una necessaria cura per la nostra “educazione sentimentale”.

Uno spettacolo che sa rendere onore alla tradizione, facendosi testimone di un sapere assimilato ma anche rielaborato con spirito critico. Tale da poter essere riproposto efficacemente in tutta la sua necessità contemporanea. Incantevole l’interpretazione di Ugo Dighero, forte della complice coralità di attori carichi di potente espressività, quali Mariangeles Torres, Fabio Barone, Stefano Dilauro, Cristian Giammarini, Paolo Li Volsi, Elisabetta Mazzullo, Rebecca Redaelli e lo stesso Luigi Saravo.

Un ”canto di Natale” che guarda anche i vuoti delle nostre esistenze: buchi nei quali si insinua una pericolosa tendenza nichilistica. E che siamo tentati, ipnotizzati dalle lusinghe di un’economia capitalistica, a riempire con “oggetti” . Che perdono assai velocemente il proprio valore, proprio per poter essere riacquistati in una nuova “versione”, più capace a renderci felici. Cioè tutti uguali. Senza personalità. Numeri di una massa indistinta, docile ad essere gestita da qualcun altro.

Ma c’è il Teatro a prendersi cura di noi: ridando valore al potere della “parola” e a quello dell’ “ascolto”. Poteri indispensabili per “realizzarci” con autentica soddisfazione: incuriosendoci a trovare di volta in volta la maniera più adeguata ad entrare “in relazione” con l’altro.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo RISVEGLIO DI PRIMAVERA – di Frank Wedekind – regia di Gabriele Vacis –

NUOVO TEATRO ATENEO

(Sapienza Università di Roma)

11 e 12 Novembre 2024

in scena:

Andrea Caiazzo, Lucia Corna, Lucia Raffaella Mariani, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Letizia Russo, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera

Una scena nuda, da “lavori in corso”, senza protezione sulle aree più pericolose.

Una scena metafora di una stagione della vita: l’adolescenza.

Un periodo di “lavori in corso” in cui i ragazzi sono al massimo della loro vitalità ma anche al massimo del loro rischio di morte. 

Biologicamente la corteccia prefrontale del cervello, infatti, adibita alla valutazione dei rischi delle azioni, negli adolescenti è ancora “in fase di costruzione”. Prevalendo quindi in loro l’azione sulla riflessione, sono ad alto rischio di morte. 

Nel 1891 Frank Wedekind pubblica “Risveglio di primavera” ma non riesce a mandarlo in scena. E quando dopo vari anni ci riuscirà, e sarà la regia di Max Reinhardt a farlo debuttare nel 1906 a Berlino, dopo la prima replica sarà censurato. Perché? 

Con “Risveglio di primavera” Frank Wedekind fu il primo ad avere il coraggio di affrontare il conturbante tema dell’adolescenza, evidenziando le cause e le conseguenze di una mancato ascolto delle pulsioni che si affacciano nei corpi e nella mente dei ragazzi, una volta messe a tacere da regole morali.

Con uno stile molto audace, Wedekind solleva ogni velo perbenistico sull’argomento e fotografa la cruda realtà del rapporto tra gli adolescenti e le istituzioni familiari, scolastiche e religiose.

Ne emerge un fallimento, come sempre accade quando si crede che tacere sia meglio di ascoltare e mettersi in discussione. 

I ragazzi infatti non ricevendo informazioni sul perché e sul come cambiano il loro corpo e la loro mente durante l’adolescenza – ma invitati anzi a un muto e vergognoso ascolto moralistico – difronte ai prepotenti segnali della necessaria tempesta ormonale, perdono ogni orientamento, desiderando fuggire, anche nella morte.

In un clima di ignorante repressione moralistica, riuscire a trovare le parole per dirle certe sensazioni, oppure osare condividerle con qualcun altro, non è affatto semplice per gli adolescenti. Tutt’oggi, anche se non si parla più di morale, essendo passati nell’eccesso opposto. Eppure restano ancora sintomi, tracce, di questo retaggio culturale. Ad esempio, quando si parla delle conseguenze dell’abito troppo poco lungo di una ragazza.  Episodio con cui si apriva “Risveglio di primavera” 133 anni fa.

Con acuta poesia invece lo spettacolo dei PoEM (Potenziali Evocati Multimediali) prende avvio da un canto, dolcemente ombroso: un canone. Una composizione contrappuntistica che unisce a una melodia più imitazioni, che le si sovrappongono progressivamente. 

Ed è splendida, la scelta di un tipo di canto che rimanda ad un atteggiamento proprio dell’adolescenza: quello che passa per la necessità dell’imitazione di una regola, di un canone appunto.

E la performance canora ed interpretativa dei 9 ragazzi in scena (ne seguiranno di diverse nel corso dello spettacolo, posizionate in punti nodali della drammaturgia) è davvero molto coinvolgente nel rendere “naturale” la scoperta di come non sia più nettamente separabile il dolce dall’amaro, la luce dal buio, il bene dal male.

Gabriele Vacis

Fin dall’inizio dello spettacolo prende forma uno dei temi centrali della regia di Gabriele Vacis: come in questa età adolescenziale sia vorticosamente travolgente la sensazione “di non sapere dove mettere le mani”.

Un gesto – molto ben declinato nel linguaggio non verbale di ciascun personaggio – ma anche un modo di dire del linguaggio comune, che può assumere varie espressioni: non saper cosa fare, non saper da dove cominciare.  Ma anche non saper dove mettere le proprie mani sul proprio corpo e su quello dell’altro. 

Molto interessante drammaturgicamente l’inserimento e la modalità di “a parte” con funzione narrativa: aiutano a chiarire, a fare il punto della situazione, a stabilire nessi e differenze tra passato e presente. Facendo riflettere il pubblico, soprattutto sulla mancata assunzione di responsabilità dei genitori riguardo l’educazione sentimentale e sessuale dei propri figli.  Wedekind nel 1891 fu il primo a sentire l’esigenza di assumersi pubblicamente questa responsabilità: nessuno prima di lui ne ebbe il coraggio. Non a caso questo testo è citato da Sigmund Freud come documento di storia della civiltà.

I genitori, come la mamma di Wendla (protagoniste del testo), per un eccesso di protezione preferiscono “fermare” la naturale crescita dei propri figli: “Io ti conserverei così come sei” – confessa la madre a  Wendla, dopo non essere riuscita a trovare il modo per aiutarla a decifrare  i suoi naturali turbamenti. Nell’illusione così – perseverando nel riproporre l’assente linea educativa dei propri genitori – di tenerli al riparo dai turbamenti della crescita verso l’età adulta: “bene avrà chi non muta”. Molto efficace anche la prossemica portata in scena, che parla ancor più eloquentemente del testo di queste dinamiche. 

Di contro, per effetto, i ragazzi disarmati e confusi si scoprono ferocemente curiosi. Emblematico l’interrogativo ontologico degli adolescenti, ricorrente nel testo e nello spettacolo: “perché siamo al mondo? Che senso abbiamo?”. Interrogativo esistenziale che si porta dentro domande quali: “che senso ha il pudore? Cosa si prova a subire violenza? E ad esercitarla? Perché sogno mia madre?  Perché appena guardo una ragazza penso subito a qualcosa di sensuale? Perché non mi piacciono più i giochi ma solo le ragazze, ora?”. 

Tutte domande che trovano un enigmatico habitat nei sogni e che poi entrano con serpeggiante prepotenza anche nella vita diurna. Ma nella realtà è difficile sostenerne il peso. Ed è commovente vedere come nel tentativo di gestirlo, posturalmente i ragazzi in scena osano trattenerlo, senza eccessi, o solo su una gamba, o alternando il peso prima sull’una e poi sull’altra gamba. In Moritz è evidentissimo e parimenti efficace.

Un’insostenibile leggerezza dell’essere che si affaccia ora per la prima volta in una sublime curiosità senza argini, che rischia di farsi mortale. Una morte ingenuamente desiderata come unica via di fuga e insieme come godimento.

Uno spettacolo tragico e poetico dove emerge un meraviglioso “canto” corale a più voci, libero da muri e in cerca di nuovi confini.

Molto intensi anche gli ascolti e gli sguardi di chi resta “a vista” in scena, anche se non primariamente coinvolto nel “canto” interpretativo.


Stagione Sperimentale 2024 Nuovo Teatro Ateneo – Sapienza Università di Roma –


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo OTELLO di William Shakespeare – regia di Andrea Baracco

TEATRO QUIRINO, dal 6 all’11 Febbraio 2024 –

“Sono intorno a noi, in mezzo a noi. In molti casi siamo noi …”

Con un prologo che potrebbe essere anche un epilogo, l’estro del regista Andrea Baracco con acuta provocazione sceglie di orientare il pubblico in sala disorientandolo. Sì, quella che va in scena è una finzione; ma anche no.

Il regista Andrea Baracco

Se è vero – come è vero- che ciò che può l’animo umano è questione che ci riguarda tutti indistintamente, allora ha senso permettersi di additare qualcuno ? In che rapporto sono il vero con il falso ? È proprio vero che il dolore sia così inutile ? 

In un’evocativa scena indistintamente bianca (curata da Marta Crisolini Malatesta), che allude alla Venezia del ‘500 ma non solo, prende vita quella dinamica così tragicamente umana da sorprendere in trappola molti dei protagonisti in scena: quella di cosa arriviamo a fare quando sentiamo che ci viene a mancare il riconoscimento del nostro ruolo sociale ed esistenziale. 

Per Iago è la sua mancata promozione, che vede ingiustamente favorito Cassio; per Roderigo è l’amore per Desdemona, che quest’ultima ricambia però verso Otello; per Brabanzio è il non essere più riconoscito nel ruolo di padre da una figlia risolutamente incline a riconoscere rispetto a un padre ma di più ad un marito e obbedienza a nessuno; per Otello è il lacerante sospetto di perdere la propria virilità e il proprio valore sociale a seguito del supposto tradimento di Desdemona. Una sensazione che può diventare umanamente insopportabile: un po’ un “essere presi a calci come asini che non servono più”. 

Viola Marietti (clown), Federica Fracassi (Iago) e Federica Fresco (Bianca)

Baracco nella sua messa in scena – sinergica alla traduzione e alla drammaturgia curate da Letizia Russo – onora l’eredità dello Shakespeare fine conoscitore, anzi “inventore” dell’umano, come lo definì Harold Bloom: nessuno prima di lui, infatti, ha saputo intercettare e tradurre attraverso l’esercizio del linguaggio e del pensiero le sfumature caratteriali di così tante inclinazioni umane.

E anche qui, in questa tragedia, Shakespeare ci rivela quante forme diverse può assumere la medesima dinamica psicologica nella quale restano incastrati vari personaggi. Tra loro, Iago è l’unico a mettere in campo una reazione più complessa, più maleficamente raffinata. Pur essendo abitato dall’ossessione del suo odio per il Moro, dimostra non solo di gestire magnificamente la sua ansia – così da non cadere preda dei cattivi consigli della fretta – ma soprattutto è l’unico a riuscire a non prendere le distanze dal suo nemico, perversamente escogitando il modo di continuare a servirlo servendo in verità solo se stesso. Un mettersi a servizio, il suo, non dell’amore, della stima e del rispetto verso il suo superiore ma esclusivamente del proprio personale odio, tremendamente vendicativo, nei suoi confronti.

Viola Marietti (clown), Ilaria Genatiempo (Otello) e Federica Fracassi (Iago)

Il taglio registico scelto da Baracco è tale da andare oltre “la questione del genere”: in scena fa salire solo interpreti femminili proprio per rendere manifesto come tali dinamiche più che essere legate a un genere sono la risultanza di sempre nuove combinazioni e dosaggi del maschile e del femminile, che costituzionalmente abitano la psiche di ognuno di noi.

L’effetto sullo spettatore è decisamente spiazzante come è naturale che sia, abituati e viziati qual siamo ad avere solo uno sguardo sull’argomento. E intenzione (dichiarata) del regista Baracco è proprio quella di saggiare le nostre certezze, metterle alla prova, verificarle. Suscitare in noi la fertilità del dubbio e far sì che ci accompagni come saggio consigliere dello stare al mondo. Per vedere oltre le apparenze, per cogliere le meravigliose e tragiche sfumature della nostra natura.

ph Gianluca Pantaleo

Federica Fracassi è mirabilmente “a servizio” dello Iago di Baracco: ci restituisce tutto il godimento – che arriva fino all’eccitazione parossistica – del subdolo celarsi per avvelenare e così manipolare chi ancora non conosce se stesso. Metereologicamente divina nel tessere trame narrative come piogge piuttosto che come tempeste, si manifesta “terapeutica” come l’oracolo di Delfi.

Federica Fracassi è Iago

E autenticamente proprio così vogliono essere i personaggi shakespeariani, nelle cui vene scorre il male assieme al bene; il tragico assieme al comico; il dolore assieme alla terapia. È l’incantesimo della scrittura shakespeariana che Baracco riesce a esplicitare, a rendere fruibile. Perché – come sottolineava Harold Bloom – Shakespeare è un drammaturgo analitico e molto subdolo e man mano che procede nella sua carriera, quello che intende dire al pubblico supera di gran lunga quanto invece è contenuto nei versi. 

Cristiana Tramparulo (Desdemona) e Ilaria Genatiempo (Otello)

Davvero suggestiva poi la scelta registica di ambientare lo spettacolo in una scena poeticamente “vaga”, universale, e portare tutto il sapore, gli odori e i suoni della Venezia della seconda metà del ‘500 dentro i personaggi, dove le donne ad esempio godono di uno status particolare, unico nel mondo di quel periodo. Shakespeare ne viene a conoscenza leggendo il libro di viaggio di Thomas Coryat “Crudezze” scoprendo così donne dal temperamento consapevole e provocante che alla maggiore età potevano rinunciare alla patria potestà, aprire attività commerciali e pochi anni più tardi laurearsi. Donne curiose, esultanti per quel cosmo agitato e imperscrutabile che era la Venezia del ‘500 e così ben descritto nel testo di Giuseppe Manfridi “Shakespeare family”.

Ilaria Genatiempo (Otello), Cristiana Tramparulo (Desdemona) e Francesca Farcomeni (Emilia)

Ricco in fascino e in efficacia il clown interpretato da Viola Marietti: sacro per le sue polarità e per le sue acrobatiche metamorfosi. Per il suo far ridere e far piangere: lui stesso un po’ pierrot di decadente bellezza bohémien. Dapprima quasi marionetta nelle mani di Iago, poi libero di esprimersi nella sua autentica natura.  

Interessante anche la Bianca interpretata da Federica Fresco che porta in campo la tempestosa natura dell’eros e ricorda l’audacia nel mostrarsi delle donne dei pittori del ‘500 veneziano, dal Tiziano al Giorgione.

Giorgione, “Laura”, 1506

Baracco sceglie una recitazione in cui il corpo delle interpreti – di un’incantevole femmilità androgina – diventi linguaggio: quello proprio di ciascun personaggio. Corpi parlanti lingue e vissuti diversi tra loro. Eppure uguali. Corpi che traducono parlando agli occhi.

Sul palco un cast accordatissimo: Iago / Federica Fracassi; Otello / Ilaria Genatiempo; Desdemona / Cristiana Tramparulo; Cassio / Flaminia Cuzzoli; Brabanzio – Emilia / Francesca Farcomeni; Roderigo / Valentina Acca; Clown / Viola Marietti; Doge – Ludovico – Bianca / Federica Fresco.

Andrea Baracco ci consegna uno spettacolo avvincente fino a far male. Crudo e magnifico. Intimo e catartico.


Recensione di Sonia Remoli