Recensione dello spettacolo JAGO – di e con Roberto Latini

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 19 al 22 Dicembre 2024

S’insinua tra noi. 

Nel buio.

Ci versa parole nell’orecchio.

Non sono solo parole. 

Sono un’amplificazione tridimensionale del loro significato. 

Sono la sua eco. 

Ma non solo: lui stesso si fa eco, distorce e si distorce, altera e si altera, deforma e si deforma, risuona ed è risuonato, è armonia e corrispondenza semantica. Si rende suono, si fa udire, si rende palese. 

E’ un concerto.

“Volete ascoltarmi ?”.

Questo il suo esordio: la sua proposta. 

La condizione affinché ci sia “teatro”. 

La condizione affinché Jago possa esistere. Perché prestargli attenzione significa riconoscergli un’identità: la sua, quella autentica. Non come ha fatto Otello.

Si rivela a noi come ad un cielo abitato da stelle: noi spettatori.

Seducentemente si confida: sa come usare le attese, i vuoti. E nel farlo ci fornisce come delle inedite “note di regia”. 

Perché Jago ha un autore, sì, ma poi si fa regista, attore e spettatore.

Entra in scena: la luce lo bagna appena, con sapienza inquietante. 

Si muove di un moto sinuoso, scivoloso, strisciante, quasi una danza. Perché, per far scivolare le volontà dei suoi nemici portandole in un’altra direzione – la sua – lui stesso deve farsi corpo che si lascia plasmare dalla scivolosa seduzione dell’incertezza. 

Ondeggia, s’avvita e si svita. 

Ansima, difatti: la fatica è notevole ma solo così può temprarsi per resistere e vincere (forse), laddove le sue vittime si lasceranno sopraffare.

Solo così potrà dire: “io ero, sono e sarò”.

Indossa un lungo impermeabile: l’impermeabilità vuole essere la logica conseguenza del suo allenarsi ad essere fluido. Così da non lasciarsi permeare dalla paura, dalle raccomandazioni, dai sentimenti gentili.

Ed è così, in questo continuo processo che abita il suo sottosuolo inconscio, che lo Jago di Roberto Latini stupefacentemente “diviene e contiene” tutti i personaggi della tragedia.

E in un’epifania visivamente sonora, ci rende consapevoli di come loro, ciascuno a suo modo, “sono quello che non sono”. 

Rivelazione resa particolarmente mirabile da Latini attraverso l’evocazione di un’immagine che riguarda Otello: “perché vi mordete le labbra – gli chiede sconcertata Desdemona pochi istanti prima di essere da lui uccisa – siete irriconoscibile”. E lui: “C’è una ragione”. Le labbra, qui in Latini, riescono a parlarci di un voler far altro di Otello, di cui resta solo una traccia in quel suo gesto di mordersi le labbra.

Perché “c’é una ragione” che non lo rende libero di essere libero.

Perché “c’è una ragione” che “lo costringe” ad essere libero, in un modo diverso da quello rivelato dal quel mordersi le labbra.

Perché i nostri gesti non coincidono con chi noi siamo, essendo noi un “poter essere”.

Dice infatti anche lo Jago di Latini: “E’ ancora presto. Sono in prova, sono in attesa di scegliere le parole”.

Anche lui, come noi, come i personaggi della tragedia, non è libero di essere libero. Siamo costretti a essere liberi: siamo costretti a scegliere. 

Perché “c’è una ragione”: perché c’é sempre una ragione.

Su questa realtà ci illumina, come solo la luce del buio sa fare, lo “Jago” di Roberto Latini.

Una performance, la sua, dove la luce è gesto. E dove il gesto, così come la parola e il suono, incarnano la cifra del “verde”: il colore la cui definizione ha per lungo tempo predato la curiosità degli artisti, tanto indecifrabile si rivelava il suo essere mescolanza fluida. 

Uno studio, un approfondimento, un’amplificazione, necessari.


Recensione di Sonia Remoli