TEATRO BASILICA, 27 Maggio 2024

E’ la sua voce ad aprire la mise en éspace curata da Andrea Baracco: una voce così materica eppure così in disequilibrio. Oscura, dolente, contorta. Tenera, a suo modo dolce, musicale.
Una voce necessariamente “incompiuta” per potersi rendere disponibile a generare continuamente nuove aderenze linguistico-morfologiche aspre e ruvide. Come quelle che agitano la vita.
Una voce necessariamente “incompiuta” com’è la natura della conoscenza per noi umani: “sempre da dilettanti, altrimenti non ci sarebbe letteratura”.
Una voce necessariamente “incompiuta” perché, come la sua scrittura, visceralmente ossessionata dalla necessità di essere “vera”. E quindi costantemente sul ciglio del precipizio, prossima al crollo.

Vitaliano Trevisan
Ora, soffiando in scena la sua aura, può prendere avvio la rievocazione del suo stare al mondo, che coincide con la particolare postura della sua scrittura.
Ecco allora entrare in scena coloro che fortemente hanno sentito il desiderio di ricordare l’unicità della vita di Vitaliano Trevisan, ritessendola in un arazzo di cui le loro voci si fanno fili.
E’ così che Jacopo Squillazzo – che ne cura l’intreccio drammaturgico – ci propone di partecipare ad una lettura a ritroso della vita di Trevisan, partendo appunto dall’ultimo libro “Black Tulips” e dalle esperienze legate alla fuga in Nigeria, suo paradiso di autenticità esistenziale.
E’ Valerio Binasco ad incarnare le parole di questo testo e a rendere la morfologia di un Trevisan appesantito dal continuo essere attraversato dalla vita così come dalla morte. Ce ne parla l’efficace postura di Binasco: una postura rigida, gravata dal carico che sembra materializzarsi sulle sue spalle, che ne restano schiacciate. Ma reggono ancora queste spalle – facendosi “trasparenti” – il peso dei molteplici frammenti che agitano il caos esistenziale.

Valerio Binasco
Ai suoi passi da sessantenne in Nigeria si intrecciano, diversamente ossessivi, quelli del quarantenne Trevisan dei “Quindicimila passi”. Vivono nella voce di Gabriele Portoghese che ne rende lo stupore ironicamente drammatico del constatare che nulla torna nei conti dei passi. E intanto tutta questa fatica del contare gli ha fatto perdere il senso delle mete raggiunte. Ma gli ha permesso, evitando di farsi cogliere di sorpresa, di non sprofondare nell’abisso esistenziale.
Una modalità – questa di inscrivere nello spazio dei passi e della carta il suo distacco dal dolore esistenziale – che l’arte può assumere per rappresentare credibilmente “la pena riflessiva” della vita: quel rimuginare senza orizzonte che non conosce pace per l’anima. “Un’ arte del tempo”: la sola adatta a rendere ciò che è mobile.

Gabriele Portoghese
Dall’arte ossessiva del contare si arriva di nuovo in Nigeria: qui ad abitare Trevisan è l’ossessione cromatica del suo biancore, e quello di pochi altri, su tutto questo paradiso di nero. Dove ci si può ancora permettere di sdraiarsi sulle panchine.
Privilegio che i veneti e i vicentini non approverebbero, ossessionati quali sono da quel tanto fare (“il mal della piera”) senza però riuscire a “sapersi vendere”. Ed è l’espressività dell’affascinante minimalismo mimico di Daria Deflorian a farsi carne nelle parole seminate in “Tristissimi giardini”.
A lei il compito di “rappresentare” ad esempio il fascino irresistibile di una caduta, come quella che avviene anche in amore, resa con le suggestioni e i ritmi di quella musicalità jazzata propria degli “standards”. Ma Trevisan, e con lui la Deflorian, vanno oltre: qui non c’è il gusto per il gioco ma il riconoscimento di una modalità che rende credibile il pulsare dei pensieri della vita. Ai quali si tende a rimanere legati come ad una catena.

Daria Deflorian
E mentre prosegue l’intreccio della tessitura a 6 mani della vita e della scrittura di Trevisan, noi del pubblico abbiamo come la sensazione di passeggiare accanto a Vitaliano, provando a seguire i suoi passi e le sue fughe, grazie al disegno “libero” dell’arazzo, che intanto si sta componendo. E che rimarrà “fatalmente incompleto”.
Un’inspiegabilità “che non è un invito a risolvere enigmi, non è un invito ad essere arguti, bensì un ammonimento della morte al vivente: ‘Io non ho bisogno di spiegazioni, (…) pensa solo che con questa decisione tutto è finito’» ( da “Accanto a una tomba”, in Standards, vol. 1, Sironi, 2002).
“Farmi domande, a questo mi attengo”: il lavoro “manuale” della scrittura di Trevisan non pretende infatti mettere ordine nella vita, quanto piuttosto renderne – in modo rigorosamente ordinato – l’intrinseco disordine.

Vitaliano Trevisan
Una notte, quella di ieri sera dedicata a Vitaliano Trevisan – in un Teatro Basilica intasato da tutti coloro che non hanno resistito a tornare a rileggere ancora e ancora lo sguardo di un uomo spigoloso, crudo e illuminante qual era lui – che non sarà l’unica.
Questo progetto, che nasce qui a Roma al Teatro Basilica ed è curato da Carnezzeria (direzione artistica Emma Dante e Aldo Grompone), viaggerà infatti in altre città italiane.

Recensione di Sonia Remoli
