L’AMORE NON LO VEDE NESSUNO – regia Piero Maccarinelli

– SPOLETO FESTIVAL DEI DUE MONDI 2025 –

27 Giugno – 13 Luglio 2025

CHIESA DEI SANTI SIMONE E GIUDA

11 Luglio 2025

L’avvincente bellezza de L’amore non lo vede nessuno di Giovanni Grasso – regia Piero Maccarinelli – conquista il pubblico del Festival dei Due Mondi di Spoleto 2025, invitato a godere dello spettacolo nella splendida essenzialitá della Chiesa dei Santi Simone e Giuda (edificata dai francescani dal 1254).

Al cospetto della bellezza descritta e inscritta in un tal luogo, lo spettatore non può non restare profondamente affascinato. 

Chiesa dei Santi Simone e Giuda a Spoleto

Come puó l’amore verso un’altra persona essere qualcosa di grave?
Da dove viene l’amore?


E come mai l’amore, pur tingendosi di atmosfere enigmatiche, di allegrezze crepuscolari, di annebbiamenti deliranti, resta una promessa d’aurora?

Giá dal prendere posto in sala, l’impianto scenico – curato da Piero Maccarinelli in collaborazione artistica con Fabiana Di Marco – induce lo spettatore ad adattare la vista ad una luminositá altra: fascinosamente intima, oscuramente psicologica.

Luminositá che nel corso dello spettacolo si dà in continue transizioni di assolvenze e dissolvenze – la cui cura é affidata a Javier Delle Monache – imbevute nelle raffinate e inquietanti composizioni musicali di Antonio Di Pofi.

Stefania Rocca é Silvia

Le coordinate spaziali del romanzo di Giovanni Grasso sono qui registicamente restituite attraverso due spazi fisici (un bar e un interno domestico) metafora di differenti aree della psiche della protagonista: Silvia, una Stefania Rocca dal fascino lunare; brillante e livida, terrea e vagamente irreale. E’ lei che, all’indomani dell’improvvisa morte della giovane sorella, avverte l’irrefrenabile esigenza di indagare sulla vita di Federica, avvolta in un enigmatico mistero da quando si trasferí dal piccolo paesino di provincia a Milano.

Silvia, inconsapevolmente, si trova – a seguito di questo evento traumatico – a scendere nelle profonditá misteriose della psiche non solo della sorella, ma anche di se stessa. E nelle sue ricerche si muoverá tra lo spazio sconosciuto di un bar – dove finirá per riflettersi nello sguardo narrativo di un misterioso P. – e lo spazio apparentemente familiare di un interno domestico (di casa sua), dove Silvia crede di rifugiarsi. Restando, in veritá, continuamente solleticata dallo sguardo, da vibrante detective, dell’amica Eugenia.

Stefania Rocca (Silvia) – Giovanni Crippa (P.)

Attraverso un intrigante gioco di domande con il misterioso sconosciuto P., intravisto al funerale della sorella (un irresistibile Giovanni Crippa, luminoso nella restituzione delle sue fragilitá) e con la poliedrica e fertile amica Eugenia (una solida ed emotivamente sfaccettata Franca Penone) Silvia si ritrova introdotta in una potente ritualità oracolare dove, chiedendo di sapere dell’altro, si arriva a conoscere se stessi.

Le simboliche coordinate spaziali del bar e del soggiorno della casa di Silvia sono poi immerse, dalla regia di Maccarinelli, in una particolare temporalitá scandita da un rituale trasformativo, efficacemente reso attraverso repentine assolvenze e morbide dissolvenze.

Stefania Rocca

La scelta di tali coordinate temporali – al di lá della funzione tecnica di passaggio da una scena all’altra –  si dà quale sensuale transizione di contrastanti stati emozionali, che si rivelano nella loro splendida e oscura coesistenza. 

Transizioni, ovvero progressive forme di consapevolezza interiore, ben visualizzate anche attraverso un seducente disegno prossemico. Nonché attraverso un graduale “cambiar pelle” della protagonista. La quale, apparentemente sempre piú intrigata dal racconto della vita misteriosa della sorella, vediamo riaccendersi in una nuova femminilitá cromatica, sia vocale che posturale. Un vero mutamento e arricchimento del suo habitus (modo di essere), completato da una loquace trasformazione delle scelte d’abbigliamento (la cura dei costumi é di Gianluca Sbicca).

Piero Maccarinelli , il regista

Far “coesistere” le nostre differenti spinte interiori (conscie e inconscie) significa infatti saper accogliere e tenere insieme, preferibilmente in amicizia, qualcosa di contrastante – ma proprio in quanto tale fecondo – che istintivamente invece vorremmo ricondurre all’univocacitá e all’esclusivitá. Per questo la complessa tensione a gestire la dualità propria del rapporto amoroso, ma anche del rapporto fraterno, e del relazionarsi con l’altro in generale, rischia facilmente di sfociare in manomissioni emotive e atteggiamenti manipolatori. 

E’ quello che accade a Silvia. Ma è anche quello che precedentemente era accaduto a sua sorella Federica e a P. Ognuno con il proprio vissuto personale, ognuno con un enigma esistenziale da sciogliere, da decifrare, da interiorizzare. Nell’attesa di imparare ad accettare se stessi, e poi gli altri, nel bene e nel male. Senza pretendere di conoscere tutta la verità.

Stefania Rocca



Non a caso fin da piccoli veniamo indirizzati verso il “gioco”: splendida metafora dell’imparare a tenere insieme il nostro “io” con quello degli altri, attraverso il rispetto di determinate regole. E non a caso, da grandi, continuiamo “a giocare” allacciando “patti”: come qui P. propone a Silvia, avendolo in qualche modo scoperto con Federica. 

Il “patto”, ancor più del “gioco”, richiede fiducia nell’altro e la fiducia è fondamentale per dare vita a una dualità che possa moltiplicarsi in una vera e propria comunità. Senza fiducia, infatti, non può esistere nessuna forma di socialità. E sebbene, per natura, l’uomo venga corredato alla nascita con un istinto alla sopraffazione per riuscire a sopravvivere, per vivere occorre imparare a fidarsi dell’altro.

Stefania Rocca e Giovanni Crippa



Fidarsi soprattutto del “diverso” da noi, di ciò che essendo così “straniero” sembra avere l’odore del nemico. Ma lo “straniero” è un ospite che chiede di essere accolto in noi. Lo scopre P. quando quella sua intransigenza verso gli incerti e i peccatori, arriva a viverla sulla propria pelle, nel momento in cui la vita gli mette Federica sulla sua strada.

Lo stesso “vissuto” della location scelta per mandare in scena le prime repliche di questo spettacolo – la Chiesa dei Santi Simone e Giuda – incarna perfettamente la spinta ad accogliere le diverse ospitalità trasformanti, che sono solite abitare la vita: oltre che chiesa é stata infatti caserma e parte del convitto per gli orfani dei dipendenti statali. Ed ora é spazio espositivo e spazio teatrale.

Ma anche il Festival dei Due Mondi di Spoleto é una fulgida testimonianza dell’apertura alle diversitá, essendosi originato dal desiderio di Giancarlo Menotti di far dialogare la diversitá del mondo culturale europeo con quella del mondo culturale americano.



Effetto allora di questo accattivante testo di Giovanni Grasso – sapientemente restituito dalla regia di Piero Maccarinelli – è quello di catturare lo sguardo emozionale dello spettatore, sospingendolo a continuare a dedicare tempo a interrogarsi non solo sull’enigma che lega i personaggi del romanzo ma anche, a qualche livello, sull’enigma della propria esistenza. 



Perché la Vita è un enigma, così come ognuno di noi è un enigma. 
Perché anche l’Amore è un enigma e così é la Morte: lo stesso necrologio che P. dedica a Federica ha la struttura di un enigma. 

E l’enigma, da sempre, chiede di essere decifrato. Chiede una vita di indagini su se stessi, attraverso la lente dello sguardo dell’altro. 

E questo é il messaggio che serpeggia in tutto lo spettacolo: sebbene le separazioni, i confini, le regole e le definizioni abbiano l’effetto di risultarci così rassicuranti – perché ci illudono di fare ordine nel disordine che ci costituisce – è il riuscire a mantenere “la coesistenza” delle nostre contrastanti spinte interiori che ci realizza come esseri umani. Che ci permette di offrire e di ricevere fiducia.

Fino ad arrivare, magari, a fare esperienza anche dell’Amore: attraverso quello “sguardo” che gli amanti sanno scambiarsi. Unica occasione – sostiene Sant’Agostino – in cui epifanicamente si manifesta, pur non vedendosi, l’Amore. 

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL CASO KAUFMANN di Giovanni Grasso – regia di Piero Maccarinelli –

TEATRO PARIOLI, dal 25 al 29 Ottobre 2023 –

“La calunnia è un venticello/Un’auretta assai gentile/Che insensibile, sottile/Leggermente, dolcemente/Incomincia, incomincia a sussurrar.

Piano, piano, terra terra/Sottovoce, sibilando/Va scorrendo, va scorrendo/Va ronzando, va ronzando/Nell’orecchie della gente/S’introduce, s’introduce destramente/E le teste ed i cervelli/Fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo/lo schiamazzo va crescendo/Prende forza a poco a poco/Vola già di loco in loco/Sembra il tuono, la tempesta/Che nel sen della foresta/Va fischiando, brontolando,

E ti fa d’orror gelar…” (da “Il barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini)

Banalmente gelati d’orrore ci lascia infatti il proemio, affidato alla ex collaboratrice domestica di Leo Kaufmann (una Franca Penone maledettamente efficace nella sua dannata ipocrisia): una donna che, ancora dopo anni dall’esecuzione capitale del suo datore di lavoro, non riesce a provare rimorso per le conseguenze mortali che le sue calunnie, unite a quelle dei “bravi” cittadini del quartiere, hanno provocato.

“Se le leggi erano ingiuste, io non lo so. Di certo non le ho fatte io. Le leggi, caro signore, le fanno i potenti: e noi poveracci, che sgobbiamo tutto il giorno, non possiamo far niente, se non ubbidire. Io caro signore, ho la coscienza a posto, ho fatto il mio dovere, ho rispettato le leggi”.

E così, banalmente appagata da una passiva sottomissione alle leggi razziali, si bea del suo essere una brava cittadina, sfoggiando disumane giustificazioni al suo “aver fatto la pelle” all’ebreo Kaufmann. Un po’ con lo stessa fierezza con la quale esibisce “la pelle fatta alla volpe” con la quale si adorna il busto (i costumi sono curati da Gianluca Sbicca). Come la moda del tempo, infatti “detta”.

Eppure nella natura umana l’odio viene prima dell’amore. La spinta alla sopraffazione è la spinta che preme in massima misura in noi.

L’ amore invece s’impara. Così come la generosità, la misericordia, la sana complicità e quindi il riconoscimento della diversità dell’altro. È una costruzione difficile ma possibile. L’umanità si guadagna, si può guadagnare, seppure la spinta alla violenza resti una forte tentazione.

Ed è questo il messaggio che arriva allo spettatore dalla narrazione così drammaticamente significativa dell’omonimo libro pluripremiato di Giovanni Grasso, messo in scena e sapientemente enfatizzato dalla sublime eleganza della regia cinematografica di Piero Maccarinelli. 

L’autore Giovanni Grasso

La stessa costruzione dello spazio scenico (curato da Domenico Franchi) sembra alludere all’ambiguità della natura umana: dove da un lato il male regna e spinge per natura, dall’altro il bene si fa strada attraverso un costante esercizio. Quello cioè a dar voce a quell’interiorizzazione della legge, che si realizza quando ci si avvicina alle regole con spirito critico e non con mera sottomissione. E gli splendidi interventi musicali di Antonio Di Pofi nonché il disegno luminoso di Cesare Agoni ne sottolineano l’ambivalente densità.

Erano felici il Sig. Kaufmann, ebreo, e la giovane figlia del suo amico Irene, ariana.

Erano felici perché non aderivano passivamente alle leggi razziali della Norimberga degli anni ’30. 

Erano felici perché in loro ancora riusciva a farsi strada la legge del desiderare: del piacere a costruire relazioni umane vive e vibranti. Nonostante tutto.

Viola Graziosi (Irene) e Franco Branciaroli (Leo)

Relazioni che riescono a sopravvivere nonostante tutta la miseria dell’odio. Infatti, seppur separati dalla calunnia e dall’orrore delle leggi razziali, Leo e Irene non smettono di pensarsi. Non smettono di continuare a vivere nella gratitudine del ricordo, senza cedere ad una paralisi nostalgica. L’ultimo desiderio di Leo sarà quello di mandare ancora un messaggio a Irene, condannata a quattro anni di lavori forzati, per farle sapere che a lei deve quegli attimi di felicità che hanno illuminato la sua esistenza.

Il regista Piero Maccarinelli

Contro la tossicità del regime nazista, la fertile sinergia tra il testo di Giovanni Grasso e la regia di Piero Maccarinelli, riescono ad evidenziare il prezioso intreccio di relazioni umane che si tesse tra la giovane Irene, l’anziano Leo e il cappellano del carcere che raccoglie l’ultimo desiderio di Leo e lo accompagna nelle ore che lo separano dalla morte. 

Franco Branciaroli (Leo)

Franco Branciaroli entra nell’anima di Kaufmann in primis attraverso la voce. È il suo un “dar voce” al personaggio e alla persona – il libro di Grasso è infatti liberamente ispirato ad una storia vera – che prende corpo mirabilmente in una voce dalla solennità epica. Che tende a “dilatarsi” al di là della costrizione delle barre della cella di sicurezza. Al di là dell’odio e della calunnia che lo circondano e che lo hanno assediato. Una voce che si fa strada come una melodia.

Una vittima lui sì, ma dal carisma di un eroe della più fulgida umanità. Di tremenda e lacerante bellezza, poi, il suo monologo finale che magnificamente chiude circolarmente l’immagine iniziale del suo sentirsi “ombra”: solo proiezione di un corpo.

Eppure un corpo lui lo ha avuto davvero, almeno per un periodo: quello successivo all’incontro con Irene. Un incontro di una tale straordinaria umanità da rompere il normale corso del tempo abituale. “È apparsa” – dice lui. Quasi un’epifania. Il sangue torna a scorrergli nelle vene, la vita si riempie di sapori. Non è più dominata da un’inappetenza cupa e cruda. È splendida la resa interpretativa di questo fertile scambio di pensieri e di emozioni tra i due interpreti.

Viola Graziosi (Irene)

Viola Graziosi regala ad Irene una vitalità inebriante. Lei è l’incarnazione del desiderio vitale, produttivo, che porta ad esprimere il meglio di noi umani. Tutto in lei parla di curiosità. Una curiosità che dà frutto: che sublima la spinta a sopraffare l’altro attraverso la meraviglia e il rispetto per la diversità dell’altro. Incluse tutte le difficoltà dell’incontrarsi sul confine. Ma questo è il trionfo dell’essere “umani”. È il compimento del “conoscere se stessi”.

Graziano Piazza (il cappellano)

Una splendida umanità la sua, colta immediatamente anche dal cappellano: un Graziano Piazza che brilla in “sacralità”. Non è un semplice prete. È come il dio di un giudizio universale. Un dio che si commuove di ciò che siamo riusciti a fare con ciò di cui lui ci ha fatto. E insieme è un uomo che dona ascolto e regala attenzione alla controversa bellezza della natura umana. Di più: sceglie e promette di essere “testimone” dell’eredità di questa storia. Un personaggio di grande umanità e di profonda bellezza.

Il cast al completo

Molto accordati ed efficaci sulla scena anche Franca Penone, Piergiorgio Fasolo, Alessandro Albertin e Andrea Bonella.

Necessaria la scelta del Teatro Parioli di aprire ieri sera la stagione teatrale 2023/2024 con questo inno all’umanità, potente auspicio anche alla risoluzione delle conflittualità attuali.

Perché “l’indifferenza è peggio dell’odio”.

In sala il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad onorare la bellezza incandescente dello spettacolo, oltre a numerose personalità del mondo politico. 


Recensione di Sonia Remoli