PINOCCHIO – adattamento e regia Maria Grazia Cipriani

CHIOSTRO DI SANT’AGOSTINO di SAN GINESIO (MC)

20 Agosto 2025

GINESIOFEST , dal 20 al 25 Agosto 2025 , San Ginesio (MC)

Dal sinergico magnetismo di un ensemble, dove all’adattamento drammaturgico e alla regia di Maria Grazia Cipriani si accordano le scene e i costumi di Graziano Gregori, il suono di Hubert Westkemper e le luci di Angelo Linzalata, si rivela epifanicamente un Pinocchio che si tatua sulla pelle dello spettatore. 

Grazia di questo ensemble il tradurre da “Le avventure di Pinocchio” di collodiana memoria tutto il meraviglioso furore di un viaggio verso la consapevolezza di sé. E’ la drammaturgia del suono di Hubert Westkemper a guidare lo spettatore nel restare musicalmente complice di quel mistero dell’ineffabile, che si muove sul confine tra l’essere e il non essere: su quell’eterno transitare tra vita e morte, tra luce e buio, tra suono e silenzio. Qui, infatti, il suono si condensa in materia luminosa, come nell’esperienza del Pescecane, che vediamo sinesteticamente con le orecchie.

Cifra di questo ensemble l’imprimere sulla sensibilità dello spettatore la consapevolezza di come un percorso di formazione – non solo quello di Pinocchio – non si realizzi nel separare sempre meglio il bene dal male. Attraverso il loro Pinocchio viviamo infatti l’esperienza del limite: quella dimensione della fragilità e della vulnerabilitá dove però la paura si abbraccia al coraggio, la vita alla morte, la luce al buio, il suono al silenzio. Perché crescere – ci ricorda Maria Grazia Cipriani – significa imparare a fare qualcosa di interessante anche del nostro peggio: delle nostre ombre, dei nostri lati oscuri.

Questo Pinocchio del Teatro del Carretto é un Pinocchio nudo: scorticato della corteccia del perbenismo moralistico. Un Pinocchio restituito nella sua essenza ontologica di colui che é in cerca di umanitá: fuori, ma prima ancora dentro se stesso.

Un Pinocchio meravigliosamente fragile nel suo sentirsi dilaniato tra la ricerca di una generosa gestione della libertá e la tentazione ad abdicarvi, per scegliere un’immediata narcisistica soddisfazione. 

Lo stesso spazio scenico – metafora di una dimensione altra, inconscia – si dá come un semicerchio di apparente sicurezza che si affaccia su un vuoto tutto da esplorare: al di lá e al di qua di questo confine. Un confine in realtá osmotico, dove Pinocchio rivive – e progressivamente rimuove – i traumi della sua storia. Grazie al potere del racconto, che libera e insieme recupera e tiene insieme ciò che invece potrebbe andare perduto. 

Magnifica la bellezza con cui registicamente viene resa la propensione di Pinocchio a “farsi prendere in giro”. Che qui diventa un concetto visivo rappresentato dal gioco-giogo della giostra. Dove Pinocchio “lega” la propria libertá al furore del desiderio di un altro. Preferendo, a qualche livello, lasciarsi “domare” nell’illusione di affrancarsi così dall’insostenibile leggerezza del sentirsi libero. O, per dirla sartrianamente, illudendosi di affrancarsi dalla condanna ad essere libero.

E così, attraverso l’utilizzo di linguaggi che sanno raccontare senza far ricorso ai principi della logica, arriva allo spettatore la percezione che la difficoltà di Pinocchio ad entrare in una sana relazione con i personaggi delle sue avventure sia una metafora della difficoltà ad entrare in relazione con le varie aree della propria personalità. 

Difficoltà che ci parla dell’inclinazione di Pinocchio a muoversi spinto da un comando: che sia l’impazienza del suo desiderare o il desiderio manipolatorio degli altri. Incapace (ancora) di essere consapevole e di contenere il suo desiderare.

Il Pinocchio restituito da Giandomenico Cupaiuolo recupera il respiro ancestrale di una creatura del nostro inconscio collettivo. Creatura che trova completamento e realizzazione  attraverso l’interazione con il coro delle altre aree relazionali della sua psiche, tra loro in contesa. Aree che si danno come personaggi – sono quelli di Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Carlo Gambaro, Ian Gualdani, Filippo Beltrami – tutti qui coinvolti in un’interessantissima esplorazione di quel qualcosa di sacro che scaturisce dall’incontro/scontro tra l’umanità dell’interprete e la figura inanimata della maschera; tra la dimensione del viaggio interiore e la concreta artigianalità. Il loro habitus è prevalentemente di un bianco così abissale, da incutere più timore del rosso sangue o del nero habitat in cui convivono.

La sviolinata manipolatoria della Volpe – così efficacemente resa senza il ricorso al linguaggio della logica – ad esempio si scontra con l’area del dubbio,`di quel “ Pinocchio, non ti fidare” protettivamente sussurrato dalla Fata ( qui turchina nell’essenza: una Elsa Bossi accattivante nel suo attraversare una prima dimensione fanciullesca, per poi sconfinare in quella del femminile di donna, fino a contattare l’accoglienza del contenimento materno). Perche’ a differenza di quello che la Volpe vuol far credere a Pinocchio “ Tu, io e lui” non fanno necessariamente un “noi”, cioè una vera relazione.

E’ del Pinocchio di Cupaiuolo la disponibilità a far sì che diverse declinazioni del respiro producano tensioni per gesti impulsivi, nervosi, diretti, quali quello del burattino. Ma anche più raffinatamente complessi e poetici, quali quelli della marionetta. Meraviglioso poi il confrontarsi di queste tensioni con la sinuosità generosamente morbida della Lumaca: elogio di quella lentezza, così lontana (ancora) dal fare di Pinocchio.

Sorprendente e dalla grazia inquietante anche il lavoro di Cupaiuolo sulla vocalità: ondivaga eppure ostinata; impertinente e spudoratamente ingenua; insensibile e commovente. E poi nel  momento prima che il cappio arrivi a chiudere completamente la gola del suo Pinocchio, suo è il restituire il vuoto dell’urlo, che progressivamente trova sempre meno cavità aerea.

Questa del Teatro del Carretto è una preziosa testimonianza di come un classico della letteratura si possa continuare ad esplorare, recuperandone sempre nuove sollecitazioni. A partire dall’indagine del concetto di “avventura”, che qui rivela come il meraviglioso abbia in se non solo qualcosa di straordinario, di promettente e di rischioso. Ma anche l’idea del suo darsi come “ció che deve accadere” (incluso l’attendere) per il realizzarsi di un’autentica crescita. Perché  quello dell’avventura non è un avvenire semplice, ma ricco tanto di pericoli quanto di opportunità. Non è sorte né buona né cattiva: è sorte faticosa, incerta ma, insieme, promettente orizzonte di conoscenza e di realizzazione. Dove la relazione con il diverso, con l’Altro da sé, è anche scoperta dell’Altro in sé.

Un Pinocchio, il loro, che ci ricorda che  siamo sempre alla ricerca di qualcosa che non conosciamo: che le avventure della vita si sviluppano attorno a un vuoto, a un disagio, che possiamo utilizzare come motore che spinge verso un atteggiamento di curiosa esplorazione. Che non pretende di ingabbiare il futuro in schemi già collaudati, ma che si lascia guidare dalla forza creatrice del desiderio.

Ed è furore.

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo INTERNO ABBADO – scritto e diretto da Andrea Baracco –

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 5 all’ 8 Dicembre 2024

Desiderare epidermicamente aderire. 

Fino a fondersi.

Un desiderio erotico? 

Una possibile definizione di amore?

Un peccare nel desiderare tanto l’altro?

Sicuramente qualcosa che ci racconta visceralmente del nostro essere misteriosamente umani. Qualcosa che ha l’irresistibile afrore dell’arcaico sopraffare. Ma anche qualcosa della simbiotica tensione alla completezza, propria di una dimensione mitica. Quell’unità platonica che rendeva gli uomini simili a dei. 

Ma quanto, di divino, noi umani siamo capaci a esprimere, a godere, a tollerare?

Quanto il nostro corpo finito riesce ad arginare quella scintilla divina, che tutti ci abita?

Qual è il nostro desiderio più profondo, più viscerale, più erotico ?

Quello di essere guardati, forse.

Perché essere guardati, con continua curiosità, ci fa esistere.

Perché guardare è intrigante non meno dell’essere guardati.

Perché ciò che davvero appaga costantemente la nostra folle scintilla divina, costretta a bruciare dentro i confini di un corpo, è il cimentarsi nell’apprendere l’arte di intessere una partitura di vuoti e di pieni epidermici. E’ l’arte di entrare in relazione con l’altro.

Andrea Baracco

Anche di questo ci parla la bellezza spietata di “Interno Abbado”, un testo di Andrea Baracco sul mistero di essere umani.  Un testo che, oltre ad essere cucito sartorialmente come un noir, ci parla hegelianamente di come non ci sia niente di più profondo di quello che appare in superficie.

La cute in superficie e l’Io in profondità raccontano la stessa storia di assorbimento e di termoregolazione.  

La cute in superficie e l’Io in profondità rappresentano un complesso àmbito di separazione-unione-comunicazione: con se stessi e con il resto del mondo.

La cute in superficie e l’Io in profondità rivelano i segreti l’una dell’altro: quei segreti sprofondati nel nostro inconscio, spesso propri del vissuto di un organismo, che soffre da così tanto tempo da non poterlo più nascondere. 

Baracco cura callidamente anche la regia dello spettacolo e individua in Giandomenico Cupaiuolo l’interprete capace di incarnare e, a qualche livello, sublimare “la summa” delle esistenze interne ed esterne, che abitano questo racconto. Così come il nostro essere gettati al mondo.

Giandomenico Cupaiuolo

Il regista con elegante e tagliente acutezza si avvale poi di un’estensione fisica e metafisica alla “summa” delle esistenze del racconto: il suono di un particolare strumento musicale e la presenza scenica del suo interprete Edoardo Petretti.

Edoardo Petretti

Uno strumento musicale, la fisarmonica, che accende e infiamma l’anima. Ma che da sempre è considerato un pò troppo “pop” e quindi scarsamente preso in considerazione dai compositori classici (fatta eccezione per Čajkovskij , Verdi e pochi altri). 

 In verità, la fisarmonica è “uno strumento-orchestra” pieno di imprevedibili possibilità. Perfetto, anzi speciale, per questo testo di Baracco che è, tra le altre mille cose, anche un racconto sull’imprevedibilità umana. 

Imprevedibilità resa con sapiente follia da un Giandomenico Cupaiuolo che si fa lui stesso “strumento musicale”. Il suo apparato respiratorio, quasi come un mantice, cerca e trova un respiro che riesce a far vibrare la scala delle “voci” delle sue esistenze. 

Un respiro che si origina da una sorta di gocciolio: un suono indecifrabile, arcaico, magicamente animalesco ma non lontano da uno schioccare di lingua umano. E che poi si sviluppa attraverso la ricerca di una contrazione e di una apertura estensiva, necessari ad estrarre il potenziale sonoro dalle voci esistenziali che abitano “la summa” dei suoi personaggi.  Ne parlano visivamente le sue spalle: “mantice nostalgico, amaramente umano, che tanto ha dell’animale triste…” per dirlo alla G. G.Marquez.

L’ampiezza di registro e di voci utilizzabili, unita ad una grande duttilità nelle dinamiche, nei modi di attacco e di articolazione del suono, fanno delle sue spalle un fulcro di sublime espressività timbrica e ritmica.

L’estro registico di Andrea Baracco è tale da rendere “strumento musicale” un corpo umano e “corpo umano” uno strumento musicale. Lo spettatore ne riceve in dono un incredibile senso di avventura, riccamente denso del brivido della scoperta.

Che cosa sappiamo in fondo di noi?

Siamo più o meno consapevoli di impiegare spesso tutta una vita a tenere a bada certi nostri inquieti slanci “interni”, attraverso “rassicuranti” rituali tra il sacro e il profano (come argutamente suggerisce la messa in scena del regista Baracco). Ma il lavoro di contenimento di una vita può rompere gli argini senza preavviso. E rivelare racconti stupefacenti di noi stessi. 

Quel “the dark side of the moon” che può manifestarsi epifanicamente, ad esempio, quando quel certo nostro amore scompare come spuma tra le onde. E, di quello che è stato, non resta nulla nell’aria a ricordarci che siamo amabili perché siamo stati amati.

Quel “the dark side of the moon” che denuda un “interno”, fisico e psichico, imprevedibile. Sguardi e attenzioni, mancati o subiti, che qui ci si illude follemente di recuperare attraverso i mille occhi della pelle dell’altro.

“Mentre la luna di lassù sta a guardare”.



Recensione di Sonia Remoli