NERONE: autoritratto con figure – regia e ideazione Fabrizio Arcuri – testo Fabrizio Sinisi

MOISAI 2025

DOMUS AUREA di ROMA

3 -19 Ottobre 2025


con Gabriel Montesi e Iaia Forte /Francesca Cutolo

contralto Maurizio Aloisio Rippa


E’ al cospetto di un inquieto vento di libertà che lo spettatore – attratto in questa ammaliante esplorazione teatralizzata della Domus Aurea – sente fin dal principio di doversi relazionare.


Un inquieto vento che si versa anche nelle orecchie attraverso un accattivante brano musicale che poi finisce per caricarsi del potere della parola. Insistendo sulla più potente delle parole: “Immaginate!” 


Con un piglio di fulgente poesia, qualcuno ci invita a guardare l’ingresso della Domus Aurea cercando oltre quello che l’apparenza ci suggerisce. 
La grazia della sua voce vagamente ipnotica, unita alla liricità delle sue parole, fanno sì che davanti ai nostri occhi di visitatori inizino a palesarsi laghi, pascoli, fiumi, leoni… 

Un eden terrestre dove la Domus Aurea un tempo si inseriva, quale organismo di luce. L’appellativo “aurea” derivava infatti dalla straordinaria capacità plastica con cui la luce, qui, riusciva a modellare e a manipolare i pieni e i vuoti. 

COMPLESSO DELLA DOMUS AUREA – RICOSTRUZIONE DI www.katatexilux.com

E poi un sussulto: quella voce esce dalle cuffie ed entra nei nostri occhi. Ma di lato: è necessaria una leggera torsione per localizzarla. 
Lui (interpretato da un sapientemente ambiguo Gabriel Montesi) è spavaldo e ritroso; sicuro e insieme affamato di attenzione.

Dice di chiamarsi Lucio (anche uno dei nomi di Nerone) e di essere una guida turistica.
Ma la sua è sagacia e ne avvertiamo immediatamente l’acutezza. 
Lui è un ponte, un medium, tra noi e la sua anima più segreta.
Sua, la capacità di trasformare l’esperienza turistica in un’immersione profonda nell’anima, oltre che nella storia, di un luogo. Un luogo che è specchio e incarnazione di un uomo; di un artista ancor più che di un imperatore. Di un artista incompreso. 

Un luogo nato da necessarie ceneri – ci dice – perché occorre distruggere per ricostruire – ci confessa. E la cenere depositatasi in 9 giorni di fuoco diventò come una pagina bianca, in attesa di essere scritta. Come?

Come un Tempio dedicato alle Muse, custodi delle Arti; un tempio, la Domus Aurea, che ora lui sente il bisogno di restituirci attraverso “la sua personale” interpretazione, così da vederlo anche noi con nuovi occhi.

“Io sussurro, confesso, racconto e metto in scena per voi uno spettacolo”.


Uno spettacolo sotterraneo e luminoso, il suo, che riconsegna vitalità a ombre, coinvolgendo lo spettatore in esperienze e confessioni appassionate. Capitale umano intimissimo, che le fonti scritte non possono trasmettere.

(ph. Lorenzo Masotto)

Come il disvelamento della sua anima: così profondamente incline all’arte ma sempre “sotto copertura”, come troppo spesso destino di artisti inghiottiti dal proprio presente. Ora invece, in questo nuovo percorso tra le stanze della Domus – anche stanze della sua anima – lui cerca e trova l’occasione di regalare luce al suo sè artistico, ma anche a tutti quegli artisti “servi delle Muse” che ha incontrato nel corso della sua giovane esperienza di vita.

Incluso l’esercito di operatori che rendono possibile questo viaggio sotterraneo e subconscio. 

Ed è così che noi visitatori si cammina e ci si incanta. 


Attraverso il suo sguardo, custode segreto di tanta bellezza, possiamo godere della nuova vita riconsegnata alle Muse: ora tornate a far danzare i loro corpi, le loro mani, le loro voci. Come fantasmi. Grazie alla partecipazione degli Attori e Attrici dello Stap Brancaccio e della Compagnia di Danza e Circo Contemporaneo Claudio e Paolo Ladisa. E grazie agli interventi coreografici eseguiti dalle Danzatrici dell’Accademia Nazionale di Danza.


Musa tra le Muse, sua madre: “ in due sillabe l’invocazione a un Dio”.

E, insieme, “il mio sergente di ferro”.


In un rimando di specchi, ci confida che suo desiderio di bambino era farsi leggere da lei l’addio con cui Andromaca tenta appassionatamente di trattenere Ettore. Ed è un ricordo che Lucio vuole rivivere con noi, complice una fascinosa Agrippina, interpretata con superba delicatezza da Iaia Forte


C’è poi un’altra scena da rivivere: quella che fa saltare il suo ingombrante legame con il padre e il suo fratello adottivi. Sua madre ne sarà l’artefice. Con un solo colpo, saltano i due uomini con i quali Lucio doveva condividere le attenzioni di sua madre. O meglio i due uomini la cui vista riempiva gli occhi di sua madre:

“ Io per farmi notare, dovevo fare il matto”. 


Ma questa visita in un pianeta precedentemente dormiente, fuori e dentro la sua anima, restituisce finalmente dignità alla sua indole artistica:

“Io, Lucio, sono riuscito a fare quello che Nerone non è riuscito a fare”.

Attento com’era lui, Nerone, a muoversi in quella jungla che è la vita di sopra: una guerra per affermare se stessi. 
Ora però – attraverso questo suo “autoritratto con figure”, attraverso questa sua autofiction – Lucio coglie finalmente l’occasione per dare luce alla sua invisibilità di artista:

“Guardatemi, sono davvero speciale !”

La Sala Ottagona


E poi ci conduce nell’ultima stanza della sua anima, la Sala Ottagona, dove confessa – sulle note di un canto di struggente bellezza, interpretato dal contralto Maurizio Aloisio Rippa – il suo tremendo senso di colpa per l’uccisione di sua madre.

E qui si compie la parte finale di un rito di sublime incanto, che trova suggello in quel bacio – a lui così caro – che sua madre era solita regalargli da piccolo. Ancora una volta proprio lì, sul lato del collo: tra la bocca e la gola. 

E’ un’esperienza magica questo percorso teatralizzato in Domus Aurea, ideato e diretto da Fabrizio Arcuri e scritto da Fabrizio Sinisi. Che porta alla scoperta di un Nerone bisognoso di farsi conoscere anche come Lucio, l’artista. Che qui si dà come uomo dei nostri giorni, eccezionale guida turistica di una parte della sua anima. Finora invisibile. 


Un’occasione memorabile.

Recensione di Sonia Remoli



Recensione del film CAMPO DI BATTAGLIA – regia Gianni Amelio –

Con

Alessandro Borghi

Gabriel Montesi

Federica Rosellini

 Film presentato all’ 81ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica 

Quante forme può assumere il nostro slancio vitale, immerso nell’emergenza traumatica della guerra?

Nella cornice che si avvia a chiudere il Primo Grande Conflitto Mondiale e ad aprire il fuoco dell’attenzione sull’esplosione della successiva guerra pandemica della Febbre Spagnola, lo sguardo poeticamente lacerato di Gianni Amelio riesce a relazionarci alla guerra da un’insolita prospettiva: quella che la vede campo di battaglia tra inedite forme di slancio vitale.

Il regista Gianni Amelio

Il film si ispira, realizzandone un libero adattamento, al libro di Carlo PatriarcaLa sfida” e ha, tra le altre cose, il merito di riaccendere l’attenzione cinematografica sulle conseguenze – mediche ed esistenziali – provocate dalla guerra e dalla pandemia della febbre spagnola, che raggiunse il suo picco nell’ottobre del 1918. Un trauma di cui si è poco parlato al tempo, per vari motivi, non ultimo quello per cui all’epoca costava troppo ammettere di brancolare nel buio. 

Ma ogni trauma è tale proprio perché accade un evento per il quale le attuali risorse per affrontarlo non si rivelano più efficaci. E seppur immersi nel buio, ne vanno ricercate delle altre. Perché “sopravvivenza” non equivale più solo a “resistenza”. Perché diverse sono ora le paure e le aspettative. Perché mutando i confini della libertà, emergono necessariamente altre identità di noi stessi.

Ed è  all’interno di questo disperato campo di battaglia civile che desidera indagare il prezioso film di Gianni Amelio.

Gabriel Montesi (Stefano)

Stefano (Gabriel Montesi) è uno dei due ufficiali medici di un ospedale militare del fronte trentino-friulano. Pur dichiarando di essere ormai insopportabilmente insoddisfatto del lavoro che svolge, non ce la fa ad uscir fuori da questa situazione stagnante che lo sta spegnendo. E che equivale – proprio nel suo rimanere cieco e sordo a come si stia modificando il suo sguardo sulla guerra – ad una sorta di automutilazione del suo slancio vitale.

Federica Rosellini (Anna) e Gabriel Montesi (Stefano)

Un accecante senso del dovere verso la patria e verso l’appartenenza allo status borghese lo portano allora a riversare la sua insoddisfazione in una disamina ossessiva tra chi, dei malati ricoverati, “deve” tornare a combattere al fronte e chi invece “deve essere giustiziato” avendo mentito sul proprio stato di salute, traumatizzato dall’esperienza di guerra appena fatta. 

E’ un gioco di specchi quello che lui inconsapevolmente mette in atto: anziché prendersi cura dell’effettivo stato di salute fisica e morale dei militari, punisce e obbliga chi non dimostra (un ottuso) slancio vitale nel ritornare al fronte, per compensare il fatto di non riuscire lui stesso ad affrontare la guerra con lo stesso slancio iniziale. Il suo fanatismo politico si trascina dietro allora un fanatismo medico, pur di non trovarsi lui stesso faccia a faccia con la nausea che lo pervade e che gli parla della necessità, ora, di un cambio di slancio vitale.

Gabriel Montesi (Stefano)

Come se cambiare punto di vista significhi esclusivamente essere inefficienti e traditori. E non anche avere la capacità di rimanere in contatto con la natura autentica del proprio sentire, che necessariamente muta immersa in un diverso contesto socio-esistenziale.

E infatti non è un caso che l’ossessione verso l’efficientismo predisponga alla prepotenza tipica degli intolleranti, che attribuisce paranoicamente all’Altro le proprie responsabilità.

Impotente quindi di fronte all’ascolto del suo desiderare, e di conseguenza anche verso quello degli altri, Stefano si auto elegge allora allo status di un dio che ogni giorno – quasi come in un contesto da “giudizio universale” – si sente chiamato a giudicare tra Bene e Male. E soprattutto a ben separarli. 

Gabriel Montesi (Stefano) e Alessandro Borghi (Giulio)

Con Stefano, nell’ospedale militare, lavora anche un suo amico d’infanzia – Giulio (Alessandro Borghi) – dalla vocazione di ricercatore e che, anche sbattuto in prima linea, non può fare a meno di continuare a chiedersi cosa significhi “aver cura” degli altri ora, quasi al termine della guerra. La sua postura medica ed esistenziale ci parla del continuo essere in ascolto se il suo sentire resta confermato o se invece propone delle variazioni. 

Alessandro Borghi (Giulio)

Scopre così che ora non ce la fa a “giudicare” e a “separare nettamente” – come fa il suo amico Stefano – il Bene dal Male. E clandestinamente prova compassione per i soldati che si ritrovano a desiderare di mentire pur di non tornare ancora sul campo a combattere. La sua compassione – paradossalmente al concetto istituzionale di cura – si concretizza nell’amplificare, dietro consenso, le ferite di guerra dei soldati, ancora ricoverati ma “giudicati” ottusamente idonei al ritorno in guerra dal “dio Stefano”.  Così enfatizzata, però, la nuova non idoneità elimina ogni dubbio e di conseguenza legittima il congedo autorizzato dal campo di battaglia.

E così, un luogo deputato alla cura e alla riabilitazione finisce per rivelarsi – in un contesto fuori dall’ordinario com’è la guerra – il campo dove si gioca la battaglia tra chi insensibilmente non si cura delle ferite dell’anima oltre che di quelle del corpo e chi, per curare le ferite dell’anima, mutila ancor di più il corpo.

Federica Rosellini (Anna)

I due amici e colleghi saranno poi raggiunti a sorpresa da una loro compagna di studi, ora ridimensionata a volontaria della Croce Rossa – Anna – (Federica Rosellini): una studentessa troppo brava per essere donna e quindi per poter essere riconosciuta nel suo autentico valore anche di medico.  Una figura femminile “mutilata” nel suo slancio vitale ma che fino alla fine- nonostante tutto – riesce a non abbandonare la sua vocazione verso la medicina, accogliendola come un fertile enigma, anche esistenziale, dalle molteplici soluzioni. Un po’ come l’amore.

Federica Rosellini (Anna)

Quasi in sciopero dalle parole – sono in lei i silenzi a prevalere – è nei suoi occhi che lo spettatore può leggere tutta l’ondivaga sublime inquietudine che la abita. S’ intuisce che in passato fosse molto vicina a Giulio e così continua a fare ora. Scoperto il suo insolito slancio vitale verso “il concetto di cura”, dopo un iniziale tentennamento, sceglierà di seguirlo fino a farsi testimone della sua vita.

Federica Rosellini (Anna) e Alessandro Borghi (Giulio)

Un film, questo di Gianni Amelio, che contribuisce a guarirci dalla tentazione all’assuefazione che la guerra tende ad ispirarci. Un film che tonifica l’elasticità del nostro slancio vitale.

E che ci racconta come “il prendersi cura” – così come la democrazia – si fondino sul principio dell’instabilità, del pluralismo, del mediare, del tradurre, dell’accogliere e del comporre le differenze e le diversità. 

Un “prendersi cura” che non trova compimento una volta per tutte: la vita, la democrazia e la medicina non si danno infatti per sempre: sono il frutto di una continua ricerca.


Recensione di Sonia Remoli