Produzione Compagnia Scimone Sframeli
dal 16 al 19 Gennaio 2025

Sembrerebbe che Godot sia arrivato: è in cortile. Anzi, Godot è “il cortile”: quello di cui parla Tano e che giustifica le sue evasioni da Peppe.
L’esistenza di un “cortile” contribuisce a dare forma ad uno scenario di coordinate spazio-temporali: a un qui e un là; a un prima e un dopo. Là, nel “cortile” – dice Tano – si va a cercare e a trovare l’amore. Si va a riempire il sacco vuoto. Qui, invece, è sempre tutto uguale.
Solo chi, come lui, si interroga sull’altezza e sulla profondità della desiderabilità dello spazio quotidiano, cerca e trova una retta immaginaria che passa per i punti-luce A e B: con questa retta si può comunicare, quasi fino a toccarla, avvicinandole un’altra retta, questa però in ferro. Una retta percorribile, scalabile. La relazione tra le due rette e la base sulla quale poggiano dà vita ad una sorta di cortile triangolare semi-illusorio. Lì si può andare a fare l’amore, dice Tano. E l’amore, si sa, è la più efficace misurazione del tempo.

A dire il vero, anche la parola – e il darsi della sua assenza attraverso il silenzio – concorre all’individuazione di diversi piani spazio/temporali. Così come l’amicizia – o meglio la relazione di assenza per troppa presenza tra Peppe e Tano – crea una sorta di subdolo principio causa-effetto.
L’amore però è diverso: fa proprio “contare i giorni”.

Francesco Sframeli è Peppe – Spiro Scimone è Tano
Ciò che si dà nell’ambiguità della parola e delle dinamiche relazionali, viene messo a nudo dalla prossemica: Tano sceglie sempre di stare lontano da Peppe, per difendere un suo tono, una sua identità. Peppe invece, che sa usare le leve psicologiche della forza di attrazione-manipolazione, riesce (quasi sempre) a calamitarlo verso di se.
Soffre infatti Peppe quella tensione verso “il mare del desiderare” del suo Ulisse (Tano) e oltre a lamentarsi per essere lasciato sempre solo – un po’ come una Maga Circe – ordisce piccoli sortilegi per trattenerlo. O almeno farlo avvicinare.
Perché Peppe, pur essendo bloccato su una sedia ruotante solo su se stessa, è un tipo sagace e vive la sua postura come un’investitura regale. Il suo è un trono dal quale “divide et impera”, seducendo e manipolando Tano. Con la sua voce flautata e suadente come quella di una sirena, lo incanta: il suo ipnotico tono cantilenato, sussurrato con soave ferocità, blocca Tano come in un incantesimo. Così da smorzare il suo anelito verso “il cortile”. Quando poi accade che Tano dimostri un’insopportabile resistenza, Peppe arriva a boicottare la sua autostima, facendogli credere che la libertà di movimento di cui dispone si è ora privata di energia.

Francesco Sframeli è Peppe – Spiro Scimone è Tano – Gianluca Cesale è “uno”
Come se non bastasse, a mettere in pericolo l’imperio di Peppe sullo spazio scantinato, un terzo uomo rivela la sua presenza, balzando – come un burattino – da dietro a quel che resta di un diroccato mobile. Apparentemente lui non è pericoloso come Tano, perché ha scelto di smettere di camminare e di desiderare: preferisce infatti strisciare. Preferisce suscitare pietà: questa è la sua forza. Ha rinunciato anche ad essere identificato con un nome. E’ un simpatico parassita.
Variazioni di una medesima condizione esistenziale, sono quelle rappresentate da questi tre uomini infantili e argutamente decadenti. Dove chi desidera conoscere ed esplorare la realtà con i propri occhi e con il fiuto del proprio olfatto deve fare i conti con chi lo seduce subdolamente a preferire il quieto “buio”. Come accade a Tano: lui si dichiara infatti non disponibile a dover solo “digerire” quello che gli si vuole somministrare, rivendicando il suo diritto a poterlo anche “vomitare” . “Perché quando ti abitui, non senti più nulla”. Ma insidiosamente riesce a trovare un varco la melliflua sicurezza dell’abbraccio di “un cortile”, rappresentato da un sacco vuoto, senza luce: dove perdersi al sicuro. Senza desiderare più nulla. Restando imprigionato nel buio.

Francesco Sframeli – Gianluca Cesale – Spiro Scimone
Un testo poeticamente feroce questo di Spiro Scimone, che avviluppa lo spettatore in una tela magica intessuta di una ritualità che rassicura e soffoca. Il pubblico ne resta intrigato e arruffato. Siamo noi. O forse no. Però intanto ci solletica. Fino a pungerci.
Complice l’accattivante regia di Valerio Binasco: una partitura musicale “scritta” per la lingua di ciascun personaggio. Un concerto capace di esaltare le diversità di ciascuno, in un’armonia irresistibilmente umana.
Sono il Peppe di Francesco Sframeli, dallo sguardo adorabilmente impertinente fino alla maleficienza e dalla tempra musicalmente tagliente; il Tano di Spiro Scimone, la cui solida presenza sa darsi plasticamente come un’assenza anelante di arrampicarsi verso un altrove, fatto di “sorrisi”: anche loro dei piccoli cortili. E poi l’eleganza del verme burattino di Gianluca Cesale, entità inscindibile dal luogo che lo ospita. Ne indossa lo stesso “color indecisione” in un ambiguo presentarsi come carta bianca dalla pungente acidità verdeggiante. Fascinoso, come il suo piangere immobile e muto.
Tre diversi modi di stare al mondo. Tre diversi modi di condividere il vuoto e di fargli argine. Tre diversi modi di scambiare il valore di una persona con il bisogno che riveste per l’altro; l’arte di vivere con l’utilità; la solidarietà con la sottomissione. Sguardi miopi che, in diverso modo, si lasciano “mettere nel sacco” da una perversa ricerca di sicurezza.

Francesco Sframeli – Gianluca Cesale – Spiro Scimone
Recensione di Sonia Remoli
