Recensione di WAITING IN THE DARK – regia Francesco d’Alfonso

Drammaturgia

di Francesco d’Alfonso

liberamente tratta da “Assassinio nella cattedrale” di T.S. Eliot


Traduzione inedita

di Iolanda Pescia


TEATRO PALLADIUM

18 Dicembre 2025

Su iniziativa dell’Ufficio per la Pastorale Universitaria della diocesi di Roma, Giovedì 18 Dicembre u.s. al Teatro Palladium è andata in scena “Waiting in the dark”, una drammaturgia di Francesco d’Alfonso, liberamente tratta da “Assassinio nella cattedrale” di T. S. Eliot, nella traduzione inedita di Iolanda Plescia, docente alla Sapienza.

Francesco d’Alfonso

L’evento ha devoluto l’incasso al Polo Universitario Penitenziario – Università Roma Tre, diretto dal Prof. Giancarlo Monina, ordinario di Storia contemporanea all’Università Roma Tre e delegato del rettore per la formazione universitaria negli istituti penitenziari. “Non si tratta solo di reperire risorse – ha dichiarato – ma anche di portare all’attenzione il tema della dignità dei carcerati”. 

Nel Lazio ci sono infatti 300 universitari detenuti negli istituti penitenziari presenti sul territorio, che si applicano nello studio per affrontare il periodo della prigionia con dignità. “Lo studio rinforza l’uomo interiore, colui che resta solido mentre tutto intorno a lui viene meno” – ha ricordato don Gabriele Vecchione, cappellano della Sapienza e vicedirettore dell’Ufficio diocesano per la pastorale universitaria, promotore del progetto.

(ph. Cristian Gennari)

La finalità di questo evento teatrale si dà come una manifestazione della speranza e cade non solo nel tempo del Giubileo dei Detenuti – ricorrenza che chiude circolarmente l’inizio del Giubileo della Speranza avvenuto con l’apertura della porta del Carcere di Rebibbia, quale prima Porta Santa, dopo quella di San Pietro, aperta da Papa Francesco – ma cade anche nel tempo dell’Avvento. Un tempo che simbolicamente si fa attesa spirituale e preparazione alla venuta di Cristo. Un periodo liturgico trasformativo, che unisce il ricordo della sua prima venuta (il Natale) all’anticipazione della sua seconda venuta, che si rinnova ogni anno. 

“Waiting in the dark”: dall’oscurità alla luce.

Un titolo dal profondo valore simbolico: ci parla di un periodo di sospensione, che ci spinge all’introspezione e alla ricerca di una personale consapevolezza. Trasformando la paura dell’ignoto (l’oscurità) in una opportunità di crescita, di resilienza e di speranza (la luce). Dove il buio diventa spazio fertile per la nascita di nuove possibilità, purché si impari a sostarvi con amorevolezza.

E’ una condizione esistenziale che tutti ci accomuna e che T.S. Eliot ha visualizzato magnificamente, nel suo poema destinato al teatro “Assassinio nella cattedrale”, focalizzandola in un momento particolare della vita di Thomas Becket.

Per interrogarsi sulla drammaticità di un tempo esistenziale vuoto, in cui siamo messi in trazione. Come – ma non solo – è avvenuto nel frangente storico/esistenziale del Novecento, attraversato dalla Prima guerra mondiale e poi in attesa – in una pace che non è “il bacio di pace” – dentro un tempo che porterà al Secondo conflitto mondiale. 

Immersa come in una landa del nostro animo, si apre allora la messa in scena di Francesco d’Alfonso. Dove lo spettatore è progressivamente condotto – come per osmosi – a scendere in una dimensione interiore: trascendente nella sua immanenza. 

Non è infatti solo una rituale cerimonia d’attesa, dove si celebra un’assenza. E’ la visualizzazione di un presentimento: una condizione che si fa ponte tra inconscio e futuro e che parla di una verità intuitiva più profonda del ragionamento logico. Con un’aura di mistero, di angoscia unita a speranza.

E’ una condizione esistenziale ad andare in scena: dove la forza rappresentativa riesce a restituire epidermicamente anche ciò che non può essere detto. Quel quid che non passa per la parola. 

(ph. Cristian Gennari)

Non a caso lo spazio scenico, immerso nella luminosa oscurità di un luogo sacro, è abitato da una scala: simbolo del collegamento tra dimensioni diverse. Dove l’ascesa coincide con la discesa: perché  il tempo che distrugge è il tempo che conserva (da Quattro quartetti” di T.S. Eliot).

(ph. Cristian Gennari)

Questa fluida dualità – tema portante della drammaturgia – inizia ad essere veicolata attraverso la scelta di inserire la narrazione musicale di un violino, contrappuntandola all’insistere di un ticchettio, che come goccia erode e si fa spazio nella mente e nel cuore dello spettatore.

Una fluida dualità che continua a darsi nel contrappunto tra il sentire del Coro – qui rappresentato da una Irene Ciani dolorosamente sensuale, morbidamente tagliente, magneticamente arrendevole, che con i colori morfologici della sua voce restituisce i cicli della vita, della natura e dell’animo umano – e l’invocazione ossessiva della mancanza dell’Arcivescovo di Canterbury Thomas Becket da parte del Sacerdote (in scena un efficacissimo Matteo Santinelli).

Sette anni e l’estate è trascorsa, 5 anni, da che ci lasciò l’Arcivescovo*

(ph. Cristian Gennari)

Un fluido contrasto dentro il quale il testo di Eliot fin dal principio ci invita a stare: da quando il Coro si scopre attraversato da “un restare” e insieme da un “essere trascinato da una sicurezza, che trascina i piedi”. Causa di un vago presagio che gli occhi “sono costretti a testimoniare”.

Per noi, le povere donne, non c’è l’azione

ma solo l’attendere e il rendere testimonianza*

Ed è proprio questa fluidità degli opposti a destabilizzare le donne del Coro, loro che erano abituate a riconoscere ”gli atti che mettevano un limite al nostro soffrire. Ogni orrore aveva la sua definizione, ogni dolore aveva una specie di fine” *

Una fluidità di cui ci parla anche il dualismo dal quale Thomas (uno Stefano Guerrieri tormentato e donativo, accogliente e carismatico, visione che diventa azione) si lascia attraversare come da una sorta di via crucis. Accogliendo e patendo il serpeggiante insinuarsi sensualmente vanitoso dei tentatori, nelle suadenti interpretazioni di Leonardo Della Bianca e di Stefano Poeta.

(ph. Cristian Gennari)

E ancora, è il tema dell’omelia di Becket per il Natale del 1170, ovvero la riflessione su come la ricorrenza del Natale racchiuda in sè la gioia della nascita e insieme il dolore della morte. Dolore ribadito dal fatto che, non a caso, al giorno in cui si commemora il Natale del Signore, segue il giorno in cui si commemora il Martirio di Santo Stefano. 

(ph. Cristian Gennari)

E infine questo fluido dualismo è il fulcro dello stesso soffrire di Thomas Becket: a spaventarlo non è la morte ma l’intervallo tra il presagio e la fine, cioè l’attendere attraversando e trasformando.

Nè colui che agisce soffre

Nè il paziente fa. Ma sono entrambi fìssi

In un’eterna azione, in un’eterna pazienza*

(ph. Cristian Gennari)

E allora cosa significa “pace” ?

Pace è farsi strumento di questo dissidio.

E sentire

In un’eterna azione, in un’eterna pazienza

Alla quale tutti debbono consentire perché sia voluta

E che tutti debbono soffrire per poterla volere,

Onde sussista la trama, poiché la trama è azione

E sofferenza, e la ruota possa volgersi e pure

Stare per sempre immota*

(*i versi citati in questa recensione si riferiscono alla traduzione di Alberto Castelli al testo “Assasinio nella cattedrale” di T.S. Eliot)

Una rappresentazione questa di “Waiting in the dark” che ricorda quell’atmosfera di cui Eliot era maestro: quella che dona alla poesia un’energia legante, che riconcilia i suoi frammenti in un insieme emotivo.

Quell’atmosfera che si dà in un profondo senso della struttura musicale.

Complice la sinergia tra il lavoro drammaturgico di Francesco d’Alfonso e la traduzione di Iolanda Plescia, dove l’appagamento musicale si lega a quello letterario.


Recensione di Sonia Remoli

GRAN TEATRO BERNINI – drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso

TEATRO NUOVO ATENEO

12 e 13 Giugno 2025






“Di cosa resterà memoria?” – si chiede, in un profondo momento di crisi, il poliedrico artista Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) nella lettura che ne fa il drammaturgo e regista Francesco d’Alfonso – “Resterà memoria di sogni o di concrete realtà?”. 

“La vita non è meno bella di un sogno – dirà poi – anche se può riuscire ad abbatterci”.  

Bernini, infatti, riuscì a sollevarsi dal suo stato di profonda prostrazione grazie al fertile scompiglio di un particolare incontro, che lo portò a sublimare il trauma di essere stato allontanato dagli occhi e dal cuore di Papa Innocenzo X Panphilj, che si ostinava a considerarlo responsabile di un errore – ovvero delle conseguenze della costruzione dei campanili sulla facciata della Basilica di San Pietro – nonostante indagini e perizie dimostrassero il contrario. 

Gian Lorenzo Bernini, “Autoritratto” , Galleria Borghese

Un’acuta sensibilità drammaturgica – basata sulle fonti dell’epoca, vagliate con la consulenza scientifica dello storico dell’arte Antonio Soldi della Sapienza Università di Roma – conduce Francesco d’Alfonso sulle tracce di un Bernini poco conosciuto, spingendolo a realizzare una regia, la cui avvincente messa in scena ha debuttato giovedì al Nuovo Teatro Ateneo della Sapienza Università di Roma.

Ciò di cui “resterà memoria” – ed è questo il messaggio che la regia di Francesco d’Alfonso veicola seducentemente nello spettatore – è ciò che nasce dal dialogo, e non dalla contrapposizione, tra sogno e realtà. 

Francesco d’Alfonso

Ad esempio, l’incanto di uno sguardo: quello a cui ci abbandoniamo, lasciandoci contattare da quelle tracce di bellezza, che si danno solo attraversando la vita nei suoi frangenti più oscuri.  E che ci permettono di scorgere “il tutto” attraverso “un frammento”.

In un magnifico montaggio di rifrangenze simboliche, lo sguardo “mortificato” del Bernini rifiutato da Papa Innocenzo X Panphilj viene contattato dall’incanto di quello del suo nuovo committente: il Cardinale Federico Cornaro, qui un carismatico Francesco Cotroneo. La cui sincera attenzione lascerà un fertile strascico sulla vita dell’artista, come enfatizzato con estro anche dall’abito di scena, la cui cura è affidata a  Evelina Maria Vaakanainen. Sarà proprio lo sguardo del Cardinale Cornaro infatti, a indirizzare quello di Bernini verso l’incanto di quello di Santa Teresa D’Avila, mediante la lettura della sua biografia: libro che Bernini legge, ma dal quale è soprattutto letto, guardato dentro, nel profondo. 

Federico Gatti (Bernini) – Enrico Torre (controtenore) – Francesco Cotroneo (Cardinale Federico Cornaro) – Lorenzo Sabene (liuto, tiorba, chitarra barocca)

Ed è così che lo sguardo “mortificato” di Bernini, declinato in queste sue rifrangenze, arriva ad attraversare anche l’incanto dello sguardo dell’autore e regista Francesco d’Alfonso, spingendolo verso la realizzazione di una messa in scena, che a sua volta provoca l’incanto di uno stupefacente contagio nello sguardo dello spettatore. 

Il sipario si apre su una scena – anche simbolico luogo della mente dell’artista – dove, nonostante l’entusiasmo affettuoso di Giovannino (il devoto assistente di Bernini, qui interpretato da un efficace Domenico Pincerno), tutto appare avviato ma poi bloccato.

In verità circolano energie, ma di un diverso linguaggio emotivo. Un linguaggio che, intraducibile mediante i principi della logica, si dà invece attraverso forme più raffinatamente enigmatiche, quali quelle della musica e del canto.

Domenico Pincerno (Giovannino) – Federico Gatti (Bernini)

Ecco allora che si fa strada, tra le ferme aree psichiche del linguaggio creativo, la serpeggiante eleganza delle note ammalianti del canto del controtenore Enrico Torre – accompagnato al liuto, alla tiorba e alla chitarra barocca dall’afflato di Lorenzo Sabene. Fertile disposizione emotiva attraverso la quale il regista d’Alfonso inizia a veicolare uno dei temi portanti del suo testo: la morte come condizione di ogni nuovo inizio.

Con acuto sguardo registico, d’Alfonso amplifica il valore della metafora concettuale incentrando le coordinate temporali della narrazione nel lasso di tempo che va dal tramonto all’alba e sconfinando le coordinate spaziali nella cappella funebre in Santa Maria della Vittoria: luogo in cui il corpo mortale del committente sarà sepolto, restando però immortale l’incanto dello sguardo di Bernini – e quindi dello spettatore – su di lui. Questo grazie alla rifrangenza dello sguardo umano sull’eternità di quello artistico, magnificamente veicolata da quell’Estasi di Santa Teresa D’Avila  – prima opera frutto del periodo di profonda crisi del Bernini – così capace di rendere carne vibrante il freddo marmo; incondizionata fede ogni insinuante dubbio. 

Cappella Cornaro, Estasi di Santa Teresa d’Avila di Gian Lorenzo Bernini – Chiesa Santa Maria della Vittoria

Ed è di prodigiosa bellezza assistere al processo creativo attraverso il quale nelle mani di Bernini (un demiurgico Federico Gatti) la durezza informe del marmo si lascia liberare in uno spumeggiante panneggio di tensioni, che fanno da habitus all’estasi della Santa (qui interpretata da un’accogliente quanto seducentemente inafferrabile Irene Ciani). Un dolore così spirituale, il suo, – ma anche quello di chiunque posi gli occhi e il cuore su di lei – da divenire tocco di incantevole piacere dolce-amaro.

In un rimando di sguardi arriva così allo spettatore come, in taluni frangenti di profonda difficoltà esistenziale, insistere attraverso l’auto-controllo razionale dell’io sulla situazione di aridità emozionale non sia affatto efficace per poter rinascere a nuova creatività vitale. Sperimentare invece un dialogo di questa egemonia egoica con un’energia dal carattere inconscio, lasciandosi così travolgere da un terrore erotico, risulta un’esperienza incomparabilmente più ricca in bellezza.

Domenico Pincerno (angelo serafino) – Irene Ciani (Santa Teresa d’Avila) – Federico Gatti (Bernini)

Anche per questo motivo, a qualche livello, Bernini avvertiva come il suo irresistibile trasporto per il Teatro gli risultasse funzionale ad un’indagine più intima tra le dinamiche della natura umana e quella divina.

E non a caso il fido assistente Giovannino per aiutare il suo maestro a ricollegarsi ad un’energia creativa più dionisiaca, attinge dal baule di scena – quale crogiolo di vitalità alchemica – le energie più tempestosamente selvagge, mettendo in scena alcuni scatenamenti emotivi che furono il successo delle sue precedenti commedie (molto interessante qui il lavoro sulle scene e sulle maschere curato da Gaia Caponi, Camilla Martini, Rocco Papia).

Perché la vitalità creatività, e quindi esistenziale, non si nutre tanto di “sforzo” intellettivo e volitivo, quanto piuttosto della disponibilità d’ “ascolto” del mistero, spesso ferito, che siamo. 

Domenico Pincerno (Giovannino)

La compenetrazione di sguardi, resa possibile attraverso l’incontro con la testimonianza di vita di Santa Teresa d’Avila, scuote e rinvigorisce Bernini. Fino a scatenare l’irrompere nella sua vita della fulgente presenza immaginifica della Santa Teresa d’Avila di Irene Ciani.

Suo, un iniziale incedere furtivo che poi si libera nella sinuosità tortuosa propria del riemergere del desiderio vocazionale, che intende riappropriarsi del suo habitat. Coinvolgendo, in una danza di torsioni, la rigidità marmorea in cui si era trasformato lo stesso Bernini. C’è timore e c’è slancio, ora in lui. C’è cortesia cavalleresca e arte della fuga, nella Santa Teresa della Ciani. Tensione emotiva necessaria affinché in scena, e nella psiche dell’artista, torni ad abitare la vita viva: in dialogo tra sogno e concreta realtà. 

Federico Gatti (Bernini) – Irene Ciani (Santa Teresa d’Avila)

Lo spettatore avverte, con partecipe commozione, come l’insorgere di questa vitalità passi nel Bernini di Federico Gatti fino ad attraversargli la gola. Dalla quale scaturisce una vocalità liquida, capace di accogliere ingorghi che, non respinti, salgono per andarsi a sciogliere nei suoi occhi.

Federico Gatti (Bernini)

Domenico Pincerno (angelo serafino) – Irene Ciani (Santa Teresa d’Avila)

Occhi che, con sapiente circolarità, rimandano l’attenzione dello spettatore a quella capacità di “sostenere lo sguardo” anziché abbassarlo – e quindi di sostenere l’errore e la propria fragilità, anziché restarne sommersi – di cui prima dell’apertura del sipario aveva parlato Don Gabriele Vecchione, Presidente della “Comunità San Filippo Neri- E poi?”. Descrivendoci quella “Generazione Z” di cui la Comunità San Filippo Neri – E poi? – ama prendersi cura.  

Don Gabriele Vecchione

Un’Associazione, la loro, impegnata in progetti di guida e sostegno motivazionale verso i giovani e le loro famiglie, che ha scelto di autofinanziarsi attraverso il ricavato degli spettacoli organizzati in sinergia con L’Ufficio per l’Università del Vicariato di Roma, l’Accademia di Belle Arti di Roma, Pensieri Meridiani, Associazione Più Comunicazione e con il contributo dell’8xMille della Chiesa Cattolica.

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Lorenzo Sabene, Domenico Pincerno, Irene Ciani, Federico Gatti, Francesco d’Alfonso, Francesco Cotroneo, Enrico Torre


Rassegna eventi a sostegno delll’Associazione “Comunità San Filippo Neri – E poi ?”:

12 Aprile 2025 – Teatro Palladium

Oltre quello che c’è, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso liberamente ispirata agli scritti di Byung-Chul Han e T.S. Eliot, con Roberta Azzarone, Irene Ciani, Matteo Santinelli, Marco Tè e con la partecipazione straordinaria dell’ Ètoile del Teatro dell’Opera di Roma Rebecca Bianchi e di Alessandro Rende, accompagnati dal pianoforte di Dario Callà e dal violoncello di Mattia Geracitano

16 Maggio 2025 – Basilica di Sant’Anastasia al Palatino

Finché luce sarà per sempre, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso ispirata alla Passione di Sant’Anastasia romana, un monologo per attrice e violoncello con Irene Ciani e Mattia Geracitano

12-13 Giugno 2025 – Teatro Nuovo Ateneo Sapienza Università di Roma

Gran Teatro Bernini, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso, con Irene Ciani, Francesco Cotroneo, Federico Gatti, Domenico Pincerno, Enrico Torre, Lorenzo Sabane


Recensione di Sonia Remoli

FINCHE’ SARA’ LUCE PER SEMPRE – monologo per attrice e violoncello – scritto e diretto da Francesco d’Alfonso

BASILICA DI SANT’ANASTASIA AL PALATINO

16 Maggio 2025

In una splendida serata del maggio romano, è andata in scena sull’altare della Basilica di Sant’Anastasia al Palatino – antichissima chiesa romana risalente al IV sec., nonostante l’esterno barocco e l’interno settecentesco –  il secondo evento della Rassegna d’arte teatrale a sostegno dell’Associazione “Comunità San Filippo Neri – E poi“. 

Interno della Basilica di Sant’ Anastasia al Palatino

L’ Associazione  Comunità San Filippo Neri – E poi?, presieduta da don Gabriele Vecchione, è una comunità che si impegna in progetti di guida e sostegno motivazionale verso giovani che hanno smarrito la bellezza del desiderare. Giovani che, affetti da un eccesso di individualismo, anziché aprirsi alla condivisione con gli altri come si fa in un’autentica comunità, sono tentati a chiudersi in se stessi, appartandosi. 

Inseriti in una nuova comunità familiare, come quella “San Filippo Neri – E poi ?”, questi giovani vengono sostenuti nella scoperta di quella bellezza che porta ad individuare la propria vocazione talentuosa. Perseguendola con coraggio. Come accadde anche alla giovane Sant’ Anastasia che, pur appartenendo ad una famiglia pagana, scoperto il suo appassionarsi al cristianesimo, compì la scelta radicale di convertirsi e di rimanere fedele a questo credo.

I membri dell’ Associazione “Comunità San Filippo Neri – E poi ?” con Don Gabriele Vecchione (Presidente)

L’Associazione “Comunità San Filippo Neri -E poi?” ha scelto la filosofia di non chiedere aiuti a proprio sostegno, preferendo autofinanziarsi: questo spettacolo così come quelli della Rassegna – realizzati in collaborazione con Pensieri Meridiani e Associazione Più Comunicazione – sono resi possibili infatti con il contributo dell’8xMille della Chiesa Cattolica e con le offerte che si raccolgono in occasione della partecipazione a ciascuno spettacolo. 


Irene Ciani

(@photogennari)

In questo secondo incontro della Rassegna è andato in scena un monologo per attrice e violoncello dal titolo “Finché sarà luce per sempre”. L’attrice Irene Ciani, accompagnata al violoncello da Mattia Geracitano e diretta da Francesco d’Alfonso autore anche della drammaturgia, si è fatta interprete del racconto del martirio della santa vergine romana Sant’ Anastasia.

Mattia Geracitano

(@photogennari)

Fatto buio, le note del violoncello di Mattia Geracitano immergono la basilica in un’atmosfera di suspence, dove arpeggiano passi, che si fanno poi un vero e proprio camminare. Si fa giorno. E dal fondo della Basilica sopraggiunge una piccola ancella che – come a preannunciare visivamente la passione che sarà indossata da Anastasia – porta un drappo di velo rosso, che depone sull’altare.

Si ode un canto di una bellezza solennemente gioiosa. È il suo canto: il canto di Anastasia (una metafisica e carnale Irene Ciani). Con un velato incedere leggero ci viene a cercare, per condividere con noi un evento straordinario. 

Sono svanite di colpo le ferite delle percosse subite ripetutamente durante la sua prigionia.  “Com’è possibile …. Com’è potuto accadere…Signore mio Dio, che hai fatto!?” grida di gioia, incapace di comprendere con la logica questa misteriosa realtà.

Mattia Geracitano – Irene Ciani

(@photogennari)

Nel gridare si accorge di come la sua gola è arsa e di come si fa irresistibile la sua voglia di bere. E poi arriva la sensazione terribile del freddo. E subito dopo quella del buio continuativo. Allora sgorga di rabbia perché cerca un segno del suo sposo divino e non lo trova. “Mi hai abbandonata, come è successo a te” – gli urla con gli occhi lucidi di ira mista a commozione. “Mi lasci in questa notte che non conosce luce di speranza”- sibila liquefacendosi quasi fino a scorrere al suolo. ”E’ un mistero come tu possa esistere insieme al male: insieme all’ingiusta agonia del giusto” – gli urla tra i singhiozzi. 

Ma poi arriva una luce. E’ un uomo quello che le si fa prossimo: è Cirillo, un cristiano come lei, che le offre dell’acqua. Lei ne beve avidamente. E poi sceglie di raccontarsi a lui: “Mi chiamo Anastasia, sono romana e di nobile stirpe. Il nome (che significa resurrezione) e la vita, sono le cose più belle che i miei genitori mi hanno donato”. Gli racconta ancora come la testimonianza di alcuni cristiani la sedusse a convertirsi e un sogno particolarissimo le diede il benvenuto. E così lasciò tutto. Fu allora presa sotto l’ala protettiva di una nuova madre: la cristiana Sofia. 

Mattia Geracitano – Irene Ciani

(@photogennari)

Ma il demonio non smise mai di tentarla per farla desistere da questa sua scelta.  La tentò prima nella carne e, quando Anastasia riuscì ad uscire da questa disperazione, fece sì che i suoi genitori la denunciassero per non ottemperare il culto degli dei di Roma.

La prelevarono allora dalla casa di Sofia: “Sono pronta per la battaglia”- si offrì lei. E la condussero al Palazzo di Probo, dove per bocca dell’imperatore il demonio continuò a tentarla. Ma lei fu inflessibile: “ho già uno sposo: è Cristo. Niente potrà separarci perché il mio sposo è come un muro”. 

Per farle cambiare idea la portarono allora in piazza, nuda davanti a Roma. Ma i suoi occhi erano chiusi sul mondo e aperti solo su Dio. La riportarono in cella: Probo non mancava di tentarla con le sue proposte. Ma lei ripeteva di voler continuare ad essere ”sola con Dio: il suo sposo silenzioso”.

Irene Ciani

(@photogennari)

Passarono i giorni e venne lo stesso padre a farle visita, per dissuaderla dal suo matrimonio mistico. Lui era l’unico familiare a non rallegrarsi per quello che le stava capitando, a seguito della sua conversione.

Ma nulla. Tornarono allora a picchiarla violentemente “come una giovenca al macello”.  Ed è fulgentemente lacerante qui la flagellazione che si autoimpone con plastica drammaticità l’Anastasia della Ciani, enfatizzata da un sapiente disegno luci che nel momento più incandescente della passione sa renderne il suo essere sanguinante e ardente.

La voce si rompe, si strazia, ma è straordinario come la Ciani renda questa dilaniazione con una qualità vocale liquida, fresca. Ecco infatti una dolce luce farsi strada tra il sangue che scende a fiotti e la pelle che brucia. Anastasia avverte immediatamente la presenza del suo sposo: “conducimi tu, reggimi in piedi. Sorrido alla morte che è stata già vinta da colui che è, che fu e che sarà”. E si affida a questa dolce luce. 

Con estrema fatica tra le lacrime e il respiro spezzato, si fa strada un canto: come quello già ascoltato all’inizio. Ma i suoi aguzzini nell’ascoltarla ancora, nonostante tutto, cantare, andarono e le strapparono la lingua.

Irene Ciani

(@photogennari)

Anastasia si veste allora dell’estrema passione, accogliendo su di sé quel drappo rosso che la piccola ancella le aveva deposto premurosamente accanto tempo prima. “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” – dice. E continua: “Fino a quando, uomini, sarete duri di cuore?”

Ma il suo sposo impaziente la richiama: “Non tardare Anastasia, ti attendo con trepidazione! Vieni oltre la landa e la palude, oltre il dirupo e il torrente, finché sarà luce per sempre”.

Irene Ciani (Anastasia) – Mattia Geracitano


Sant’Anastasia fu arsa viva il 25 dicembre del 304, durante l’ultima persecuzione dei cristiani ad opera dell’imperatore Diocleziano.

Visse la sua vita come un pellegrinaggio segnato dalla persecuzione e dalla sofferenza dovuta alla resistenza alle tentazioni del Demonio. Non a caso la chiesa a lei dedicata fu edificata proprio alle pendici del Colle Palatino, quasi come sul fianco (luogo particolarmente vulnerabile del corpo) di Sant’Anastasia: lei che divenne la “stazione” vivente, il luogo di avvistamento e difesa dai pericoli delle tentazioni del demonio. 

È stata definita, in greco, Farmacolìtria (Guaritrice dai veleni), e in russo, Uzoreshìtel’nitza (Colei che libera dai vincoli: protettrice dalle malattie e dagli inganni del Demonio).

Nel 1995 due icone che la raffiguravano – una dipinta secondo la tradizione occidentale e l’altra secondo quella orientale – furono spedite nello spazio sulla stazione MIR nell’ambito della missione “Santa Anastasia – una speranza per la pace” per contribuire alla riconciliazione dei popoli dell’ex-Jugoslavia (i Croati e gli Sloveni sono in maggioranza cattolici, i Serbi in maggioranza ortodossi). L’iniziativa era patrocinata dall’Unesco e le icone furono benedette da papa Giovanni Paolo II, dal patriarca di Mosca Alessio II e dal patriarca di Serbia Pavel. Al loro ritorno sulla Terra le icone giunsero a Sremska Mitrovica, terra del martirio della santa, per contribuire, secondo le intenzioni delle Chiese Cattolica ed Ortodossa, alla pacifica convivenza dei popoli balcanici.


Rassegna eventi a sostegno delll’Associazione “Comunità San Filippo Neri – E poi ?”:

12 Aprile 2025 – Teatro Palladium

Oltre quello che c’è, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso liberamente ispirata agli scritti di Byung-Chul Han e T.S. Eliot, con Roberta Azzarone, Irene Ciani, Matteo Santinelli, Marco Tè e con la partecipazione straordinaria dell’ Ètoile del Teatro dell’Opera di Roma Rebecca Bianchi e di Alessandro Rende, accompagnati dal pianoforte di Dario Callà e dal violoncello di Mattia Geracitano

16 Maggio 2025 – Basilica di Sant’Anastasia al Palatino

Finché luce sarà per sempre, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso ispirata alla Passione di Sant’Anastasia romana, un monologo per attrice e violoncello con Irene Ciani e Mattia Geracitano

12-13 Giugno 2025 – Teatro Nuovo Ateneo Sapienza Università di Roma

Gran Teatro Bernini, drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso, con Irene Ciani, Francesco Cotroneo, Federico Gatti, Domenico Pincerno, Enrico Torre, Lorenzo Sabane


Recensione di Sonia Remoli

Recensione OLTRE QUELLO CHE C’È – drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso

TEATRO PALLADIUM

12 Aprile 2025

Come si può incendiare il mondo dei giovani con quel desiderio che va “oltre quello che c’è” ?

Incontrare giovani senza desiderio e completamente ignari della loro bellezza era inaccettabile per Filippo Neri (Firenze 1515 – Roma 1595). Giovanissimo sceglie di trasferirsi a Roma, proprio perché corrotta e pericolosa, e dedicare la propria missione evangelica ai ragazzi di strada. Per il suo carattere arguto, viene chiamato “il santo della gioia” o “il giullare di Dio”. Colto, creativo, amava accompagnare i propri discorsi al buon umore, perché l’allegria potenzia le energie spirituali e quelle psichiche.

Consapevole della nostra inclinazione a desiderare sempre “oltre quello che c’è” – visto che niente di creato, di fisico, appaga davvero il desiderio di ogni essere umano – Filippo era solito girare per le strade di Roma, incalzando i giovani con una domanda: “e poi?”.  

Ed è per questa sua vocazione ad illuminare la bellezza tempestosa della gioventù, che a lui è stata intitolata l’Associazione – presieduta da Don Gabriele Vecchione – di cui sabato 12 Aprile u.s. si è celebrata l’inaugurazione al Teatro Palladium di Roma: la “Comunità San Filippo Neri – E poi ?”.  Per l’occasione è andata in scena una splendida performance di teatro-musica-danza, la cui drammaturgia e regia sono state affidate alla cura di Francesco d’Alfonso.

Come accadde a Filippo Neri, anche in Don Gabriele Vecchione – presidente dell’Associazione nonché coordinatore dell’Ufficio per la pastorale universitaria della diocesi di Roma – divampa la vocazione a non lasciare indietro i ragazzi che hanno smarrito, o mai conosciuto, l’unicità della loro bellezza. Perché “essere giovani significa soprattutto essere fragili: inclini ad andare in pezzi a causa dei continui confronti con gli altri”.  Confronti che, non includendo il diritto di sbagliare, possono portare i giovani anche a privarsi della propria vita. 

Ma si può sopravvivere a questa tempesta – ci confida Don Gabriele Vecchione, che con le sue vibranti parole ha aperto l’evento della serata. Incontrando un imprevisto. Ad esempio, incontrando qualcuno che ama e che crede nell’altro. Perché – continua – “nessuno diventa grande senza qualcuno che desidera la sua grandezza”.

E questo si propone di fare l’Associazione “Comunità San Filippo Neri – E poi ?”: essere un imprevisto per chi resta indietro. Disponibile al rischio e al fallimento, perché ciò che davvero conta è non essere mediocri nel donarsi. “Questa è la Chiesa che sogno” – è stata la reazione di S.Em. Card. Baldassarre Reina, che ha presenziato all’evento, una volta a conoscenza del progetto.

© photogennari

E quale miglior forma di imprevisto può rendersi congeniale a celebrare l’inizio di quest’ardente realtà se non quella propria della forma artistica, capace com’è di rappresentare l’irrapresentabile di uno svelamento, spingendosi “oltre quello che c’è” ?

Dario Callà (pianoforte) – Mattia Geracitano (violoncello)

© photogennari

E’ così allora che il sipario si è aperto sul “canto” del violoncello di Mattia Geracitano, incalzato dall’insistenza delle note al pianoforte di Dario Callà, quasi un turbamento a voler frenare quel “canto” che sta cercando la sua espressione. Un “canto del desiderio” che nel suo esplorare una forma può incontrare trattenimenti. Come luminosamente visualizzato dall’incanto danzato di Rebecca Bianchi  – Étoile del Teatro dell’Opera di Roma – assieme ad Alessandro Rende. Ma che poi, grazie anche al sostegno dell’altro, riesce ad aprirsi, a fiorire. Sino a  librarsi nell’aria.

Alessandro Rende – Rebecca Bianchi

© photogennari

Nel dialogo tra musica e danza si inserisce, in un magnifico gioco di specchi, il commento di un coro, composto da quattro attori dalla potente intensità interpretativa: Roberta Azzarone, Irene Ciani, Matteo Santinelli, Marco Tè.

A loro è affidata l’appassionata e appassionante drammaturgia di Francesco d’Alfonso, liberamente ispirata agli scritti del filosofo Byung-Chul Han e a quelli del poeta T. S. Eliot. Una drammaturgia potenziata da uno sguardo registico, ancora curato da Francesco d’Alfonso, dall’elegante raffinatezza, anche iconografica, di tableaux vivants.

Roberta Azzarone, Matteo Santinelli, Irene Ciani, Marco Tè – Rebecca Bianchi e Alessandro Rende

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Ecco allora che, come dando voce – il coro – alle tensioni tra i diversi paesaggi del nostro animo, lo spettatore si ritrova rapito in un’esplorazione sull’inaspettata bellezza che si cela nel dolore e nella sofferenza. Ingredienti indispensabili per far divampare quell’eroticità del desiderio vitale, la cui saggezza risiede nell’umiltà del mettersi in ascolto: di se stesso e dell’altro da noi. 

Alessandro Rende – Rebecca Bianchi

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E nel saper attendere: con speranza e fiducia nella morbida bellezza dell’imprevisto. Che è qualcosa di ben diverso dall’essere ottimisti che, proprio come l’essere pessimisti, implica la durezza della testardaggine. La speranza no: lei è paradossale. E assomiglia ad un movimento di ricerca che ci rende “pronti ad accogliere ciò che ancora non è nato ma che è pronto a venire al mondo”. Significa accendere una fiamma e tenerla viva: “oltre quello che c’è”. 

© photogennari

Una serata speciale, quella che ha celebrato – in fertile connubio con l’Arte – “il canto del desiderio” di una Comunità che, nata da un sogno, ha iniziato a concretizzarsi in realtà.

Alessandro Rende – Rebecca Bianchi

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Testimonianza del potere creativo di un fulgido imprevisto, che ha contagiato di desiderio non solo gli oltre 180 ragazzi “under 25” presenti in sala ma tutto il pubblico che – essendosi stretto generosamente intorno a questa comunità – ha avuto l’opportunità di assistere ad un meraviglioso evento.

Dario Callà, Mattia Geracitano, Roberta Lazzarone, Francesco d’Alfonso, Matteo Santinelli, Irene Ciani, Marco Tè, Rebecca Bianchi, Alessandro Rende

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dei docufilm QUINDI ARRIVAMMO A ROMA La seconda nascita della città eterna e IN QUEI GIORNI DIVENNE ETERNA Roma città degli opposti vangeli

Cosa rende divino l’umano e l’umano divino?

In che modo l’eternità plasma la storia?

Qual è il legame quasi inafferrabile, e insieme carnale,

che fa di Roma quel teatro dove l’eternità va in scena ? 

Forniscono un’interessante risposta a queste domande i due docufilm ideati dal Vicariato di Roma e interpretati dal raffinato carisma di Andrea Lonardo: il personaggio principale che, un po’ come il Virgilio dantesco, ci guida in due affascinanti percorsi – quelli proposti dai due docufilm appunto – alla scoperta dell’intimo legame tra la cultura pagana e quella cristiana. Culture originanti la città prescelta per divenire eterna: Roma.

Andrea Lonardo

Nel primo docufilm Quindi arrivammo a Roma. La seconda nascita della città eterna” (diffuso sul canale YouTube di Romartecultura dal Luglio del 2022) la narrazione si incentra intorno alla risonanza che ebbe, nella Roma decadente del periodo ellenistico, l’arrivo delle figure cristiane di Pietro e Paolo. Ad impreziosire l’originale percorso narrativo, contributi esterni di personaggi autorevoli, quali Giovanni Maria Flik (Presidente emerito della Corte Costituzionale); l’attore e regista Carlo Verdone e Alfonsina Russo (Direttrice del Parco archeologico del Colosseo).

Andrea Lonardo

Nel secondo docufilm “In quei giorni divenne eterna. Roma città degli opposti vangeli” (diffuso sul canale YouTube di Romartecultura dal 20 luglio u.s.) la narrazione verte intorno all’incredibile eco che ebbe, nell’aurea Roma di Augusto e Tiberio, l’ambiguità legata ai termini “salvatore” e “vangeli”. Preziosa qui l’amichevole partecipazione di Amedeo Feniello dell’Università de L’Aquila.

Luca Nencetti, Giorgio Sales e Giuseppe Benvegna

Entrambi i docufilm sono il frutto dell’appassionata sinergia tra diverse forme espressive: quella del documentario, quella del film e quella del teatro. Infatti, agli splendidi testi redatti da Andrea Lonardo (autore oltre che attore principale di entrambi i docufilm) si intrecciano sapientemente sia l’accuratissima regia cinematografica di Alessandro Galluzzi, che la regia teatrale e la direzione artistica, ricche in sensibilità, di Francesco d’Alfonso. La produzione è di Valerio Ciampicacigli per Ulalà Film

Ma ciò che li rende così unici, oltre all’elegante e certosina cura estetica – mai fine a se stessa ma sempre a servizio di un fine etico e divulgativo – è l’originalità dei contenuti sui quali gettano luce, portando alla ribalta quelle feconde interazioni dialettiche tra cultura pagana e cultura cristiana indispensabili per rileggere in modo originale la storia e la spiritualità di Roma. E non solo, perchè da esse ha preso avvio la stessa cultura occidentale.

Senza la lettera di San Paolo ai Romani, ad esempio, non ci sarebbero stati né Agostino, né Lutero, che si fecero portavoce della necessità di una salvezza che non dipende solo dall’uomo. Inoltre è dall’affermazione di Gesù “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” che nasce il principio della laicità : ogni vera religione deve rispettare la libertà dello Stato e ogni vera politica non ha il diritto di arrogarsi un potere assoluto, disgiunto dal bene .

La stessa scelta del titolo del primo docufilm “Quindi arrivammo a Roma” pur essendo una citazione da “Atti degli Apostoli” (28,11-16.30-31), non può non far risuonare nella mente e nel cuore dello spettatore quell’ “Allora uscimmo a rivedere le stelle” dantesco (c. XXXIV, v.139) presagio – lì come qui -di un nuovo cammino di luce e di speranza. 

In entrambi i docufilm la narrazione cinematografica del regista Alessandro Galluzzi tende a prediligere uno sguardo riflessivo, dove i piani sequenza e le riprese in soggettiva godono di uno status fondamentale, alimentando suggestioni poeticamente decadenti alla Paolo Sorrentino e momenti di suspence alla Alfred Hitchcock.

L’ io dello spettatore vede, infatti, con gli occhi del personaggio diegetico ed è proprio la forma del suo sguardo a condurlo nella forma linguistica della storia raccontata, punteggiata da panoramiche a schiaffo che ripropongono la necessaria naturalezza del battito delle palpebre dello sguardo. Non mancano gli spostamenti più poetici resi, soprattutto nelle scene di teatro, con assolvenze e dissolvenze, anche incrociate. Il tutto sempre con un effetto visivamente eloquente, tale da mantenere desta l’attenzione e alta la tensione emotiva.

Francesco d’Alfonso

Allo sguardo cinematografico si lega armonicamente la scelta dei tappeti musicali di entrambi i docufilm, curata abilmente da Francesco d’Alfonso, il quale si orienta opportunamente verso l’utilizzo di melodie prevalentemente eseguite con strumenti ad arco. Strumenti, e quindi mezzi, più adatti a veicolare proprio quella originalità – a volte “ruvida”, altre volte “lieve” – della narrazione e quindi della dialettica tra sacro e profano. Archi portatori di quell’appassionato rigore, che sa come muoversi e trovare un equilibrio tra spirito apollineo e spirito dionisiaco. 

Giorgio Sales

Ma allo sguardo cinematografico di Alessandro Galluzzi, Francesco d’Alfonso sa conciliare, oltre ai tappeti musicali più appropriati, anche un’accorta ed efficacissima regia teatrale, dove alla solenne staticità degli attori, resa vibrante da un’appassionata interpretazione vocale – sono tutti giovani professionisti diplomati all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico – si lega un mirabile uso caravaggesco della luce.

Luca Nencetti

Luce che sa essere sia divinamente epifanica ma insieme anche inquietantemente umana, riuscendo così a far affiorare anche quel “lato oscuro” connaturato all’essere umano. Quel lato che Socrate attribuiva all’ignoranza insita nell’uomo e che Paolo, con sguardo assai più moderno, rintracciava in quel tendere, tipico dell’essere umano, verso qualcosa a cui però, per natura, non riesce ad arrivare.

Giuseppe Benvegna

Splendido il ritmo che il regista Francesco d’Alfonso richiede ai suoi attori e che loro sanno come rendere: con quella leggerezza, di cui parlava Italo Calvino, che riesce ad accogliere anche il più profondo dei pathos.

Chiara Ferrara e Matilde Bernardi

La scena che rievoca la Passione delle due cristiane Perpetua e Felicita (nel primo docufilm ) ne è un seducente esempio: qui estasi mistica e ferina passionalità riescono a raggiungere un equilibrio che incanta.

Matilde Bernardi e Chiara Ferrara

Nel secondo docufilm, invece, il regista osa andare oltre arricchendo l’interpretazione richiesta agli attori con suggestioni coreografiche di sublime bellezza. Come quando sceglie di visualizzare l’ambiguità venutasi a creare su chi fosse il vero “salvatore”: l’Imperatore Augusto, che come tale si auto-appellava, o quel bambino nato in quegli stessi anni da una vergine in Galilea?

Matteo Santinelli e Marco Tè

La scelta registica di far interpretare questa scena (ricavata dal testo della “Ecogla IV” di Virgilio) a due attori uniti di spalle -quasi personificazione degli “opposti vangeli”- per poi disgiungerli, sembra alludere anche al mito platonico delle metà, raccontato per bocca di Aristofane nel “Simposio” di Platone.

Marco Tè e Matteo Santinelli

Una separazione fertile se finalizzata alla ricerca dell’altra metà (ovvero dell’altro “salvatore”) consapevoli che una coesistenza senza sopraffazione può essere possibile. Come fece il Tevere, accogliendo nel suo fluire i gemelli fondatori di Roma insieme a Pietro e Paolo, che in quel fiume battezzarono i primi cristiani della metropoli edificata da Romolo e Remo. Una resa scenica questa della “Ecogla IV” di Virgilio di un’efficacia estetica ed emotiva potentissima.

Un altro magnifico esempio di potenza coreografica lo si trova nella scena che fa rivivere un passo dell’iscrizione augustea di Priene: qui la scelta registica fa sì che all’attore sia chiesto di assumere una postura plastica che, nella sua naturale eleganza, ricorda moltissimo “Il Pensatore” di Rodin.

Giorgio Sales, Giada Primiano, Matteo Santinelli e Roberta Azzarone

E ancora, come non rimanere catturati dalla potenza espressiva degli attori nella scena ispirata a “La Salomè” di Oscar Wilde? Qui la tensione emotiva raggiunge picchi energeticamente sanguigni, macbethiani !

Roberta Azzarone e Matteo Santinelli

Roberta Azzarone, Giorgio Sales e Giada Primiano

Roberta Azzarone, Giada Primiano e Giorgio Sales

Matteo Santinelli

E infine, ne “Il Vangelo secondo Pilato” di Éric-Emmanuel Schmitt, ricca in acume è la scelta del regista d’Alfonso di vestire “il suo” Pilato in tailleur bianco: il colore che contiene tutti i colori, il colore che non sceglie. Come fece Pilato. E la luce va a cercarlo: illuminandolo in tutta la sua interezza.

Giorgio Sales

I docufilm sono stati ideati dal Vicariato di Roma e curati dall’Ufficio per la pastorale universitaria e dall’Ufficio per la pastorale del tempo libero, del turismo e dello sport. In redazione Annalisa Maria Ceravolo, Claudio Tanturri e don Francesco Indelicato, direttore dell’Ufficio per la pastorale del tempo libero, del turismo e dello sport.

Andrea Lonardo

Il format dei due docufilm è pensato per quanti vivono quotidianamente la città e il centro storico, in particolar modo per gli studenti delle università romane, oltre che per pellegrini, turisti e guide turistiche.

Ma soprattutto i due docufilm nascono dall’esigenza di offrire a chiunque la possibilità di avere “chiari gli occhi e luminosa la mente per veder la meraviglia”. Quella lasciata da due magnifiche eredità: quella classica e quella cristiana. “Con tutta franchezza e senza impedimento”.


Recensione di Sonia Remoli