Recensione del film CAMPO DI BATTAGLIA – regia Gianni Amelio –

Con

Alessandro Borghi

Gabriel Montesi

Federica Rosellini

 Film presentato all’ 81ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica 

Quante forme può assumere il nostro slancio vitale, immerso nell’emergenza traumatica della guerra?

Nella cornice che si avvia a chiudere il Primo Grande Conflitto Mondiale e ad aprire il fuoco dell’attenzione sull’esplosione della successiva guerra pandemica della Febbre Spagnola, lo sguardo poeticamente lacerato di Gianni Amelio riesce a relazionarci alla guerra da un’insolita prospettiva: quella che la vede campo di battaglia tra inedite forme di slancio vitale.

Il regista Gianni Amelio

Il film si ispira, realizzandone un libero adattamento, al libro di Carlo PatriarcaLa sfida” e ha, tra le altre cose, il merito di riaccendere l’attenzione cinematografica sulle conseguenze – mediche ed esistenziali – provocate dalla guerra e dalla pandemia della febbre spagnola, che raggiunse il suo picco nell’ottobre del 1918. Un trauma di cui si è poco parlato al tempo, per vari motivi, non ultimo quello per cui all’epoca costava troppo ammettere di brancolare nel buio. 

Ma ogni trauma è tale proprio perché accade un evento per il quale le attuali risorse per affrontarlo non si rivelano più efficaci. E seppur immersi nel buio, ne vanno ricercate delle altre. Perché “sopravvivenza” non equivale più solo a “resistenza”. Perché diverse sono ora le paure e le aspettative. Perché mutando i confini della libertà, emergono necessariamente altre identità di noi stessi.

Ed è  all’interno di questo disperato campo di battaglia civile che desidera indagare il prezioso film di Gianni Amelio.

Gabriel Montesi (Stefano)

Stefano (Gabriel Montesi) è uno dei due ufficiali medici di un ospedale militare del fronte trentino-friulano. Pur dichiarando di essere ormai insopportabilmente insoddisfatto del lavoro che svolge, non ce la fa ad uscir fuori da questa situazione stagnante che lo sta spegnendo. E che equivale – proprio nel suo rimanere cieco e sordo a come si stia modificando il suo sguardo sulla guerra – ad una sorta di automutilazione del suo slancio vitale.

Federica Rosellini (Anna) e Gabriel Montesi (Stefano)

Un accecante senso del dovere verso la patria e verso l’appartenenza allo status borghese lo portano allora a riversare la sua insoddisfazione in una disamina ossessiva tra chi, dei malati ricoverati, “deve” tornare a combattere al fronte e chi invece “deve essere giustiziato” avendo mentito sul proprio stato di salute, traumatizzato dall’esperienza di guerra appena fatta. 

E’ un gioco di specchi quello che lui inconsapevolmente mette in atto: anziché prendersi cura dell’effettivo stato di salute fisica e morale dei militari, punisce e obbliga chi non dimostra (un ottuso) slancio vitale nel ritornare al fronte, per compensare il fatto di non riuscire lui stesso ad affrontare la guerra con lo stesso slancio iniziale. Il suo fanatismo politico si trascina dietro allora un fanatismo medico, pur di non trovarsi lui stesso faccia a faccia con la nausea che lo pervade e che gli parla della necessità, ora, di un cambio di slancio vitale.

Gabriel Montesi (Stefano)

Come se cambiare punto di vista significhi esclusivamente essere inefficienti e traditori. E non anche avere la capacità di rimanere in contatto con la natura autentica del proprio sentire, che necessariamente muta immersa in un diverso contesto socio-esistenziale.

E infatti non è un caso che l’ossessione verso l’efficientismo predisponga alla prepotenza tipica degli intolleranti, che attribuisce paranoicamente all’Altro le proprie responsabilità.

Impotente quindi di fronte all’ascolto del suo desiderare, e di conseguenza anche verso quello degli altri, Stefano si auto elegge allora allo status di un dio che ogni giorno – quasi come in un contesto da “giudizio universale” – si sente chiamato a giudicare tra Bene e Male. E soprattutto a ben separarli. 

Gabriel Montesi (Stefano) e Alessandro Borghi (Giulio)

Con Stefano, nell’ospedale militare, lavora anche un suo amico d’infanzia – Giulio (Alessandro Borghi) – dalla vocazione di ricercatore e che, anche sbattuto in prima linea, non può fare a meno di continuare a chiedersi cosa significhi “aver cura” degli altri ora, quasi al termine della guerra. La sua postura medica ed esistenziale ci parla del continuo essere in ascolto se il suo sentire resta confermato o se invece propone delle variazioni. 

Alessandro Borghi (Giulio)

Scopre così che ora non ce la fa a “giudicare” e a “separare nettamente” – come fa il suo amico Stefano – il Bene dal Male. E clandestinamente prova compassione per i soldati che si ritrovano a desiderare di mentire pur di non tornare ancora sul campo a combattere. La sua compassione – paradossalmente al concetto istituzionale di cura – si concretizza nell’amplificare, dietro consenso, le ferite di guerra dei soldati, ancora ricoverati ma “giudicati” ottusamente idonei al ritorno in guerra dal “dio Stefano”.  Così enfatizzata, però, la nuova non idoneità elimina ogni dubbio e di conseguenza legittima il congedo autorizzato dal campo di battaglia.

E così, un luogo deputato alla cura e alla riabilitazione finisce per rivelarsi – in un contesto fuori dall’ordinario com’è la guerra – il campo dove si gioca la battaglia tra chi insensibilmente non si cura delle ferite dell’anima oltre che di quelle del corpo e chi, per curare le ferite dell’anima, mutila ancor di più il corpo.

Federica Rosellini (Anna)

I due amici e colleghi saranno poi raggiunti a sorpresa da una loro compagna di studi, ora ridimensionata a volontaria della Croce Rossa – Anna – (Federica Rosellini): una studentessa troppo brava per essere donna e quindi per poter essere riconosciuta nel suo autentico valore anche di medico.  Una figura femminile “mutilata” nel suo slancio vitale ma che fino alla fine- nonostante tutto – riesce a non abbandonare la sua vocazione verso la medicina, accogliendola come un fertile enigma, anche esistenziale, dalle molteplici soluzioni. Un po’ come l’amore.

Federica Rosellini (Anna)

Quasi in sciopero dalle parole – sono in lei i silenzi a prevalere – è nei suoi occhi che lo spettatore può leggere tutta l’ondivaga sublime inquietudine che la abita. S’ intuisce che in passato fosse molto vicina a Giulio e così continua a fare ora. Scoperto il suo insolito slancio vitale verso “il concetto di cura”, dopo un iniziale tentennamento, sceglierà di seguirlo fino a farsi testimone della sua vita.

Federica Rosellini (Anna) e Alessandro Borghi (Giulio)

Un film, questo di Gianni Amelio, che contribuisce a guarirci dalla tentazione all’assuefazione che la guerra tende ad ispirarci. Un film che tonifica l’elasticità del nostro slancio vitale.

E che ci racconta come “il prendersi cura” – così come la democrazia – si fondino sul principio dell’instabilità, del pluralismo, del mediare, del tradurre, dell’accogliere e del comporre le differenze e le diversità. 

Un “prendersi cura” che non trova compimento una volta per tutte: la vita, la democrazia e la medicina non si danno infatti per sempre: sono il frutto di una continua ricerca.


Recensione di Sonia Remoli