Recensione dello spettacolo IL DELITTO DI VIA DELL’ORSINA di Eugène Labiche – regia di Andrée Ruth Shammah –

TEATRO AMBRA JOVINELLI, dal 6 al 17 Dicembre 2023 –

Dopo la luminosa accoglienza ricevuta alla Festa del Cinema di Roma 2023 con il docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”, è approdato ieri a Roma il primo dei quattro spettacoli che la produzione del Teatro Franco Parenti di Milano ha portato in scena dal palco dell’Ambra Jovinelli: “Il delitto di via dell’ Orsina”.

La splendida occasione offerta al pubblico romano nasce dal desiderio della Direttrice artistica e Regista Andrée Ruth Shammah di condividere anche con la Capitale i “50 anni di vita” dell’eclettico Teatro di via Pier Lombardo 14. 

Andrée Routh Shammah

Da una fusione creativa tra la briosa vaporosità di un vaudeville e il cupo magnetismo di un noir, prende forma “Il delitto di via dell’Orsina”: la riscrittura drammaturgica – dal fascino alchemico – de “L’affaire de la rue de Lourcine” (1857) di Eugène Marin Labiche

Eugène Marin Labiche

Uno spettacolo che è in tournée da tre anni e che quindi è stato attraversato dal trauma del Covid 19. Ma che deve la sua geniale singolarità proprio all’oscurità emotiva che ha caratterizzato quell’indimenticabile periodo. E la sagoma in proscenio, raffigurante un attore che è restato chiuso per lungo tempo dentro la sua stessa valigia, sembra parlarcene.

Un evento, il trauma del Covid, che ci ha colti al buio, inermi – nel sonno, come avviene ai due protagonisti principali in scena – senza le risorse necessarie per affrontarlo. Una “poca luce” rivelatasi invece necessaria alla Shammah per valutare “i colori” che si sarebbero mostrati nel corso della lavorazione drammaturgica fino alla “tempera”, con la quale decidere la giusta flessibilità della materia.

Antonello Fassari e Massimo Dapporto

Perché quello della pandemia è stato un trauma che ci ha fatto sperimentare sulla nostra pelle come nessuno si può salvare da solo: che non siamo fatti per vivere isolati. Ma contemporaneamente, e paradossalmente, abbiamo vissuto anche la drammatica consapevolezza che l’Altro, oltre ad essere imprescindibile per il nostro stare al mondo, può essere un nemico, uno straniero.

Riflessioni, queste, che con dosata leggerezza s’intrecciano come ulteriori fili nella trama del tessuto dell’opera della Shammah, contribuendo al confezionamento dell’ “habitus” di questo speciale adattamento.

Ne avvertiamo l’eco nella nuova ambientazione storica della vicenda: i primi anni del Novecento, quelli che precedono il futuro “virus” del fascismo. Ma altri echi arrivano anche dentro la dimensione microcosmica legata al ciclico passaggio – ma non per questo meno traumatico – di consegne generazionali.

L’avvicendarsi dei due servi, il giovane (Christian Pradella) e il vecchio (un sempre poetico Andrea Soffiantini) che sta ultimando i suoi quarant’ anni di onorato servizio, sembra fondarsi soprattutto sulla capacità a saper “strofinare via” questo trauma: “A monsieur piace star bene, è il suo senso della vita”.

Ma in testa, nella memoria, resta comunque “un buco nero”, uno strappo : come quello reso attraverso la carta da parati di un fondale (la cui cura è affidata a Rinaldo Rinaldi), parte di una scena che riproduce metaforicamente non solo un interno borghese ma anche la condizione emotiva dei protagonisti (le scene, costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti e FM Scenografia, sono curate da Margherita Palli). Una “copertura”, quella della carta da parati, che viene meno parlandoci di un’autentica vulnerabilità.

Interventi drammaturgici decisamente efficaci, guidati da un giusto equilibrio tra tradizione e tradimento e inseriti all’interno di un’operazione culturale nata dalla consapevolezza di essere stati anche noi traghettati in un passaggio storico epocale ancora da metabolizzare. 

Il prodotto della lavorazione in cui si è calata la Shammah ci arriva allora con la grazia tempestosa di un dono: una narrazione compassatamente gioiosa ma seducentemente noir, attraverso la quale avvertiamo la coscienza di essere protagonisti di una di quelle fasi di transizione che fanno della vita, la vita. Ma che il Teatro sa aiutarci ad affrontare con coraggio: senza farci sopraffare dallo spettro del fallimento, né da quello del giudizio altrui.

Perché ciò che ci accomuna tutti è proprio la predisposizione a fallire.

A fare la differenza, invece, è ciò che riusciamo a fare dell’errore. Quanto riusciamo a renderlo fertile. 

In scena i due ex compagni del collegio Labadoni, oltre a condividere una complicità goliardica, si ritrovano ad essere sodali anche nell’architettare soprusi. Pur di non sostenere il buio del dubbio (che li avrebbe resi più attenti a valutare tutti gli elementi della situazione) e pur di non assumersi la responsabilità dell’accaduto e il conseguente fallimento momentaneo del loro status sociale (qualora fossero state confermate tutte le prove della loro responsabilità nel delitto di via dell’Orsina).

Un autentico perdere i punti di riferimento esteriori ed interiori, il loro. Un tono che, goliardicamente, forse si può recuperare con qualche sorso di curaçao.

Ma ecco che ombre interiori iniziano a palesarsi: sono ombre/sagome di un nuovo sapore magrittiano (tratte dalle opere di Paolo Ventura) che s’insinuano anche sulla scena. E che possono prendere la forma di un’inconscia confessione ad alta voce nel sonno, come capita al cugino Potardo (un efficace Marco Balbi).

Perché così è la natura umana: l’istinto alla sopraffazione è in noi il più arcaico e quindi il più potente. Lo ereditiamo tutti per natura. A differenza dell’amore (e quindi della compassione e del rispetto) che invece è tutto da imparare nel corso della nostra esistenza. 

La declinazione di questi contenuti nel brio, opportunamente non esasperato, e nella gioia del vadeville è anche un modo per onorare “lo spirito”, oltre che “i meccanismi”, delle opere di Labiche del secondo periodo.

In esse è racchiuso uno sguardo diverso, più profondo – ma mai giudicante – sul modo di vivere della borghesia, a cui lo stesso Labiche apparteneva e al cui nuovo orizzonte era stato formato già ai tempi del Liceo Condorcet.

Uno spirito d’osservazione capace di leggere penetrantemente nell’animo umano e attraverso il quale l’autore esprime delle idee molto sottili.

È ricco questo borghese, o quantomeno benestante: una ricchezza che spesso però diviene terreno fertile per coltivare il fiore della stupidità. Infatti pur avendo vissuto molto, sembra non aver imparato nulla dalla vita: le sue poche esperienze si convertono inevitabilmente in aforismi o formule prive di un autentico significato: ” l’appetito vien mangiando, l’oblio non pensando”.

Un uomo che si presta a cadere negli “equivoci” anche perché lui stesso, in qualche modo, “equivoco”: uno che si impegna ad essere “scambiato” per essere altro da sé. 

Massimo Dapporto e Antonello Fassari

Massimo Dapporto (Zancopè) e Antonello Fassari (Mistenghi) sono due “simpatiche canaglie” alle quali, come nell’intento di Labiche, si tende a perdonare tutto. O quasi.

Portano perfettamente a compimento quel brio di soluzioni sceniche, che tien luogo a delle soluzioni interiori: non le sostituisce, ma ce le fa volentieri dimenticare.

Complice il sublimare i momenti d’empasse nel canto e nel ballo (nei quali, con un loro stile, sanno davvero brillare). Le musiche originali, eseguite da una piccola orchestra – pianoforte, clarinetto e flauto – sono di Alessandro Nidi.

Dapporto è di un’eleganza irresistibile, almeno quanto la mirabile capacità a tradurre i suoi pensieri attraverso il gesto e la voce. Pensieri che scorrono nella mente parallelamente alla loro visualizzazione attraverso l’espediente di un piccolo sipario mobile.

Fassari è straordinariamente morbido e insieme grossolano. La Shammah lo fa brillare, proprio come amava fare Labiche, con un accessorio stravagante che ne accentua la sua goffaggine.

Susanna Marcomeni (Norina, la moglie di Zancopè) è inappuntabile: precisa ed efficace. Lieve e piena di grazia. Una “passerottina” – come ama vezzeggiarla suo marito – che indossa abitini “dal piumaggio” aranciato che mutano tonalità parallelamente alle sue emozioni, ai suoi dubbi. Fino a raggiungere i toni dell’entusiasmo del rosso ( i costumi sono curati da Nicoletta Ceccolini e realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti, diretta da Simona Dandoni).

La cura della drammaturgia delle luci è affidata a Camilla Piccioni

Con questo spettacolo Andrée Ruth Shammah dimostra di conoscere l’arte alchemica di sottrarre parti del mondo materiale alla tirannia del tempo, restituendoci appieno la descrizione di quale libertà è concessa alla natura umana, qui sulla Terra. 

Una libertà racchiusa nella frase di commiato che mette in bocca al vecchio servo: “Ruba ogni giorno un po’. Io l’ho sempre fatto. Con eleganza”.

Un rubare che al di là del significato letterale vuol essere un invito, che è poi l’ontologia del Teatro, a saper entrare in relazione con l’Altro. Riconoscendogli ciò che noi (ancora) non abbiamo e divenendo così eredi di un’umanità condivisa, che ci rende “liberi”. Davvero.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del docufilm SCARROZZANTI E SPIRITELLI – 50 anni di vita del Franco Parenti – regia di Michele Mally –

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023, Auditorium Parco della Musica – 23 Ottobre 2023 –

Poesia di luce e di speranza, 50 lunghe candele fanno ardere di fulgente intima magia le emozioni e i ricordi dei primi 50 anni di vita di quel “santuario della parola” che è stato, è, e sarà il Teatro Franco Parenti.

“Davar” in ebraico significa, infatti, “parola”. Ma anche “avvenimento”. Parlare quindi vuol dire anche far accadere le cose. Sacro è il fuoco della parola, che crea la vita umana. Divino è il legame che istituisce tra il visibile e l’invisibile. 

Andrée Ruth Shammah al Teatro Franco Parenti

Ecco allora che l’incandescente ed eclettica Andrée Ruth Shammah decide di riplasmare lo spazio teatrale, predisponendo una scenografia potentemente essenziale. Capace, cioè, di ospitare un grande fuoco attorno al quale invitare a riunirsi, in magico cerchio, tutti i più cari amici del Franco Parenti – i testoriani “scarrozzanti” – testimoni ed eredi della filosofia di questa “Casa del teatro”.

Una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli” presso il Teatro Franco Parenti

Tanti gli amici registi e attori, con un ruolo-chiave per la storia di vita del Parenti, che hanno condiviso anche nel docufilm la loro testimonianza sul rapporto con questa realtà: Mario Martone ne sottolinea il legame imprescindibile con Milano; Marco Giorgetti il fatto di essere un teatro-mondo che soddisfa ogni esigenza culturale e di vita; Anna Galliena ne ricorda la genesi come “di una storia che non sembrava e che invece poi è stata”; Roberto Andò evidenzia che quello che si sente al Parenti è un’idea di teatro che è un autoritratto della Shammah. Solo per citare alcune delle testimonianze colme d’emozione che si sono susseguite. E poi la dichiarazione-incoronazione di Filippo Timi: “La vera fortuna, e non possiamo far finta che non lo sia, di questo teatro sei tu, che sei il presente. E’ fondamentale Andrée perchè “x” che tende all’infinito ha bisogno di un punto e Andrée sei tu. Chiamalo il cuore, chiamalo The Mother, chiamalo luce”.

In sala ieri sera, oltre a molti di loro, la prestigiosa presenza umana e professionale di Adriana Asti, testimone del profondo sentire che la lega al Parenti e alla Shammah.

Ma il docufilm – la cui regia è affidata alla densa sensibilità di Michele Mally – tiene memoria anche di coloro che solertemente lavorano e hanno lavorato dietro le quinte, ovvero gli artigiani del Teatro. Nominati uno ad uno: perché è dando un nome che si riconosce un’identità. Perché anche loro sono “il fuoco del teatro” – come ha ricordato con sincera commozione Raphael Tobia Vogel.

Scena di un contributo video di Adriana Asti ne “La Maria Brasca”

E per quelli che non ci sono più – in primis Franco Parenti, Giovanni Testori, Dante Isella ma anche e soprattutto Eduardo De Filippo, quelli che la Shammah chiama gli “spiritelli” e che sono stati “pericolosi perché hanno vissuto i loro sogni ad occhi aperti con il proposito di attuarli” – la loro assenza sarà presente attraverso il fulvido fuoco del ricordo di questa splendida comunità. Fuoco e quindi medium tra il nostro e il loro mondo. 

Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah

Come nel 1973, è stata la serata del 16 gennaio 2023 quella in cui si è rievocato l’inizio dell’attività dell’allora Salone Pier Lombardo. Quando cioè andò in scena la prima regia di Andrée Ruth Shammah: “L’ Ambleto” di Giovanni Testori, primo capitolo della “Trilogia degli Scarrozzanti”. E proprio nell’incontro del 16 gennaio scorso, intitolato “In compagnia della loro assenza”, si è consumato questo solenne e “primitivo” rito collettivo: per celebrare il Teatro. Prima ancora che il Franco Parenti. 

Andrée Ruth Shammah in una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”

Da sempre l’uomo affida al rito i momenti di passaggio – così ricchi di pericolosa opportunità – della sua esistenza personale, nonché della collettività di cui fa parte. E cerca in esso la garanzia del mantenimento della propria identità e di quella della comunità di appartenenza.

Quello infatti che l’arguta direttrice artistica ha scelto di mandare in scena per il magico attraversamento del 50esimo anno di vita della sua realtà esistenziale, prima ancora che professionale, è un sacro “atto di scelta”, di ancora viva testimonianza e aderenza ad uno stile di vita e di lavoro.

Una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”

Ad aprire la preghiera-rituale comune, la Shammah ha investito il caro amico Massimo Recalcati – rinomato psicoanalista e saggista ma anche appassionato amante del teatro – che ha gettato luce, con la solenne grazia della sua parola, sulla deriva dalla quale è bene liberare l’atteggiamento della “nostalgia”. Lei che ci avvolge così prepotentemente nel momento in cui avvengono degli eventi che segnano un forte cambiamento di rotta al nostro navigare nel mare della vita. Ma la sacra esigenza del ricordare, propria dei momenti di rievocazione di un ameno passato, lungi dal favorire atmosfere di mero rimpianto che portano ad una sterile stagnazione o ad una paralisi evolutiva, può e deve prendere la forma di una profondissima gratitudine. Perché chi non c’è più è presente proprio grazie alla sua assenza. Nostro compito è allora quello di “portarli con noi”, nel presente e nel futuro. Perché è questo ciò che davvero in maniera più autentica essi desiderano. E dei loro insistenti desideri sono ancora intrisi gli stessi muri del Teatro. Perché così fanno i desideri, quelli autentici.

Franco Parenti è “L’Ambleto” di Giovanni Testori

Ecco allora anche la scelta di continuare ad assegnare l’incipit del docufilm alla voce-presenza dell’ ambletico Franco Parenti. Così come la chiusura del docufilm: perché ogni fine contiene in sé un nuovo inizio, un nuovo incipit.

Perché l’importanza dei “maestri” – coloro cioè che “hanno portato con sé un po’ di mondo da difendere” – chiede di essere ricordata. Ma soprattutto “presa”: colta e fatta propria. Nel presente. In un ciclo vitale, capace di continuare a far emergere fresca linfa, all’interno di un naturale e prezioso passaggio di consegne.

Perché così “il teatro existerà contra de tutto e de tutti, enzino alla finis de la finis” .

Raphael Tobia Vogel in una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”


Scarrozzanti e spiritelli

50 anni di vita del Teatro Franco Parenti

ideazione e direzione artistica Andrée Ruth Shammah

regia Michele Mally

sceneggiatura di Didi Gnocchi e Paola Jacobbi

con i contributi video di Raphael Tobia Vogel

una produzione 3D Produzioni

in collaborazione con Teatro Franco Parenti e Rai Cinema

con il sostegno di MIC – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo



CALENDARIO DELLE PROIEZIONI

Lunedì 6 Novembre 2023 – ore 20:00 : Sala Excelsior – Anteo Palazzo del Cinema Milano

Lunedì 27 Novembre 2023 – ore 19:00: Cinema Modernissimo – Cineteca di Bologna


Recensione di Sonia Remoli