Recensione dello spettacolo SOLE & BALENO – Una favola anarchica – Opera originale di Teatro Musicale – testo di Pietro Babina – musica di Alberto Fiori

TEATRO LE MASCHERE, dall’8 al 10 Ottobre 2024 –

Cosa c’è di meno omologante – e quindi di più scandalosamente creativo – del colore giallo? 

Già per Van Gogh e per tanti pensatori della sua epoca il giallo era il simbolo del rifiuto dei valori vittoriani di repressione del sé. Il giallo induce a una vita versatile e vagabonda e tale è anche la natura del pigmento stesso: instabile, facile ad annerirsi. Gli artisti sapevano bene quanto fosse insidioso questo colore. Più recentemente però è Claudio Parmiggiani ad offrirne un magnifico esempio in una sua opera – Senza Titolo, 1995 – dove brilla tutta la bellezza esplosiva del potere creativo del giallo. Opera non a caso scelta per vestire la copertina di un saggio di Massimo Recalcati sull’inconscio: “Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” (Castelvecchi editore, 2024). 

Claudio Parmiggiani, “Senza titolo”, 1995

E di giallo si avvolgono i protagonisti in scena ieri sera sul palco del Teatro Le Maschere: Serena Abrami, Pietro Babina, Alberto Fiori. Per la parte inferiore del corpo scelgono il nero: un colore in perenne espansione, pronto ad inghiottire tutto. Come l’omologazione. Ma gialle sono anche le loro postazioni: luoghi fisici e della mente. E il fondale grigio alle loro spalle è sì metafora di un muro ma dove ogni blocco è in comunicazione con l’altro grazie a dei confini osmotici e quindi creativi. Gialli, appunto.

Questa tensione cromatica incarna perfettamente un tema portante di “Sole & Baleno” – l’opera originale di teatro musicale di Pietro Babina – e cioè quanto sia necessario, ma maledettamente complesso, resistere alla tentazione di restare inghiottiti in una paralizzante e mortifera omologazione.

Infatti nel tentare di superare la nostra inclinazione naturale alla sopraffazione, dobbiamo anche confrontarci con la paradossale tentazione di desiderare abdicare alla nostra libertà. Consegnandola nelle mani di chi ci promette di prendersene cura, sgravandoci dal peso della sua ebbrezza. Perché la libertà porta con sé anche l’angoscia legata alla sua grande apertura. Ma mentre noi fatichiamo a rendercene consapevoli, chi in società pretende di presiedere ai nostri desideri ne è così consapevole da approfittare, quasi come sciacalli, del fragile potere della libertà umana. 

Pietro Babina e Serena Abrami ci veicolano attraverso la musicalità polimorfica della loro voce – prima ancora che con il significato delle parole – lo straniamento necessario per ridestarci da quell’eccessivo bisogno che per natura abbiamo di sentirci al sicuro. Perché sentirsi al sicuro spesso implica il lasciarsi manipolare da qualcuno.  Ecco allora che allo straniamento vocale Babina concerta quello musicale prodotto dalle mutevoli, fluttuanti, instabili, incostanti, imprevedibili composizioni musicali di Alberto Fiori. Brecthianamente straniare aiuta infatti a “de-automatizzare” la nostra percezione, inducendo nel fruitore della percezione un’impressione insolitamente viva di un determinato contenuto.

L’occasione di quest’affascinante opera originale di teatro musicale viene da un fatto di cronaca di alcuni anni fa, passato in sordina dai media dell’informazione. Negli ultimi anni ’90 del Novecento, in una stagione di lotte e sabotaggi contro la costruzione della TAV Torino-Lione, furono arrestati due giovani attivisti: Soledad Rosas (qui Sole), ragazza argentina, e il suo compagno Edoardo Massari (qui Baleno, il suo soprannome) anarchico italiano. Imputati di associazione sovversiva e soggetti a reclusione preventiva, si suicidarono a breve distanza l’uno dall’altro. Dopo 4 anni, però, la Corte di Cassazione lasciò cadere per mancanza di prove l’accusa di sovversione e terrorismo.

Il lavoro drammaturgico di Pietro Babina parte da questo fatto di cronaca e va molto oltre. Attraverso la sua capacità di lettura e di interpretazione della realtà, Babina infatti indaga e fa emergere quelle che sono le grandi potenzialità insite nella realtà, provocando un’interessante interrogazione su che cosa sia umano e cosa vada oltre.

Un indagare il suo che è l’attitudine a non dare per consolidato né per esaurito nessun livello dell’agire umano e artistico, per poter restare curiosi verso sempre nuove letture.  Così dall’osservazione dei mutamenti sociali, tecnologici, estetici nasce quel tipo di comprensione che porta Babina all’individuazione di potenzialità applicabili anche agli ambiti dell’arte.  

Ad esempio il concetto di “occupazione”: un concetto che contiene una potenzialità preziosa che è quella del “non rimanere indifferenti”. E quindi quella di non limitarsi al lamento solipsistico, solo perché unica forma di pensiero (addomesticato) conciliabile con quell’omologarsi alla massa, così rassicurante ma così anonimo.

Un germe fecondo, quello della potenzialità insita nel concetto di occupazione,  del quale Babina si è lasciato più volte fertilmente contagiare in gioventù: quando rimase affascinato da una fabbrica di scatolame abbandonata e occupata, nella quale riuscì a dare vita – concordando uno spazio con gli occupanti – a quella che fu la prima idea del suo  “Teatrino clandestino”. E ancora quando, durante gli anni dell’Accademia, frequentò un laboratorio di Leo de Berardinis nel primissimo luogo occupato di Bologna.

E proprio durante gli ultimi anni dell’esperienza del “Teatrino clandestino” nasce “Candide”: una performance sui generis dove prende forma una evoluzione concertata tra scena, musica e personaggio. E dove al giovane Babina si affianca già il musicista Alberto Fiori. Una performance dove qualcosa del personaggio “Candide” sembra ora passare nella Sole di Serena Abrami: quel suo splendido “perdersi nel mondo” e quella certa necessita di “coltivare il proprio giardino”, così necessari anche oggi. 

Obiettivo dell’indagine di Babina è infatti far sì che il Teatro e la Musica trovino il modo per essere efficaci – e quindi magnetici – nel ridare vitalità a posture ossidate della società, in concorrenza con la tensione manipolatrice dei mass media.

Ed effettivamente in questa opera originale di teatro musicale che è “Sole &Baleno” Pietro Babina cerca e trova in noi percorsi sotterranei e giacimenti emozionali preziosi per il nostro risveglio esistenziale.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ISMENE/ANTIGONE, La sorella minore – da “Pale Sister” di Cold Tóibín – adattamento e regia di Carlo Emilio Lerici –

TREND – NuoveFrontiere dalla Scena Britannica

– Rassegna ideata da Rodolfo di Giammarco –

dal 3 Ottobre al 17 Novembre 2024

TEATRO BELLI, dal 3 al 6 Ottobre 2024

Carlo Emilio Lerici sceglie di immergere il testo di Colm Tóibín in un ambiente abitato da sonorità oniriche: il luogo di un altro linguaggio, di un linguaggio di là dei principi della logica, che dà la parola al silenzio delle ombre.

E’ il luogo di Ismene: la figlia nell’ombra, che sta dietro la fulgente Antigone, la figlia nell’angolo e che percepisci solo con l’angolo dell’occhio: per la quale non ti volti. Perché lei è la figlia “opaca”; dall’altro canto c’è Antigone: la figlia che brilla, che brucia, che accieca.

Colm Tóibín – che nel 2018 si appresta a riscrivere la tragedia sofoclea sulla scorta di recenti casi di cronaca legati a «questioni di genere, di abuso di potere, di silenzio e comunicazione», temi a lui cari e trasversali alla sua produzione – sente una speciale attrazione per le figure del mito oscuramente chiare, a cui si è trovata una casella e un’etichetta nelle quali confinarle per metterle poi a tacere in un canto, in un angolo.  Ma lui da queste figure si sente come chiamato: ascolta il loro grido di richiesta d’attenzione e le fa rivivere togliendole dagli impropri confini in cui sono state asfissiate. Riattivando così la luminosità delle loro ombre, perché sono ombre che plasmano – o possono plasmare – ogni essere umano. E che quindi è utile conoscere: per conoscerci meglio e per riuscire a farne un buon uso.  Un uso creativo.

Carlo Emilio Lerici, regista solleticato dalle scelte difficili e dalle sfide drammaturgiche che richiedono un‘inclinazione a misurarsi con orizzonti culturalmente ambiziosi, sceglie il testo di Tóibín, lo adatta e lo mette in scena calibrandolo al suo sentire.

E fa di Ismene prima ancora che un personaggio, l’espressione di un luogo della nostra psiche. Un luogo dove sopravvivono resti, rovine, traumi che, sapientemente illuminati dal basso e resi più prossimi, parlano di noi più di mille parole. Perché il silenzio di ciò che è andato dimenticato, sotterrato, rimosso, parla. Ci parla.

Lerici fin da subito evidenzia come proprio attraverso quel luogo in cui è immersa Ismene – un sottosuolo da cui sta riemergendo come sul confine tra il sogno e la veglia –  le arrivino quegli indizi, quei resti mnemonici andati persi e attraverso i quali lei – solo dopo aver attentamente osservato in silenzio – riuscirà a condurre un efficace mutamento. 

Perché è proprio di chi si sa mantenere sul confine – ovvero sul margine inteso come luogo d’incontro e non solo di separazione con l’altro – riuscire a cogliere la preziosità della vita. 

L’Ismene di Lerici diventa “la sorella minore” anche perché minore ha tra i suoi significati quello di “marginale” appunto, al quale noi siamo tentati però di dare esclusivamente il significato di trascurabile, di irrilevante, di inferiore. E’ nella nostra natura cadere in questo terreno paludoso, perché il primo istinto che ci viene dato a corredo al momento in cui veniamo gettati nella vita è l’istinto alla sopraffazione. Per poter sopravvivere. Poi, per vivere, si impara ad amare e quindi ad entrare in relazione. Resta sempre però la tentazione a non mantenersi in dialogo con l’altro sul margine che ci separa, quanto piuttosto a scavalcarlo. 

Antigone è in questa visione colei che ha scelto di allontanarsi da quel luogo fisico e psichico che è la camera dove le sorelle dormivano, scegliendo di andare ad abitare un’area mortifera della psiche: quella della grotta. Quella di un eccesso di giustizia insensibile a mediazioni, al dialogo, alla relazione. 

Ismene non è solo preoccupata, lei “sente”  l’avvicinarsi del pericolo in cui sta per affidarsi la sorella. Lei, Ismene – come è mirabilmente evidenziato dall’interpretazione di Francesca Bianco – è una donna che acutamente trova risposte – più che nelle parole – nella prossemica, nella postura, nelle espressioni non verbali del viso dell’altro. Nei silenzi. E proprio perché interessata a “fare amicizia con il proprio peggio” – per citare il titolo di un saggio di Massimo Recalcati sull’inconscio – proprio perché ascolta le sue ombre, riesce a leggere e a decifrare quelle dell’altro.

Quelle ombre così incantevolmente rese in tutte le loro variazioni dal canto di Eleonora Tosto: un canto opportunamente enigmatico eppure pungentemente chiaro, risuonante, perturbante. Così come il contrappunto della chitarra elettrica di Matteo Bottini.

Carlo Emilio Lerici ha trovato una modalità raffinata e umbratile per mandare in scena il teatro del nostro inconscio mettendolo in dialogo con il teatro della luce diurna del conscio. Una luce apparente, ma che è così facile far diventare certa, netta, tagliente e quindi mortifera per gli altri e per se stessi. Perché non è possibile fare del bene senza calarsi ogni volta nella situazione specifica, senza incontrarsi con l’altro sul margine che vorrebbe dividerci.

Per riuscire a dire “io non ho paura di te”: come fa Ismene, anche su consiglio dello stella spettrale di Antigone, che come le stelle morte del cielo continua a essere luminosa anche se ormai morta. Luminosa di una luce diversa ora, meno eccessiva, meno accecante perché intrecciata e in dialogo alla luce delle ombre di sua sorella Ismene.

Una dichiarazione “io non ho paura di te” che impropriamente siamo tentati di cogliere come un atto di sfida (come fa Creonte) ma che invece può diventare la base di un possibile dialogo. Possibile appunto solo a patto che si deponga a terra, sul confine, l’arma della paura.

Un testo necessario, tradotto da Lerici in una messa in scena che riesce a farci tornare a casa con delle domande, necessarie per “fare amicizia” con nuove prospettive.

In scena al Teatro Belli fino al 6 Ottobre 2024


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo E D’OGNI MALE MI GUARISCE UN BEL VERSO (Farei parlando innamorar la gente) – Breve discorso su Dante, la poesia, il dolore e la vulnerabilità – di Fabio Stassi – con Franco Piana –

In collaborazione con l’Agenzia Letteraria ALFERJ

DOMUS AUREA – MOISAI 2024 Voci contemporanee in Domus Aurea – 27 Settembre 2024 –

Fabio Stassi ha una voce che sorride, una narrazione sognante e una tenerezza di quelle che lasciano il segno. E che non dimentichi.

Pensare che la tenerezza sia una vulnerabilità è improprio  perché la tenerezza è un sentimento che – potente senza essere prepotente – ci spinge oltre la superficie di noi stessi e degli altri. La tenerezza scende dentro e scopre. Ma non giudica. Non spreca troppa energia per il rancore, né per il narcisismo. Il suo è uno scuotere che ci fa resistere con calviniana leggerezza. Un’inclinazione da coltivare e di cui non aver paura, come ci sollecita a fare anche Papa Francesco

Forse è anche per questo che la casa editrice Sellerio chiede proprio a Fabio Stassi – scrittore, bibliotecario e paroliere italiano di etnia arbëresh – di immaginare e proporre poi al pubblico una conferenza sul potere terapeutico di Dante.

Non sarebbe stata la stessa cosa fatta da qualcun altro. Ma lui, non appena ricevuto questo invito, è colto dal panico – così ci confida. La tenerezza però lo libera, prima ancora che la fantasmagorica cultura di cui si nutre e che condivide con generosità. 

E allora accetta. E desidera – proprio come Dante – un compagno di viaggio: un suo Virgilio. Lo trova in Franco Piana: trombettista, flicornista, compositore e arrangiatore, uno dei più importanti jazzisti italiani.  Un uomo che sa fare un buon uso della malinconia: che ne è grato. Uno che apre il canto e che sa attendere, ascoltare, senza mai scegliere soluzioni ma piuttosto proporne il ventaglio dei possibili colori. Un po’ come in un setting psicoanalitico, nel quale anche noi del pubblico ci riflettiamo come in uno specchio. 

Franco Piana e Fabio Stassi

Perché se è vero – come è vero – che la parola è una magia, il tramite è dato dal respiro, dal ritmo e quindi dalla musica. Ecco perché la scelta di Fabio Stassi cade su un fiato, un ottone dal timbro caldo e pastoso con un buon virtuosismo tecnico – il flicorno – che musica il respiro della parola. Quella in movimento, quella di chi sta facendo un percorso, anche interiore.

Una parola che in quanto magia è terapeutica attraverso la ritualità delle ripetizioni, l’incastro degli endecasillabi e perfino attraverso le metafore delle avventure di Sigfrido, così amate dallo Stassi bambino.

Perché la parola, la letteratura, la scrittura ci liberano proprio per la loro capacità di metterci in contatto con la nostra fragilità. Che va guardata senza vergogna ma anzi con tenerezza. Così da poterla valorizzare in maniera creativa.

E’ quello che accade anche a Dante che – grazie allo scrivere – “ripristina o modifica le sue funzioni fisiologiche compromesse”. Un farmaco per lui che, fin dai primi anni di vita, è stato messo così a dura prova con i legami e più in generale con il senso d’appartenenza.

Franco Piana e Fabio Stassi

Dante – ci racconta con fascino onirico Stassi – tende a perdersi, a smarrirsi: ad appanicarsi diremmo oggi. E non riuscendo a trovare sul momento un orientamento, è solito fuggire nel sonno: si addormenta di colpo. 

Ma non se ne vergogna, anzi lo racconta a tutti nei suoi libri: racconta e analizza fin nei minimi dettagli – con una cura scientifica oltre che poetica – quello che gli succede. “Fraile” si definisce: una parola che acusticamente rimanda a una vulnerabilità ancora maggiore della parola “Fragile”.

Una “frailità”, la sua, che col doveroso affetto della pietà e della tenerezza Dante riesce a  tradurre creativamente in scrittura musicale di smisurata bellezza.

Perché grandi cose possono prendere vita dalla nostra vulnerabilità, dalla nostra intelligenza inconscia che si cela dietro a delle apparenti “impresentabilità”: quelle che siamo tentati di nascondere, vergognandocene, perché inefficaci. Tentati di affidarci a chi – in cambio della nostra intelligenza più creativa – demagogicamente ci promette la sicurezza del far parte di una massa tutta uguale e quindi informe in cui saremo accettati.  Prigionieri di quell’omologazione che mette a tacere il fulgore della bellezza delle diversità, necessariamente vulnerabili. 

Sala Ottagonale della Domus Aurea

Per una buona salute poetica e politica è necessario quindi allenare la nostra inclinazione alla tenerezza, al doveroso affetto che la pietà riconosce alla ricca fragilità di noi umani.

Non c’è cura dell’anima e del corpo, se non accompagnata dalla tenerezza che, oggi ancora più che nel passato, è necessaria a farci incontrare gli uni con gli altri, nell’attenzione e nell’ascolto, nel silenzio e nella solidarietà” – ci ricorda Eugenio Borgna nel suo “Tenerezza“ (Einaudi 2022).

E anche Massimo Recalcati in ”Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” (Castelvecchi editore 2024) ci ricorda – già dalla prima prefazione al libro – che non salvaguardare l’esistenza della nostra intelligenza creativa inconscia “significa mettere in gioco un’intera concezione dell’uomo che si sostiene sull’importanza del pensiero critico e sul carattere particolare e incommensurabile del desiderio soggettivo”

E così, con la complicità di Fabio Stassi e di Franco Piana, ha trovato espressione ieri sera il canto della Musa Euterpe “ …che dona a coloro che l’ascoltano cantare letizia…” (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica IV, 7.3). Un canto che è una carezza che, insieme, ci libera e ci unisce. Lì, negli insoliti vani del complesso della Sala Ottagonale, straordinaria macchina scenica creata dagli architetti Severo e Celere per rispondere al progetto visionario di Nerone. 

Uno spettacolo – questo di Fabio Stassi e di Franco Piana – prezioso, necessario, terapeutico.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del libro ELOGIO DELL’ INCONSCIO – Come fare amicizia con il proprio peggio – di Massimo Recalcati

Castelvecchi Editore Collana Frangenti – 2024

In questo libro di accattivante bellezza Massimo Recalcati, noto psicoanalista e saggista, dimostra quanto sia vantaggioso non mettere a tacere il nostro inconscio.

Pur essendo un “elogio”, al tono della solennità Recalcati preferisce quello di una narrazione dalla sapiente pragmaticità, per invitarci a non lasciare andare – ma anzi a difendere – i nostri desideri inconsci: quelli in attesa di essere guardati con nuovi occhi.

A sigillo di questa consapevolezza, sceglie di inserire in esergo – quale prima fascinosa presentazione al libro – un passo della ballata di Fabrizio De André, ispirata ad una poesia dell’ “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters: la ballata intitolata “Un medico”, sesta traccia della raccolta “Non al denaro, non all’amore né al cielo” (1971).

E, attraverso il racconto di quell’esigenza vocazionale –  tesa ad individuare lo stato di salute dei ciliegi nel loro rinnovato bianco rifiorire, piuttosto che nella realizzazione di una rossa maturazione – ci arriva tutto l’inebriante profumo del libero uso del linguaggio dell’inconscio. 

Capace di rassicurare stimolando, Massimo Recalcati desidera fin da subito trasmetterci la sensazione che i nostri desideri, le nostre inclinazioni, non meritano di essere snaturati – e quindi traditi – per essere piegati a diventare qualcosa che risulti conforme alle richieste della società. Che ci vuole efficienti e prestanti come macchine, piuttosto che creativi come persone. 

Richieste sociali dalle quali ci lasciamo tentare per essere accettati, piuttosto che allontanati ai bordi della società come diversi. Solo perché interessati a conoscere meglio noi stessi – e quindi le nostre potenzialità – fino a  “diventare ciò che siamo” : quel qualcosa di speciale e unico che si manifesta attraverso continue rifioriture. Ed è proprio qui la nostra dignità, la nostra salute e la nostra felicità. 

Accettare di desiderare ciò che invece è la società ad obbligarci subdolamente a desiderare, all’insegna di una piatta etica del sempre nuovo – vale a dire desiderare possedere oggetti e affetti sempre “più nuovi” al fine di ritrovarci tutti anonimamente in una innocua felicità omogenea – comporta che i nostri autentici desideri inconsci abdichino alla loro originalità, per farsi numeri spenti di una massa informe, dove ciascuno replica lo stesso desiderio dell’altro. Senza utilità per nessuno, se non per chi ci vuole mansueti, addomesticati e quindi non pericolosi perché non pensanti.

E non vale la pena aspettare di essere morti – come ci suggerisce la lettura dell’ Antologia di Spoon River – per immaginare di poter esprimere tutta la verità su noi stessi.

Anche la scelta iconografica per la copertina del libro di Recalcati – l’opera di Claudio Parmiggiani Senza titolo”, 1995 – contribuisce fascinosamente nell’emanare tutta la bellezza esplosiva del potere creativo, chiuso nella nostra razionalità inconscia. La luce stessa di quel pigmento di giallo di cadmio puro, per sua essenza, ha una carica simbolica di prorompente vigore, come già gli artisti di fine Ottocento ben sapevano.

Claudio Parmiggiani, “Senza Titolo”, 1995 – Vetro, pigmento di giallo di cadmio puro, tavola 100×140

In questo saggio Massimo Recalcati sceglie di tessere l’elogio dell’inconscio freudiano passando attraverso il “dar voce” a tutte le critiche avanzate dai suoi detrattori contemporanei più agguerriti – soprattutto i terapeuti cognitivo-comportamentali e una parte della cultura filosofica, in particolare Jean-Paul Sartre, Herbert Marcuse e Gilles Deleuze – per poi arrivare a confutarle, dimostrandone l’inefficacia.

Così facendo, Recalcati ci fornisce un’audace testimonianza del rispetto del principio freudiano secondo il quale chi la pensa diversamente ha comunque diritto di essere accolto e ascoltato con attenzione. 

Perché pensare diversamente non significa essere inefficienti; ma soprattutto perché l’ossessione all’efficientismo spegne in noi ogni originalità, predisponendoci verso la prepotenza tipica degli intolleranti. 

Con questa postura Massimo Recalcati manifesta anche la sua vocazione antropologica di psicoanalista, consapevole che l’interiorità di un individuo non è mai da considerarsi a sé rispetto all’esterno in cui è immersa.

Recalcati, quindi, resiste e ci invita a resistere “a pugni chiusi” contro la tendenza che vuole estinguere l’intrepidità del nostro inconscio, lui che solo sa aprirsi all’eventualità dell’inatteso. 

Perché non salvaguardare l’esistenza dell’inconscio e quindi smarrire il nostro rapporto singolare con il desiderio significa mettere in gioco “un’intera concezione dell’uomo che si sostiene sull’importanza del pensiero critico e sul carattere particolare e incommensurabile del desiderio soggettivo” – scrive Recalcati nell’ Introduzione alla prima edizione di questo libro. 

Perché chi non è disposto ad ascoltare una voce diversa rispetto a quella del proprio “io”, è destinato a perdere il contatto con la propria linfa vitale, che ci consente di dare forma al nostro desiderio.

Ecco perché è fondamentale riallacciare un rapporto di confidenza e di amicizia anche con la razionalità di quella parte di noi stessi che ci sembra meno “presentabile” . 

Preziosissima, anche, per bilanciare quelle pretese narcisistiche che derivano da un’eccessiva consapevolezza della propria identità. O per non rimanerne succubi, visto che chi sceglie di disconoscere la presenza di un inconscio, attribuisce paranoicamente all’altro le proprie responsabilità. Ma così facendo non potrà mai aprirsi né al dono della gratitudine né a quello del perdono. Doni che implicano la conquista della consapevolezza che la nostra parte “oscura” non è poi così diversa da quella che vediamo nell’altro. 

A sua volta la razionalità del desiderio chiede, nonostante il suo impeto – anzi proprio per l’irruenza del suo impeto – di trovare un limite, un ostacolo, nelle leggi del vivere civile, così da poter offrire il meglio di sé: essere creativa, senza correre il rischio di essere impositiva. 

Per questo, per un vivere davvero costruttivo, è indispensabile che entrambi i tipi di razionalità (quella del controllo e quella della libertà creativa dell’inconscio) siano in fertile conflitto. 

Annullare la presenza di una delle due razionalità diventerebbe davvero limitante.

Fino a diventare distruttivo.

E’ questo di Massimo Recalcati un libro che attrae magneticamente e che, pur nella complessità dei temi trattati, stimola una seducente e trepidante simpatia in chi legge.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CHI COME ME di Roy Chen – regia di Andrée Ruth Shammah

TEATRO FRANCO PARENTI, dal 5 Aprile al 5 Maggio 2024

Andrée Ruth Shammah ci invita a salire a bordo della sua nave – la nuova sala A2A – e un po’ come il Prospero shakespeariano fa scoppiare una tempesta. 

Che non colpisce solo gli interpreti in scena. No, coinvolge anche noi del pubblico. Perché siamo tutti nella stessa barca: qui si parla della vita e di come possa essere desiderabile anche la morte.

E’ naturale – come ama ricordare Roy  Chen autore di questo appassionante e commovente testo – che la vita sia abitata da conflitti, da tempeste. Ma tutti noi sappiamo che possiamo contare sul “dialogo”: quel movimento che fa sì che due (o più) persone si lascino attraversare dal potere della parola. 

Roy Chen

Quel movimento che fa “incontrare” due (o più) singolarità che scoprono di preferire alle proprie ragioni rigidamente individuali quelle che nascono dall’incontro con le ragioni dell’altro. Perché il dialogo è il linguaggio della “relazione” e renderla possibile è lo scopo della nostra esistenza, qui in questo mondo. Perché solo attraverso la relazione ci riveliamo “creatori” e quindi artisti del vivere quotidiano. 

Misurare il nostro spazio vitale, definirlo rigidamente, ci regala l’illusione di sentirci sicuri e quindi forti. Ma in realtà ci rende “poveri”, sterili, proprio perché “separare” non genera vita, non fa nascere alla realtà cose nuove. 

Sala A2A

Di questo ci parla la postura con la quale ci accoglie questa sala: la A2A il cui nome è un omaggio allo sponsor che ha permesso l’ultima trance dei lavori.

Una postura che ci commuove: regala una scossa ai nostri individualismi e li fa crollare. Questa sala è così bella – una vera “figata” – perché così può essere la vita, se ci ricordiamo che siamo tutti sulla stessa barca e che “insieme” si ottiene molto di più che custodendo “da soli”, sterilmente, i nostri confini esistenziali. 

Non si poteva trovare modalità migliore, forse, per ricordarci “chi siamo”. E che per scoprirlo abbiamo bisogno di stare “insieme” agli altri, così diversi da noi e proprio per questo così preziosi per noi. 

Perché “la libertà non si definisce, si testimonia”, sosteneva Vitaliano Trevisan

Vitaliano Trevisan

Qui siamo nel libro di Roy Chen. 

Qui siamo nel libro della vita. 

Questa è la prossemica che possiamo tenere per essere “ricchi”, per essere “forti”: la prossemica del mescolarci, dell’incuriosirci compassionevolmente dell’altro. La cui diversità ci parla anche di noi e ci permette di amarci. E di avvicinarci al miracolo del “perdono”: ciò che resta di una “tempesta”, non solo shakespeariana.  Ciò che resta di un conflitto. 

La diversità è tra noi: non a caso il reparto di igiene mentale nello sguardo registico ed esistenziale della Shammah non resta confinato sul palco ma ci raggiunge in platea. E ci contamina fertilmente. L’allestimento scenico é curato da Polina Adamov.

La sala A2A

La diversità è in noi: ciò che notiamo nell’altro, in qualche forma, è anche in noi. E’ quello che consideriamo il nostro peggio e con il quale ci guardiamo bene di venire in contatto, mantenendo accuratamente le distanze, rinforzando i confini. Indossando maschere.

Invece è lì, in quella stranezza, in quel “difetto” provocato in noi da “una ferita” che ci ha segnati, che si nasconde qualcosa capace di generare cose meravigliose di noi. 

Sa parlarne con sapiente fascino la nuova edizione di “Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” di Massimo Recalcati (Castelvecchi). 

Più forte però è la tentazione a vergognarci dei nostri “difetti”: allora rinforziamo i nostri confini per delimitare la stranezza, per non farla uscire da lì. Addirittura riusciamo a dimenticarla. Convincendoci – e impegnando tutte le nostre energie a convincere anche gli altri – del contrario. 

Ecco allora l’importanza di allenare invece quell’ abilità – che tutti noi possediamo – del chiederci e del chiedere “Chi come me”.

Abilità al cui “sboccio” partecipiamo attraverso questa stupefacente rappresentazione teatrale. Che in verità è la semplice ed autentica riproposizione di qualcosa che è realmente accaduto all’autore del testo Roy Chen nel 2019: quando fu invitato a partecipare ad una lezione di teatro nel reparto giovanile di un centro di salute mentale di Tel Aviv. 


In scena – anzi tra noi – 5 splendidi adolescenti “diversi” con la freschezza e la grazia del loro essere ragazzi e con la pesantezza di essere diventati precocemente adulti. Sono interpretati da intensissimi attori esordienti (dai 14 ai 21 anni): Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani.

Sono ragazzi che hanno la fortuna di essere guardati con meravigliosa attenzione dallo psichiatra direttore del reparto ( un appassionato Paolo Briguglia) che ogni mattina prima di svegliarli si prende un attimo: “ode” i loro respiri quando dormono e li trova la più ammaliante delle sinfonie. 

Paolo Briguglia e Federico De Giacomo

Desidera essere inserito – e quindi incluso, accettato – nei loro respiri: non tanto nelle loro menti. Perché il respiro è qualcosa di più profondo: regge la vita alla base. E più in alto, regge anche architetture senza le quali stenteremmo a pensare.

E parla di loro all’insegnante di teatro, la signorina Dorit (una commovente Elena Lietti), con l’incanto di “chi sa che sono come noi”. Ma con un contrappunto di Seriquel, Helydol, Prisma e Ritalin.

Sarà l’azione sinergica della cura dello sguardo e dell’ascolto poetico dello psichiatra mescolati all’erotica della didattica teatrale della signorina Dorit a produrre rigogliosi frutti nei 5 ragazzi, nonostante le non sempre favorevoli “condizioni atmosferiche”.

Elena Lietti

Perché efficaci nel lasciare il proprio segno sono quegli insegnanti che con il loro stile hanno la “capacità di immedesimarsi” rendendo possibile l’esistenza immaginifica di nuovi mondi. Riattivando così quel desiderio capace di accendere la vita e di allargarne l’orizzonte. Solo in questo modo ad ogni diversità sarà restituita la propria singolare bellezza.

Perché se è vero, come è vero, che l’empatia è importante, lo è ancor di più che non diventi un pretesto per imporre il proprio sguardo. Errore nel quale possiamo avere la tentazione di cadere noi genitori. Che infatti non possiamo non trovare qualcosa di nostro nella varietà degli atteggiamenti dei genitori di questi ragazzi, tutti interpretati con viva maestria da Sara Bertelà e Pietro Micci.  Perché i legami che durano nel tempo sono quelli che si fondano sul riuscire ad amare l’altro proprio in quanto diverso da noi.

Pietro Micci e Sara Bertelá

E intanto, superata la tempesta, qualcosa è successo.

Perché scendendo dalla nave (la nuova sala A2A) si ha una strana voglia: quella di non voler essere poi così normali. 

Il teatro contagia, per fortuna. E cura le nostre preziose fragilità.

E finché ci saranno urgenze che prenderanno forma attraverso regie di così profonda testimonianza, avrà ancora “sapore” il nostro stare al mondo.

Grazie Andrée Ruth Shammah: “randagia dello spirito”.

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CHI COME ME

di Roy Chen

adattamento, regia e costumi di Andrée Ruth Shammah
traduzione dall’ebraico Shulim Vogelmann

con in o.a. Sara BertelàPaolo BrigugliaElena LiettiPietro Micci
e con Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani

allestimento scenico Polina Adamov
luci Oscar Frosio
musiche di Brahms, Debussy, Vivaldi, Saint-Saëns, Schubert … e Michele Tadini

assistente alla regia Diletta Ferruzzi
assistente allo spettacolo Beatrice Cazzaro
consulenza vocale Francesca Della Monica
direttore dell’allestimento Alberto Accalai
direttore di scena Paolo Roda
elettricista Domenico Ferrari
fonico Marco Introini
sarta Marta Merico
scene costruite da Riccardo Scanarotti – laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati da Simona Dondoni – sartoria del Teatro Franco Parenti
gradinate costruite da Pietro Molinaro – Scena4
Si ringrazia Bianca Ambrosio per averci fatto conoscere Roy Chen

produzione Teatro Franco Parenti

rassegna La Grande Età, insieme

Partner culturale

Fondazione Ravasi Garzanti

In collaborazione con

RINASCENTE

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Recensione di Sonia Remoli