Recensione dello spettacolo SOLE & BALENO – Una favola anarchica – Opera originale di Teatro Musicale – testo di Pietro Babina – musica di Alberto Fiori

TEATRO LE MASCHERE, dall’8 al 10 Ottobre 2024 –

Cosa c’è di meno omologante – e quindi di più scandalosamente creativo – del colore giallo? 

Già per Van Gogh e per tanti pensatori della sua epoca il giallo era il simbolo del rifiuto dei valori vittoriani di repressione del sé. Il giallo induce a una vita versatile e vagabonda e tale è anche la natura del pigmento stesso: instabile, facile ad annerirsi. Gli artisti sapevano bene quanto fosse insidioso questo colore. Più recentemente però è Claudio Parmiggiani ad offrirne un magnifico esempio in una sua opera – Senza Titolo, 1995 – dove brilla tutta la bellezza esplosiva del potere creativo del giallo. Opera non a caso scelta per vestire la copertina di un saggio di Massimo Recalcati sull’inconscio: “Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” (Castelvecchi editore, 2024). 

Claudio Parmiggiani, “Senza titolo”, 1995

E di giallo si avvolgono i protagonisti in scena ieri sera sul palco del Teatro Le Maschere: Serena Abrami, Pietro Babina, Alberto Fiori. Per la parte inferiore del corpo scelgono il nero: un colore in perenne espansione, pronto ad inghiottire tutto. Come l’omologazione. Ma gialle sono anche le loro postazioni: luoghi fisici e della mente. E il fondale grigio alle loro spalle è sì metafora di un muro ma dove ogni blocco è in comunicazione con l’altro grazie a dei confini osmotici e quindi creativi. Gialli, appunto.

Questa tensione cromatica incarna perfettamente un tema portante di “Sole & Baleno” – l’opera originale di teatro musicale di Pietro Babina – e cioè quanto sia necessario, ma maledettamente complesso, resistere alla tentazione di restare inghiottiti in una paralizzante e mortifera omologazione.

Infatti nel tentare di superare la nostra inclinazione naturale alla sopraffazione, dobbiamo anche confrontarci con la paradossale tentazione di desiderare abdicare alla nostra libertà. Consegnandola nelle mani di chi ci promette di prendersene cura, sgravandoci dal peso della sua ebbrezza. Perché la libertà porta con sé anche l’angoscia legata alla sua grande apertura. Ma mentre noi fatichiamo a rendercene consapevoli, chi in società pretende di presiedere ai nostri desideri ne è così consapevole da approfittare, quasi come sciacalli, del fragile potere della libertà umana. 

Pietro Babina e Serena Abrami ci veicolano attraverso la musicalità polimorfica della loro voce – prima ancora che con il significato delle parole – lo straniamento necessario per ridestarci da quell’eccessivo bisogno che per natura abbiamo di sentirci al sicuro. Perché sentirsi al sicuro spesso implica il lasciarsi manipolare da qualcuno.  Ecco allora che allo straniamento vocale Babina concerta quello musicale prodotto dalle mutevoli, fluttuanti, instabili, incostanti, imprevedibili composizioni musicali di Alberto Fiori. Brecthianamente straniare aiuta infatti a “de-automatizzare” la nostra percezione, inducendo nel fruitore della percezione un’impressione insolitamente viva di un determinato contenuto.

L’occasione di quest’affascinante opera originale di teatro musicale viene da un fatto di cronaca di alcuni anni fa, passato in sordina dai media dell’informazione. Negli ultimi anni ’90 del Novecento, in una stagione di lotte e sabotaggi contro la costruzione della TAV Torino-Lione, furono arrestati due giovani attivisti: Soledad Rosas (qui Sole), ragazza argentina, e il suo compagno Edoardo Massari (qui Baleno, il suo soprannome) anarchico italiano. Imputati di associazione sovversiva e soggetti a reclusione preventiva, si suicidarono a breve distanza l’uno dall’altro. Dopo 4 anni, però, la Corte di Cassazione lasciò cadere per mancanza di prove l’accusa di sovversione e terrorismo.

Il lavoro drammaturgico di Pietro Babina parte da questo fatto di cronaca e va molto oltre. Attraverso la sua capacità di lettura e di interpretazione della realtà, Babina infatti indaga e fa emergere quelle che sono le grandi potenzialità insite nella realtà, provocando un’interessante interrogazione su che cosa sia umano e cosa vada oltre.

Un indagare il suo che è l’attitudine a non dare per consolidato né per esaurito nessun livello dell’agire umano e artistico, per poter restare curiosi verso sempre nuove letture.  Così dall’osservazione dei mutamenti sociali, tecnologici, estetici nasce quel tipo di comprensione che porta Babina all’individuazione di potenzialità applicabili anche agli ambiti dell’arte.  

Ad esempio il concetto di “occupazione”: un concetto che contiene una potenzialità preziosa che è quella del “non rimanere indifferenti”. E quindi quella di non limitarsi al lamento solipsistico, solo perché unica forma di pensiero (addomesticato) conciliabile con quell’omologarsi alla massa, così rassicurante ma così anonimo.

Un germe fecondo, quello della potenzialità insita nel concetto di occupazione,  del quale Babina si è lasciato più volte fertilmente contagiare in gioventù: quando rimase affascinato da una fabbrica di scatolame abbandonata e occupata, nella quale riuscì a dare vita – concordando uno spazio con gli occupanti – a quella che fu la prima idea del suo  “Teatrino clandestino”. E ancora quando, durante gli anni dell’Accademia, frequentò un laboratorio di Leo de Berardinis nel primissimo luogo occupato di Bologna.

E proprio durante gli ultimi anni dell’esperienza del “Teatrino clandestino” nasce “Candide”: una performance sui generis dove prende forma una evoluzione concertata tra scena, musica e personaggio. E dove al giovane Babina si affianca già il musicista Alberto Fiori. Una performance dove qualcosa del personaggio “Candide” sembra ora passare nella Sole di Serena Abrami: quel suo splendido “perdersi nel mondo” e quella certa necessita di “coltivare il proprio giardino”, così necessari anche oggi. 

Obiettivo dell’indagine di Babina è infatti far sì che il Teatro e la Musica trovino il modo per essere efficaci – e quindi magnetici – nel ridare vitalità a posture ossidate della società, in concorrenza con la tensione manipolatrice dei mass media.

Ed effettivamente in questa opera originale di teatro musicale che è “Sole &Baleno” Pietro Babina cerca e trova in noi percorsi sotterranei e giacimenti emozionali preziosi per il nostro risveglio esistenziale.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del libro ELOGIO DELL’ INCONSCIO – Come fare amicizia con il proprio peggio – di Massimo Recalcati

Castelvecchi Editore Collana Frangenti – 2024

In questo libro di accattivante bellezza Massimo Recalcati, noto psicoanalista e saggista, dimostra quanto sia vantaggioso non mettere a tacere il nostro inconscio.

Pur essendo un “elogio”, al tono della solennità Recalcati preferisce quello di una narrazione dalla sapiente pragmaticità, per invitarci a non lasciare andare – ma anzi a difendere – i nostri desideri inconsci: quelli in attesa di essere guardati con nuovi occhi.

A sigillo di questa consapevolezza, sceglie di inserire in esergo – quale prima fascinosa presentazione al libro – un passo della ballata di Fabrizio De André, ispirata ad una poesia dell’ “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters: la ballata intitolata “Un medico”, sesta traccia della raccolta “Non al denaro, non all’amore né al cielo” (1971).

E, attraverso il racconto di quell’esigenza vocazionale –  tesa ad individuare lo stato di salute dei ciliegi nel loro rinnovato bianco rifiorire, piuttosto che nella realizzazione di una rossa maturazione – ci arriva tutto l’inebriante profumo del libero uso del linguaggio dell’inconscio. 

Capace di rassicurare stimolando, Massimo Recalcati desidera fin da subito trasmetterci la sensazione che i nostri desideri, le nostre inclinazioni, non meritano di essere snaturati – e quindi traditi – per essere piegati a diventare qualcosa che risulti conforme alle richieste della società. Che ci vuole efficienti e prestanti come macchine, piuttosto che creativi come persone. 

Richieste sociali dalle quali ci lasciamo tentare per essere accettati, piuttosto che allontanati ai bordi della società come diversi. Solo perché interessati a conoscere meglio noi stessi – e quindi le nostre potenzialità – fino a  “diventare ciò che siamo” : quel qualcosa di speciale e unico che si manifesta attraverso continue rifioriture. Ed è proprio qui la nostra dignità, la nostra salute e la nostra felicità. 

Accettare di desiderare ciò che invece è la società ad obbligarci subdolamente a desiderare, all’insegna di una piatta etica del sempre nuovo – vale a dire desiderare possedere oggetti e affetti sempre “più nuovi” al fine di ritrovarci tutti anonimamente in una innocua felicità omogenea – comporta che i nostri autentici desideri inconsci abdichino alla loro originalità, per farsi numeri spenti di una massa informe, dove ciascuno replica lo stesso desiderio dell’altro. Senza utilità per nessuno, se non per chi ci vuole mansueti, addomesticati e quindi non pericolosi perché non pensanti.

E non vale la pena aspettare di essere morti – come ci suggerisce la lettura dell’ Antologia di Spoon River – per immaginare di poter esprimere tutta la verità su noi stessi.

Anche la scelta iconografica per la copertina del libro di Recalcati – l’opera di Claudio Parmiggiani Senza titolo”, 1995 – contribuisce fascinosamente nell’emanare tutta la bellezza esplosiva del potere creativo, chiuso nella nostra razionalità inconscia. La luce stessa di quel pigmento di giallo di cadmio puro, per sua essenza, ha una carica simbolica di prorompente vigore, come già gli artisti di fine Ottocento ben sapevano.

Claudio Parmiggiani, “Senza Titolo”, 1995 – Vetro, pigmento di giallo di cadmio puro, tavola 100×140

In questo saggio Massimo Recalcati sceglie di tessere l’elogio dell’inconscio freudiano passando attraverso il “dar voce” a tutte le critiche avanzate dai suoi detrattori contemporanei più agguerriti – soprattutto i terapeuti cognitivo-comportamentali e una parte della cultura filosofica, in particolare Jean-Paul Sartre, Herbert Marcuse e Gilles Deleuze – per poi arrivare a confutarle, dimostrandone l’inefficacia.

Così facendo, Recalcati ci fornisce un’audace testimonianza del rispetto del principio freudiano secondo il quale chi la pensa diversamente ha comunque diritto di essere accolto e ascoltato con attenzione. 

Perché pensare diversamente non significa essere inefficienti; ma soprattutto perché l’ossessione all’efficientismo spegne in noi ogni originalità, predisponendoci verso la prepotenza tipica degli intolleranti. 

Con questa postura Massimo Recalcati manifesta anche la sua vocazione antropologica di psicoanalista, consapevole che l’interiorità di un individuo non è mai da considerarsi a sé rispetto all’esterno in cui è immersa.

Recalcati, quindi, resiste e ci invita a resistere “a pugni chiusi” contro la tendenza che vuole estinguere l’intrepidità del nostro inconscio, lui che solo sa aprirsi all’eventualità dell’inatteso. 

Perché non salvaguardare l’esistenza dell’inconscio e quindi smarrire il nostro rapporto singolare con il desiderio significa mettere in gioco “un’intera concezione dell’uomo che si sostiene sull’importanza del pensiero critico e sul carattere particolare e incommensurabile del desiderio soggettivo” – scrive Recalcati nell’ Introduzione alla prima edizione di questo libro. 

Perché chi non è disposto ad ascoltare una voce diversa rispetto a quella del proprio “io”, è destinato a perdere il contatto con la propria linfa vitale, che ci consente di dare forma al nostro desiderio.

Ecco perché è fondamentale riallacciare un rapporto di confidenza e di amicizia anche con la razionalità di quella parte di noi stessi che ci sembra meno “presentabile” . 

Preziosissima, anche, per bilanciare quelle pretese narcisistiche che derivano da un’eccessiva consapevolezza della propria identità. O per non rimanerne succubi, visto che chi sceglie di disconoscere la presenza di un inconscio, attribuisce paranoicamente all’altro le proprie responsabilità. Ma così facendo non potrà mai aprirsi né al dono della gratitudine né a quello del perdono. Doni che implicano la conquista della consapevolezza che la nostra parte “oscura” non è poi così diversa da quella che vediamo nell’altro. 

A sua volta la razionalità del desiderio chiede, nonostante il suo impeto – anzi proprio per l’irruenza del suo impeto – di trovare un limite, un ostacolo, nelle leggi del vivere civile, così da poter offrire il meglio di sé: essere creativa, senza correre il rischio di essere impositiva. 

Per questo, per un vivere davvero costruttivo, è indispensabile che entrambi i tipi di razionalità (quella del controllo e quella della libertà creativa dell’inconscio) siano in fertile conflitto. 

Annullare la presenza di una delle due razionalità diventerebbe davvero limitante.

Fino a diventare distruttivo.

E’ questo di Massimo Recalcati un libro che attrae magneticamente e che, pur nella complessità dei temi trattati, stimola una seducente e trepidante simpatia in chi legge.


Recensione di Sonia Remoli