Recensione dello spettacolo IL TUO NOME BRUCIA SULLE MIE LABBRA – regia Alessandro Sena –

TEATRO BELLI, dal 26 settembre al 1 Ottobre 2023

Che cos’è l’amore se non un incontro speciale che riesce a interrompere il nostro normale scorrere del tempo, il nostro precedente modo di stare al mondo ?

Anche su questo ci invita a riflettere l’appassionante spettacolo di Alessandro Sena “Il tuo nome brucia sulle mie labbra”, andato in scena ieri sera in prima nazionale nell’avvolgente intimità del Teatro Belli, nel cuore di Trastevere.

L’amore ci fa fare esperienza della nostra massima apertura verso l’altro. Ma non sempre si riesce a fare un buon uso di questa nostra incondizionata apertura. E allora l’amore può trasformarsi nel luogo della chiusura, della prigionia, dell’ossessione, della ripetizione. Dell’assedio.

Alessandro Sena

Questa è la condizione in cui si trova la protagonista del libro “Un corp en trop” della scrittrice francese Marie-Victoire Rouillier, libro caso letterario in Francia negli anni ’80 per gli straordinari contenuti e la bellezza del testo, di cui Alessandro Sena ha curato la traduzione italiana e dalla quale ha tratto lo spettacolo “Il tuo nome brucia sulle mie labbra”.

Non un adattamento ma un’autentica messa in scena di 20 lettere selezionate ed estrapolate dal libro, che ne raccoglie nella totalità 40: quelle che una giovane donna scrive e indirizza alla sua amata, ritiratasi in convento.

Lettere che – forse lette e poi accartocciate dalla destinataria o invece cestinati tentativi di seduzione, ritenuti non soddisfacenti dallo stesso mittente – giacciono a terra, ricoprendo quasi interamente il palco. Come un corpo che si offre e che ripetutamente viene rifiutato. Tocco scenografico potentissimo. 

In una realtà come quella attuale in cui si tende spesso a irridere l’amore ritenendo che ogni amore nasca portando con sé la propria morte e quindi nasca con una breve data di scadenza, questo testo recuperato e addirittura tradotto in italiano da Alessandro Sena ha il valore di riportare appassionatamente l’attenzione sull’immensità alla quale l’amore ci apre e ci consegna. Anche se qui si tratta di un amore che non ce la fa a tollerare questa apertura incondizionata. 

Attraverso una messa in scena ferocemente tenera, la regia della parola di Alessandro Sena trova la chiave per farci riflettere – sequestrandoci l’attenzione dell’anima – su che cos’ è il desiderio. Su come si nutra di tatto ma anche di segni di attenzione e di mancanze. E sul potere plasmante della parola dell’altro.

Ma la regia di Alessandro Sena non manca di sottolineare efficacemente anche quella tentazione tutta narcisistica che comunque può abitarci e che ci vorrebbe auto-fondanti. Nel dare corpo a queste due spinte contrastanti, il regista sceglie di scommettere su giovani promettenti interpreti: otto, tante quante le ombre che – come inquiline – abitano il condominio dell’inconscio dell’amante.

Le otto interpreti in scena – Angela Di Domenico, Erika Fusini, Chiara Iannacone, Francesca Mele, Sara Morassut, Marta Porfiri, Micaela Iago e Sania Ricchi – rapiscono il pubblico, che inconsapevolmente si lascia andare immedesimandosi a specchio con ciò che accade sulla scena. E sentiamo insistentemente queste ombre rotolarsi anche nelle nostre pance. La partecipazione è tale che un sublime silenzio ci lega tutti e solo momentaneamente ci libera in sospiri.

Sono ombre che acquistano corpo attraverso la densità delle voci, tutte diversamente e lacerantemente affamate d’amore. Ogni ombra fa di tutto per farsi ascoltare ma quanta struggente bellezza quando le ombre si compongono coreograficamente! I loro rituali ossessivamente circolari; la potente simbologia dell’amore simbiotico rappresentato attraverso l’insana sacralizzazione del rito della comunione (il peccato originale dell’amante); la loro rabbia vendicativa da Erinni; la loro ebrezza da Baccanti; la splendida liturgia di un Alleluja illuminato dalla sinistre luci delle candele, poste sotto i loro volti. E poi la brama finale: quella del tatto con la terra, con il suolo.

Ombre incapaci di amare davvero, cioè pur non essendo corrisposte. Non a caso, forse, il nome dell’amata non è mai pronunciato. E perciò brucia sulle labbra dell’amante che non c’è la fa a chiamarla per nome assegnandole un’autentica identità. Perché qui l’altra, l’amata, è una proiezione del sé dell’amante: non c’è nell’amante una vera apertura all’affascinante diversità dell’amata. C’è brama del suo corpo, delle sue attenzioni ma non decolla mai “un vero incontro” che, solo, può produrre una nuova nascita di se stessi e quindi una riconfigurazione del mondo esterno.

Non riesce l’amante descritta nel conturbante testo della Rouillier – ma non possiamo fare a meno di amarla anche per questo – a provare una sana curiosità per l’irriducibile diversità dell’amata. Una diversità che, anche se non corrisponde, non necessariamente deve portare a reazioni violente. Anche verso se stessi. E la regia di Sena non a caso non regala un corpo all’amata. Né all’amante: quelle in scena sono solo le sue ombre inconsce. Quelle che hanno finito, purtroppo, per “cibarsi” del suo corpo. 

Accuratissima l’attenzione alla resa delle ombre. Un abito, identico per ciascuna, che esteticamente e registicamente è anche un habitus: un esuberanza castrata. Una seconda morbida pelle di stoffa nera, allora, si lascia stringere sul ventre da un’ambigua guaina contenitiva che ammicca alla seduzione di un reggi giarrettiera. Castrante però: ricco in ulteriori lacci velati, che ne suggellano la costrizione.

Uno spettacolo e un libro che ci parlano della difficoltà di amare e di amarsi. Ferite di cui Alessandro Sena riesce a fare lancinante poesia.


Recensione di Sonia Remoli