Recensione dell’episodio n. 5 della Saga NELLE PUNTATE PRECEDENTI – regia Pier Lorenzo Pisano e Alessandro Di Murro

Una saga familiare 

ideata 

dal Gruppo della Creta e da Pier Lorenzo Pisano

per riflettere

sulla trasposizione della narrazione seriale a Teatro 

Episodio n.5

Titolo: “A te, fra 25 anni”

Autore: Rebecca Righetti

In scena: Shadi Romeo, Elena Vanni

Tra impazienza e nostalgia, sfidando la pioggia e l’insolito freddo, anche ieri sera si era in tantissimi ad aspettare l’ultimo episodio della saga familiare “Nella puntate precedenti”: A te, fra 25 anni di Rebecca Righetti.

Ad attenderci un finale di stagione che, attraversando durezze inscalfibili, ci ha portati a sognare, per poi lasciarci come appesi ad un nuovo vuoto. 

“Fine delle trasmissioni” – l’ultima frase pronunciata – apre infatti a diverse letture, che vanno oltre quella relativa alla fine della prima stagione della saga.

Parlandoci anche, ad esempio, della possibile rottura della trasmissione dell’incantesimo che percorre tutta la saga. Il dare le spalle cioè alla “presa in carico” della maternità e più in generale della genitorialità. Alla presa in carico dell’aver cura di un altro da sé, com’è un figlio, destinato poi a lasciare il nido familiare. Un investimento complesso e rischioso che richiede molto e che, in cambio, non si dà come una proprietà.

Ma ora, per la prima volta nella saga familiare, una figlia abbandonata e poi adottata sente l’esigenza di mettersi sulle tracce del proprio passato. E così facendo dà avvio ad un nuovo corso del presente, che parte da quell’eredità, ma che ora immagina come materia per una possibile costruzione personale.

“La presa non funziona” – dice Giulia (una commovente e commossa Shadi Romeo): non si produce infatti calore.

“Lo sapevo”  – risponde Serena (un’efficacissima Elena Vanni) – e propone una presa che è lì in stanza. Ma che lei – anzichè fare in modo che produca calore tra loro – fa sì che diventi il confine tra avversarie di uno stesso campo da gioco.

E poi come un deus ex machina cade il tetto di contenimento e scende un’altalena, dove al momento nessuno sale, ma che prelude ad un seguito di continue sedute oscillanti, esistenzialmente incendiarie, tenute sospese da nuove catene.

Ciò che resta, che lo spettatore si porta con sé, è il potere del dono: di una postura vitale generosa, che sa andare oltre le regole del gioco, oltre la ritualità chiusa di un incantesimo, oltre le cinture di sicurezza. E che riesce a fare breccia sull’altro, nonostante tutto. 

Prima ancora di scartarlo, infatti, il dono di Giulia viene accettato e tenuto in grembo da Serena come fosse un bimbo appena nato. Come un nuovo inizio: una nuova occasione di maternità. 

Giulia sceglie non a caso come dono un pezzo unico, speciale, diverso da tutti gli altri dello stesso genere: per riconoscere a Serena l’unicità del suo essere madre, madre biologica. 

E’ una fonte di luce: come vorrebbe che accettasse di essere ora Serena, fin dall’inizio rimasta all’ombra della sua vita.

Ma in amore non vale il merito, non vale la giustizia: l’amore va oltre. Ed è tale se riesce ad accogliere e a fare un fertile uso delle fragilità, degli errori, delle mancanze, dell’altro.

Ne parla con poetico disincanto la prossemica della madre, sempre sulla difensiva e quella della figlia sempre a tentare, sempre a corteggiare, fino a sedurre le resistenze materne.

Ma poi quando alla dichiarazione di “simpatia” arriva in risposta una dichiarazione di “estraneità”, Giulia molla la partita.

E, a qualche livello, continua a vincere: ora sua madre, in solitaria, si scioglie con noi del pubblico in un racconto immaginativo, che apre nuovi orizzonti alle parole castranti con le quali è riuscita a farla andar via: “non ci saranno altre puntate !”.

E invece no, qualcosa si muove. 

Serena non sale sull’altalena ma si appoggia a una delle catene che la sostengono, confidandoci che “c’è una storia che non esiste, un soggetto che non è stato ancora girato…”.

E noi questo soggetto si aspetta di condividere nelle “prossime puntate”, quelle di una nuova stagione. Per saperne di più ma soprattutto per scoprire cosa deciderà di fare Giulia di questo nuovo incontro con il suo passato.

Una Serie Teatrale, questa de “Nelle puntate precedenti”, che reinventando il tempo del teatro lo ha saputo trasformare in un rito seriale. E così facendo ha conquistato Roma.

Un esperimento narrativo e teatrale che come tale apre una nuova frontiera nella drammaturgia contemporanea, trasformando la serialità — linguaggio per eccellenza del nostro tempo — in un’esperienza scenica condivisa, intima e collettiva.

Dopo lo strepitoso successo dei primi cinque episodi, con un seguito in costante crescita, repliche raddoppiate e una partecipazione del pubblico che ha superato ogni previsione, l’esperimento è decisamente riuscito.

Non ci resta che attendere il sequel.

E, nell’attesa, continuare ad immaginare i possibili esiti di questa esplorazione delle proprie origini. Perchè questa storia, che tanto ci avvince, riguarda tutti noi.


NELLE PUNTATE PRECEDENTI


Recensione di Sonia Remoli

PLUTO. O IL DONO DELLA FINE DEL MONDO – regia Alessandro Di Murro

TEATRO BASILICA

dal 30 Settembre al 3 Ottobre 2025

Che cosa ci fa sentire ricchi? E’ sufficiente avere molti soldi?

E la giustizia? Ci rende soddisfatti?

Ma allora, che cosa riesce a gratificare il nostro “senso di mancanza”?

Serve diventare tutti ricchi ?

O abbiamo bisogno di “andare oltre”, per riscoprirci comunità?

Come il Pluto di Aristofane andò in scena alle Feste Lenee del 388 a.C. – così chiamate perché celebrate nel Leneo, prima forma di teatro ospitata nel grande recinto dove si trovava il più antico tempio di Dioniso – così il Pluto. O il dono della fine del mondo di Anton Giulio Calenda e Valeria Chimenti per la regia di Alessandro Di Murro ha aperto questa nuova stagione del Teatro Basilica Mania. Così chiamata perché dedicata alla riscoperta del potere della “Mania”.  Una stagione che prende avvio sul confine tra il settembre e l’ottobre romano e che profuma d’ambrosia, tanto l’entusiasmo fermentativo da cui sa lasciarsi contagiare.

Mania è l’essere posseduti da una follia sacra, che permette di “vedere oltre”.
Mania è “farsi mancanza”, liberando il controllo di sé per riuscire a fluire. Aprendosi verso l’ altro da sé.

Quattro, secondo Platone, erano le forme in cui la mania poteva declinarsi, ciascuna ispirata da un diverso dio. Tra queste, la “Mania iniziatica” era quella ispirata da Dioniso e dai suoi culti. Come le Feste Lenee, appunto: occasioni di purificazione e di rinnovamento, che avvenivano anche attraverso la messa in scena di agoni comici e tragici. Dioniso è infatti simbolo di questa ambivalenza: in lui convivono elementi di vita, di morte e di rinascita, come testimoniato dal mito a lui legato. 

Ad Atene, al tempo di Aristofane, andavano a teatro circa 20.000 persone: tutti, anche le donne, nonostante la società ateniese fosse decisamente maschilista. La vera partecipazione popolare si dava infatti a Teatro:  un luogo necessario affinchè le persone potessero incontrarsi, imparando ad entrare in relazione con l’altro. Per dare vita ad una comunità.

I temi trattati dalle mordaci e geniali commedie di Aristofane (450 a.C. – 385 a.C.) erano quelli che affliggevano la vita quotidiana dei cittadini. Ma quando Aristofane mandò in scena il suo Pluto, la vita della polis stava attraversando un profondo cambiamento politico. Sconfitta nella guerra del Peloponneso (404 a.C.), Atene vive il declino della sua potenza e la fine della democrazia. Di conseguenza, dai bersagli politici ad personam – che caretterizzavano la satira politica delle commedie precedenti – si passò ad un cambiamento di tono, focalizzato ora su questioni sociali, morali e ideologiche. Come la distribuzione della ricchezza e la critica alla disuguaglianza, appunto. 

La perdita della libertà politica e il conseguente interesse verso temi meno rischiosi (come quelli mitologici) portarono parallelamente anche un cambiamento nella struttura della commedia: la scomparsa della funzione della “parabasi” e la riduzione della funzione del “coro”. Nel Pluto aristofaneo infatti, dopo la parodo, il ruolo riservato al coro si riduce e, attraverso sporadici e limitati interventi, giunge fino alla sostituzione della parte testuale con la sigla ΧΟΡΟΥ, che rappresenta un elemento di forte vicinanza con il teatro menandreo.


Nell’esplorazione e rivisitazione del testo portato in scena dagli interpreti del Gruppo della Creta – che fin da subito riescono a stringere un effervescente rapporto con il pubblico – il coro non è più composto da vecchi e stanchi contadini ma, come Cremilo e Carione, da insoddisfatti borghesi, poveri in eros vitale.

La parabasi, assente nel Pluto aristofaneo, qui occhieggia per poi essere presa in mano dagli stessi personaggi. Che si limitano però ad invitare gli spettatori a fare offerte al dio e a sondare le tendenze del pubblico sul tema della ricchezza.

E poi c’è l’introduzione di un rockeggiante dio alato, forse Eros: cùpido di desiderio amoroso e non di cupidigia materiale. A lui è affidata la funzione tragica e grottesca di commento.

Perché Cremilo si preoccupa del futuro che vivrà suo figlio? Forse perché desidera per lui un destino migliore? O magari perché i figli riescono ad amare solo padri ricchi?

Quella del dio alato è una narrazione che utilizza anche un tono da parabola e che richiama, attraverso il sorriso, una profonda riflessione da parte del pubblico. Le parabole contengono infatti una verità. Ma questa è come un “mistero” da cercare e approfondire. Chi non si impegna e “non apre il proprio cuore” ne rimane fuori, senza capirne il significato profondo. 


E per sottolineare con ridicolo contrasto il modo in cui Cremilo invece si impegna a “manipolare” il responso di Apollo, la regia di Alessandro Di Murro utilizza il dio alato per ammantare la figura di Pluto del profumo di “un messia”. Di un’entità cioè attesa come apportatrice di pace, perfezione e giustizia. Capace di inaugurare un tempo nuovo e definitivo.

Ma Apollo aveva consigliato a Cremilo di seguire colui che avrebbe incontrato all’uscita, non di ridargli la vista. Perché la sua cecità non è affatto un minus: è lì, il senso del responso. “Quando ci vedrai, la vita di tutti migliorerà” – dice invece Cremilo a Pluto – regneranno così la pace e il bene, perché la povertà sarà scomparsa”.


E così è in un ring – che registicamente prende forma da quegli eccessivi legami di sicurezza e di potere dai quali gli uomini fanno fatica a liberarsi – che viene condotta Penia, dea della Povertà: per combattere contro (e non “con”) Pluto, il dio della ricchezza. Nell’illusione di una comunità più giusta. Non è neanche immaginata una coesistenza delle due divinità: l’una deve necessariamente soccombere all’altra. Perché così (utopicamente) si pensa che la giustizia possa prendere forma: senza la paura della mancanza, della povertà.

Una ricchezza che poi viene distribuita dal Pluto vedente, senza fare differenze di merito. E che porta gli uomini, ormai tutti ricchi, a una vita spalmata a terra. Senza neanche più la tensione ad alzarsi, per provvedere al proprio sostentamento. Tutti ormai “padroni”, nessuno più “servo”.

“Possedere” etimologicamente significa infatti conquistare la postura esistenziale dello stare seduto, tipica di un padrone. Come opportunamente visualizzato dalla prossemica degli interpreti in scena che, solo una volta divenuti tutti ricchi cittadini ateniesi, assumono la postura da padroni.


Ma qualcosa è sfuggito in questa ricerca della ricchezza e della giustizia . E in una tragicamente comica eterogenesi dei fini, pur avendo eliminato la povertà, manca quel soddisfacimento che si era (utopicamente) immaginato. Ed è così che la vittoria assoluta di Pluto, dio della ricchezza, porta in dono ai suoi “fedeli” la fine del mondo. Perché la ricchezza può diventare una vera e propria s-mania distruttiva per gli uomini.

Nell’Atene del 388 a.C. , così come oggi, regna la tendenza a voler negare quel senso di perdita che abita le vite degli uomini. E che può stimolare un diverso “desiderare”: che non si accontenta del godimento immediato, ma che s’intriga a circumnavigare l’oggetto del desiderio, così da rendere questo diverso desiderare creativo. Donativo.

Ed è così che l’adattamento di Anton Giulio Calenda e Valeria Chimenti e la regia di Alessandro Di Murro accennano ad un possibile diverso finale, che si gioca intorno al concetto di “dono”. 


Perché il “dono” è tale quando il valore dell’oggetto  – al di là di quello di mercato – è dato dal suo essere rivolto all’altro.

Perché il dono porta le tracce di chi lo fa, ma poi è l’altro che lo riceve e che ne dispone liberamente.

Perché è in questo passaggio cruciale dalla logica del possesso a quella del dono, che si dà il superamento dell’individualismo verso l’apertura all’altro, il superamento della solitudine verso la relazione, il superamento della distruzione verso la creazione. Passaggio possibile perché sullo sfondo resta – e si ha cura di non cancellarla – la consapevolezza della mancanza ad essere e a poter avere tutto.

 
Abitare la mancanza, nel nostro tempo intossicato dal mito della ricchezza, è la vera sfida per l’essere umano: accettarla, farci i conti quotidianamente e renderla feconda. Uscendo dal guscio sterile e distruttivo della schiavitù dell’oggetto. Per riuscire a costruire e a sostenere quelle relazioni proprie di una comunità.

 
Il nostro ontologico senso di “mancanza” ( io abito con voi da sempre” – fa dire Aristofane a Penia, la dea della povertà) è molto più di un vuoto che si accontenta di essere chiuso dalla prospettiva di possedere sempre più soldi. E’ un mistero che chiede di essere attraversato, abitato, esplorato. E non fuggito, o scacciato.

Non a caso Platone nel “Simposio” fa della dea Penia la madre di Eros, il dio dell’amore. Il cui padre è Poros: il dio della via, del percorso. Eros, il dio del desiderio vitale, si origina quindi per Platone proprio attraverso  la via (Poros) della mancanza (Penia). 


Gli interpreti in scena – Matteo Baronchelli, Alessandro Di Murro, Alessio Esposito, Amedeo Monda, Laura Pannia – che agiscono in una scena volutamente nuda, lasciata immaginare dalla ricca “scenografia verbale” dei dialoghi, brillano nel travolgere lo spettatore con divertenti provocazioni, che aprono profondi spunti di riflessione.

Poeticamente comiche le coreografie e i commenti canori del coro (che vedono in scena anche gli allievi attori del progetto “Aristofane nostro contemporaneo”). Efficacemente plastico l’uso dei corpi, la rottura dei piani, l’espressività mimica, il portare la voce.


Interessante la scelta drammaturgica dei costumi: Pluto e il rockeggiante dio alato, vestiti alla maniera del loro microcosmo mitico; la dea Penia e i cittadini ateniesi in abiti contemporanei, a vissualizzare la marcata attualità del messaggio della commedia.


Nello specifico, la dea Penia in quanto esiliata dalla vita, è vestita a lutto. Ma con il nero le cose sono sempre complicate. Il nero, così come il bianco, è una traduzione della luce: in questo caso una traduzione della sua assenza. Mai totale, però. Il bianco invece riflette tutte le onde luminose. Però tutte allo stesso modo. Una splendida metafora che visualizza assai efficacemente gli habiti (i modi di fare) dei personaggi.

I cittadini vestono infatti tutti in tailleur tutti uguali, dove il bianco della camicia resta quasi interamente avvolto in una sfumatura di grigio perla. Colore che parla di una saggezza data solo da evidenze oggettive (come ben suggerito anche dall’enfasi fittizia regalata alle spalle di Cremilo e Cairone). E, in quanto tale, mediocre: un compromesso di eccessiva prudenza.

Come quella che spinge a dover essere tutti ricchi.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL DIO DELL’ACQUA – di Gianni Guardigli – regia Alessandro Di Murro –

Con Daniela Giovanetti e Amedeo Monda

TEATRO BASILICA

dal 13 al 16 Febbraio 2025

Chi meglio del dio dell’acqua sa sciogliere i pesi e i grumi che opprimono e intasano la fluidità della nostra esistenza?

Anche lui li ha vissuti sulla propria pelle; anche lui si è perso naufragando dentro la tempesta della vita.

Anche lui è acqua: l’elemento fluido da cui tutto può originarsi e in cui tutto può tornare a prendere forma. Generosamente, senza trattenere nulla. Ma lasciando che sempre nuove forme prendano vita, all’interno di un ciclo in continua trasformazione. Il dio dell’acqua infatti si dà per movimenti.

Daniela Giovanetti

Protagonista di questo testo di grande bellezza lirica, scritto dal drammaturgo  Gianni Guardigli, è una creatura che in nome del diritto alla libertà propria e altrui si scopre a far del male. Un istinto alla sopravvivenza e una libertà di scelta che passano attraverso forme di “violenza”.  

Sono pesi che non se ne vanno, sono grumi che non si fluidificano, perché non ci sono parole giuste per spiegare e per capire. Forte è la tentazione a voler morire, dopo aver visto quello che la creatura ha visto di se stessa. Ma qualcosa inaspettatamente muterà, nel momento in cui continuerà a stare nel ciclo della vita, fino alla fine. 

Daniela Giovanetti

Una fine tempestosa che non è “la” fine, ma ancora l’inizio di nuove trasformazioni. Un inizio che arriva come una piacevole e rigenerante brezza: un nuovo, eppur lo stesso, respiro vitale. Un nuovo sogno, sul pelo dell’acqua. E una voglia matta di sprofondare: di tuffarsi per scendere più giù. Fino a perdersi. Senza avere paura di essersi persi. Tanto che, in questa nuova condizione, riesce a farsi strada un’insospettata contentezza: quella che ti fa sentire come un dio, il dio dell’acqua, che nulla vuole trattenere perché disponibile a tutto trasformare.

Amedeo Monda – Daniela Giovanetti

Ad interpretare questo vibrante monologo – diretto da Alessandro Di Murro e prodotto dal Gruppo della Creta – è una voce così candidamente piena di colori, da ammaliare. Lei, sirena e naufraga, ci parla come immersa in un canto pieno di meraviglia, che è insieme lamento e preghiera. Ma soprattutto è vita: quella che prende forma quando ci si guarda e ci si ascolta. E si naufraga. Insieme. Come avviene a Teatro.

Daniela Giovanetti

Lei è Daniela Giovanetti: la creatura metafisica il cui corpo della voce si estende in una morfologia ancestralmente ibrida. Dove bene e male si scoprono non solo a convivere, ma ad essere legati in un paradossale rapporto di causa-effetto.

Il suo parlare crea la suggestione come di un’eco: un’opera scultorea eppure impalpabile, di cui si rende fertile complice l’ombrosa drammaturgia della chitarra elettrica di Amedeo Monda. Ed è emozione. 

E’ l’epifania del palesarsi di un riflesso dalla bellezza indistinta e cangiante, insito già nella stessa parola “eco”. Che infatti al singolare è di genere femminile e al plurale diviene di genere maschile. 

Daniela Giovanetti

La lingua della ninfa Giovanetti assapora tutto l’espandersi del significante e del significato. Per frammenti. Una dilatazione che inaspettatamente si dà nel chiudersi in continui confini, fecondi di micro pause, che ne sottolineano l’incanto generativo.  

Uno spettacolo di favolosa bellezza estetica, complice la drammaturgia del disegno luci di Matteo Ziglio e la cura dei costumi di Giulia Barcaroli. Ma soprattutto uno spettacolo che propone un approccio conoscitivo, dal fascino potentemente rigenerativo, sulle mille meraviglie che si celano nel nostro stare al mondo: come ospiti di un ciclo che ci vuole insieme navigatori e naufraghi. Divinamente felici perché fruibili – in quanto temporanei fruitori – da sempre nuove meraviglie: come quelle disciolte nella magia del ciclo di trasformazione dell’acqua.

Amedeo Monda – Alessandro Di Murro – Daniela Giovanetti – Gianni Guardigli


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo BEATI VOI CHE PENSATE AL SUCCESSO NOI SOLI PENSIAMO ALLA MORTE E AL SESSO – drammaturgia Tommaso Cardelli e Tommaso Emiliani – regia Alessandro Di Murro –

TEATRO BASILICA, dal 14 al 17 Novembre 2024

Metti una sera al Basilica con la platea insufficiente ad accogliere un’onda di ventenni;

metti 5 interpreti del collettivo “Gruppo della creta” in scena con una performance ispirata alle opere di Juan Rodolfo Wilcock;

metti un titolo “Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso”

ne scaturirà una pubblica manifestazione di consenso e ammirazione.

Juan Rodolfo Wilcock (1919 – 1978)

I giovani hanno apprezzato l’idea di una performance-rituale, musicalmente accogliente, libera da una rigida architettura.  Come la scena: un luogo della mente abitato da un unico oggetto di scena – un divano gonfiabile bianco – nella duplice valenza etimologica di luogo di confine e di luogo poetico. 

Ma niente di statico, però: proprio così come nel mondo persiano, le decisioni più importanti erano prese nei divani a cavallo (riunioni condotte in sella) così, qui, il divano è l’occasione per fare altro.

Interrogarsi, ad esempio. 

Un interrogarsi immaginato come un movimento rituale con un dentro e un fuori dal confine della dogana-divano: quasi un’area psichica inconscia, foriera di continue domande. E identificata in un tronco nudo e secco. 

In effetti è questa la struttura della performance: un rituale tra una parte e l’altra del confine, tra conscio e inconscio, tra domande e risposte, non necessariamente chiare ed esaustive. Ma in rapporto osmotico.

E’ il ritratto di una generazione, quella attuale, che s’interroga sulla morte, sul sesso, sulla verità. Meno sul successo. Lo fa con dolcezza sensuale ma anche feroce. Ma ciò che conta è non smettere di interrogarsi. 

E poi continuare, sempre, ad immaginare. 

Come Wilcock raccomandava a suo figlio: 

“… Ricorda che c’è una sola cosa/ affermativa, l’invenzione; /il sistema invece è caratteristico/della mancanza d’immaginazione./Ricorda che tutto/ accade /a caso e che niente dura, /il che non ti vieta di fare/ un disegno sul vetro appannato,/né di cantare qualche nota/ 
semplice quando sei contento;/può darsi che sia un bel disegno,/che la canzone sia bella: /ma questo non ha certo importanza, /basta che piacciano a te…”.

E immaginando, vivere. Anche, in attesa di passare all’atto, stazionando su un divano: luogo-dogana in cui si trasportano le energie prima di introdurle nel paese di destinazione. Immaginando come poter arrivare lì, dove si desidera andare. Perché, come diceva Wilkock:

Vivere è percorrere il mondo
attraversando ponti di fumo;
quando si è giunti dall’altra parte
che importa se i ponti precipitano.
Per arrivare in qualche luogo
bisogna trovare un passaggio
e non fa niente se scesi dalla vettura
si scopre che questa era un miraggio”.

Una performance, questa del Gruppo della Creta (qui in scena Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Amedeo Monda, Laura Pannia, Alessandro di Murro) che fotografa una criticità attuale e ne propone una lettura non necessariamente fatalista. Anzi, incline a quella propositività dello “stessere ciò che c’incuora” di cui parlava Wilcock:

“Ripudiamo la facilità/come si allontana un serpente;/la facilità/dissolvente quasi-verità./ Del pensiero troppo ordinato/scoraggiamo la seduzione;/negli eccessi dell’argomentazione/non sperperiamo il nostro legato./Cerchiamo soltanto di stessere/dal tessuto di ogni ora/ciò che ci nutre, ciò che/c’incuora,/ l’universalità dell’essere.

La platea sembrava respirare assieme agli interpreti, tanta la partecipazione.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA LEZIONE di Eugène Jonesco – regia di Antonio Calenda –

TEATRO BASILICA, dal 6 al 10 Marzo 2024 –

E’ una danza, un rituale di sublime bellezza la messa in scena de “La Lezione” di Eugène Jonesco per la regia di Antonio Calenda, che ieri sera ha debuttato a Roma nella metafisica cornice del Teatro Basilica.

Teatro Basilica

La prossemica ha la grazia di una coreografia; la vocalità veste i toni del canto; i corpi raccontano ciò che le parole non sanno dire.

Quando i principi della logica saltano, a parlare è la lingua dell’inconscio: quella dove eros thanatos amano darsi appuntamento.

Complice la raffinata drammaturgia delle ombre (disegnata da Luigi Della Monica) che, bisbigliando possibili pericoli, lascia scoperti i nervi della platea.

Così anche la scena (di Paola Castrignanò): elegante e altera cela in sé, al di là della solidità apparente, misteriosi vuoti inquietanti.

E poi i costumi (la cura è di Giulia Barcaroli):  impeccabili  “divise di ruolo” borghesi, che proprio per la loro maniacalità realistica insinuano dubbi sulla realtà stessa. 

Nando Paone (il Professore) e Daniela Giovanetti (l’Allieva)

Di magrittiana bellezza la scelta registica di far sì che l’entrata in scena del Professore – interpretato da un Nando Paone mirabilmente a suo agio tra realismo e surrealismo – sia anticipata dall’entrata del suo “cappello di rappresentanza” (per mano della Governante : un’efficacissima Valeria Almerighi). Non sarà mai indossato ma resterà sempre in scena, come tributo (ipocrita) alle apparenze borghesi.

Nando Paone (il Professore) , Daniela Giovanetti (l’Allieva) e Valeria Almerighi (la Governante)

Nonostante l’ossequiante rispetto delle formalità borghesi, lo spettatore è condotto dal regista nell’individuare  l’insinuarsi sulla scena di inaspettate perversioni alla norma. 

Non ultimo, il fatto che la scena si svolga in un (apparente) studio ricavato da una sala da pranzo: luogo deputato alla consumazione del pasto. Ma anche i contenuti di una lezione richiedono di essere ben masticati da un allievo o da un’allieva (qui da una candida e irresistibile Daniela Giovanetti).  Altrimenti sarà cura del Professore impartire un altro tipo di lezione: una lezione esemplare.

Nando Paone (il Professore) e Daniela Giovanetti (l’Allieva)

Delicatamente erotico è lo stile che il regista sceglie acutamente di seguire per lasciarci fin da subito assaporare come la comunicazione possa prendere un gusto ambiguo, al di là delle regole costruite dalla logica.

Inclusa la stessa tensione tra professore e allieva: in bilico tra il distacco didattico e l’attrazione alchemica. Ma così è: lo diceva già Platone che s’impara solo per seduzione. E lo stesso professore di Jonesco ne è consapevole: più volte si rimprovera di non aver fatto degli esempi “efficaci” difronte alla mancata comprensione dell’allieva. E allora si lancia in una modalità incantatoria che poi vira al parossismo.

Daniela Giovanetti (l’Allieva) e Nando Paone (il Professore)

Perché “insegnare” significa etimologicamente lasciare un segno sull’allievo, lasciare delle tracce.  Jonesco stesso definiva questo suo testo un “dramma comico”: un umorismo che mira a confondere e a contraddire quelle che chiamiamo certezze.

Perché in realtà siamo immersi nell’ambiguità del caos delle informazioni.

Le convenzioni della logica ci aiutano ad intenderci sì, ma dimenticano “le diversità” di cui si compone la verità. 

Valeria Almerighi (la Governante) e Nando Paone (il Professore)