9 -12 Ottobre 2025

In quanti modi si può condividere un’attesa?
“Attesa” è una parola pulita. Eppure decisamente incisiva: infinite cose possono succedere, e quindi incidersi in noi, tra il momento in cui è fissato un appuntamento e il momento in cui si verifica.
L’attesa è un tempo vuoto, in cui però siamo messi in forte trazione. Per di più non sempre possiamo essere consapevoli della vera meta che ci aspetta.
Attendere è quindi una situazione paradossale: si attende qualcosa di indefinito.

Nicola Russo
E qui in “Acanto” Nicola Russo – che dello spettacolo è autore e regista – dimostra una fine capacità nel restituirci fascinosamente tutte quelle sfumature, relative alle tensioni contenute nella parola “attesa”.
Lo fa oltre che con una raffinata drammaturgia – intrigantemente banale – sia attraverso un efficace uso della prossemica, sia attraverso un sapiente lavoro sulle posture dei personaggi.
Personaggi fatti inconcontrare in uno spazio scenico – una sala d’attesa anch’essa misteriosa nella sua apparente banalità – che allude a qualcosa che prenderà una non banale direzione (le scene sono curate da Giovanni De Francesco).

Alessandro Mor – Gabriele Graham Gasco
C’è tutto in questa sala d’attesa: c’è il tabellone del codice numerico (con il quale attendere il proprio turno), ci sono le sedie dove sedersi e ci sono le strisce a terra, diversamente colorate, che accompagnano i pazienti verso i vari percorsi terapeutici.
Ma stranamente le sedie non sono rivolte verso il tabellone: non se ne curano. Stanno aspettando qualcuno che – credendo di essere interessato a un controllo medico o al risultato di analisi – si scoprirà interessato a conoscere “il risultato di un incontro” con un (apparente) sconosciuto. Un sano imprevisto, che rivela la sotterranea attesa di conoscere meglio se stessi.

Alessandro Mor
In questa sala – luogo spaziale ma anche mentale – si palesa allora un uomo adulto (interpretato in florida sottrazione da Alessandro Mor) preoccupato, più che per l’appuntamento medico, per l’eventualità di essere visto, scoperto. Apparentemente dagli altri.
Un uomo senza nome: felice scelta drammaturgica che se da un lato ci aiuta a sentire il suo isolamento, dall’altro riesce a farci avvertire come il suo sentirsi fragile lo accomuni a ognuno di noi.
Lì in quella sala d’attesa sente, infatti, da qualche parte della propria anima, la tensione propria di un presentimento: quel luogo lo agita per essere così aperto e privo di difese. La prima battuta che pronuncia con sollievo spaventato è: “non ho nessuno davanti”. Come a rassicurarsi di non dover confrontarsi, come allo specchio, con qualcuno che lo ha preceduto nel tempo.
Anche al telefono dice di non aver bisogno né di compagnia, né di sostegno. Ma di una maschera (parrucca, occhiali): la sala d’attesa è come se lo mettesse a nudo con sé stesso. È come se lo portasse allo scoperto.
E invece lui, come quella casetta abbandonata e quasi “mangiata” dalla jungla vegetativa che la circonda – che vede guardando fuori dalla finestra della sala – vorrebbe solo mimetizzarsi, anzi nascondersi dal sole. Prediligendo l’ombra, come la pianta dell’acanto: splendida creatura riservata, dai confini spinosi.

Ed è ora che può – proprio quando sta sciogliendo gli ormeggi delle sue difese – entrare “un altro” nella sala d’attesa e nella sua comunicazione telefonica. Sintonizzandosi e invadendo il “suo spazio” e il “suo sentire”.
Un altro sé giovane (interpretato da un Gabriele Graham Gasco dalla fibra espressiva accesa, ricca in nerbo, e insieme soave) che gli fa notare tutto ciò che li differenzia: l’età, la gustosa attenzione ai dettagli, l’ebbrezza per il rischio.
Allora iniziano a “spiarsi” l’un l’altro.
L’essere così estroverso del giovane, inizialmente lo irrita. Ma poi se ne fa contagiare. E diventa reciproca l’interazione, dove chiedere all’altro di “vedere a occhi chiusi e poi raccontare” risulta una chiave per aprire le porte chiuse delle due individualità.

(ph. Nicola Russo)
A sottolineare questa poetica, cifra stilistica di Nicola Russo, entrano in scena anche dei video (la cui cura è di Matteo Tora Cellini), che interrogano e rivelano oniricamente lo stare al mondo intimamente segreto dei personaggi. Attraverso la creazione artistica, infatti, lo sguardo dello spettatore è guidato in un diverso microcosmo dove il dentro e il fuori, l’uno e l’altro trovano una loro armonia.
Splendido il lavoro sul corpo di entrambi gli interpreti in scena: corpi così fermi eppure così potentemente e in diversa maniera comunicativi. Nello specifico: tanto il se’ giovane interpretato da Gabriele Graham Gasco rompe continuamente i piani dello spazio in torsioni, muovendosi seducentemente tra la tensione comunicativa dello “spingersi verso l’altro” e il separarsene per imbarazzo, o per ritirarsi in una propria bolla immaginativa; quanto il sé adulto di Alessandro Mor risulta efficacissimo nella sua quasi totale assenza di azione fisica.

Gabriel Graham Gasco
Eppure arriva allo spettatore tutta la tensione che muove sotterraneamente la sua immobilità. E sebbene il suo corpo, e quindi i suoi gesti, non denotino trazione, eppure c’è. E si sente. Tutta incanalata com’è nella voce, nel modo di timbrarla, nel deglutire, nel modo di indirizzare lo sguardo. Ne parla anche il suo stesso modo di vestirsi: la ricchezza inquieta del panico del bianco con cui veste la parte superiore del suo corpo, viene stretta poi in un total black nella parte inferiore, che vorrebbe essere totale assenza di visibilità. Solo ombra di acanto.
Ma da giovane le cose stavano diversamente. L’altro da sé, che ora gli è difronte, sapeva aprire invece la confortevole felpa chiusa e lasciar vedere come ciò che il nero avrebbe voluto inghiottire sapeva darsi invece alla fangosità del marrone, fino ad arrivare a contattare il fertile femminile del rosa. Per poi ricominciare. Circolarmente (la cura dei costumi è di Giovanni De Francesco).

Di fulgente bellezza poetica è poi quel suo “posso venire con te ( immaginandomi nei tuoi ricordi anche traumatici)?” e quel “prova! (a immaginare di essere tu, me, in quella situazione e poi raccontamela) dell’altro. Varchi che aprono al contatto delle due aree dello stesso animo.
E’ il potere del riuscire a portare l’altro “con” noi.
E’ il potere di una staffetta, in cui si gioca sul serio a passarsi il testimone.
Uno spettacolo dalla bellezza delicata e pungente: così com’è l’attesa. Così comè l’acanto.

Uno spettacolo dove il passato viene restituito al suo valore di memoria fondante il presente, nonché il futuro. Una memoria a cui si può tornare ad attingere ogni volta – grazie al racconto partecipativo dell’altro da sé – cogliendo in essa sempre qualcosa di nuovo. Che non si era colto precedentemente. Da soli.
Una memoria che ci sta sempre di fronte attraverso la traccia che ha inciso in noi, ma che si può guardare in maniera aperta: sapendo aspettare, ad esempio, un nuovo racconto di essa.
Perché sono i racconti complementari al nostro di un testimone della nostra storia che, in uno sguardo lungo nel tempo, danno vita ad un’autentica biografia. Dove “con” lo sguardo di un altro possiamo rimettere insieme ciò che altrimenti andrebbe disperso.
Recensione di Sonia Remoli
